~ 5°_ Mistakes ~
Cooper era sempre stato elogiato per i
riflessi pronti e gli scatti da fermo di cui era capace, cose che, se sei il
capitano della squadra scolastica di football, sono decisivi per il match.
Ma mai avrebbe pensato che simili doti gli
sarebbero state utili per prendere in tempo suo fratello, che dopo le ultime
parole del dottore, semplicemente si era accasciato e avrebbe impattato col
suolo se lui non si fosse lanciato afferrandolo saldamente.
Col cuore che martellava all'impazzata, si
adagiò per terra, con suo fratello stretto tra le braccia e un groppo che
prendeva sempre più consistenza all’altezza della gola. Un infermiere gli si
avvicinò con una certa fretta e cercò di aiutarlo, prendendo il minore, ma
Cooper scattò come se in realtà volesse fargli del male.
«Lo lasci, me ne occupo io!», gli gridò,
facendo voltare tutti e lasciando interdetto l'uomo «Sono suo fratello»,
ribadì, come se la cosa lo rendesse in grado di prendersene cura in qualunque
circostanza.
L'infermiere lo guardò ancora per qualche
istante, indeciso su cosa fare, poi se ne andò con un'alzata di spalle,
lasciandoli lì. Il maggiore si lasciò andare a un sospiro di sollievo, quasi
avesse davvero salvato suo fratello e poi, scivolando sul pavimento, tirò
entrambi fino a far appoggiare la propria schiena contro il muro, tenendo
Blaine quanto più sollevato possibile, facendolo posare contro il proprio
petto. Gli scostò i capelli umidi dalla fronte e si accorse immediatamente del
taglio sopra l’occhio – lo sfiorò con calma e delicatezza, per poi scendere al
viso sporco di polvere e di pianto e solo allora una lacrima rigò anche la sua
guancia. Il suo fratellino era cresciuto, quasi stentava a riconoscerlo in quel
corpo da uomo e lo odiava perché non gli era stato accanto nei momenti più
difficili.
Si odiava anche lui per questo.
«Forse sarebbe stato meglio lasciarlo alle
cure dell'infermiere...», suggerì Puck, che in tutto quel caos non sapeva più
per chi essere preoccupato.
Cooper gli riservò uno sguardo sprezzante
di fastidio.
«No. Sono suo fratello, so prendermi cura
di lui», rispose acido.
«Come hai fatto fino ad ora, insomma», lo
attaccò stavolta l'altro, perché stava davvero cominciando a perdere le staffe
e non gli era sfuggita la poca gioia che Blaine aveva mostrato non appena lo
aveva visto – il fatto che ora a quel tizio fosse venuta voglia di giocare al
fratello maggiore gli dava sui nervi.
Anderson sussultò a quella frase, come se
fosse stato colpito con un coltello. Aveva ragione: non c'era mai stato per
Blaine negli ultimi anni, perché ora il suo intervento avrebbe dovuto contare
qualcosa?
«Sto... solo cercando di rimediare. Tu non
sai nulla di noi, non intrometterti!».
Avrebbe voluto rispondere con meno rabbia e
sgarbatezza, ma non era stato capace di trattenersi, nonostante l'unico con cui
avrebbe davvero voluto prendersela era se stesso. Strinse con più forza suo
fratello, e avrebbe voluto davvero che le sue scuse fossero abbastanza da
rimettere tutto a posto. Ma sapeva bene che non era così.
«Vi pare il mo-momento?».
La voce così incrinata e sporca di pianto
di Finn attirò l'attenzione di tutti sulla famiglia Hummel-Hudson che dal
momento in cui aveva davvero realizzato che cosa fosse successo, non aveva
detto una parola. Burt si era semplicemente riseduto sulla sedia, con lo
sguardo perso nel vuoto, senza fiatare, né fare nulla: lo shock aveva bloccato
ogni cosa; Carole gli stava accanto, il viso rigato dalle lacrime e una mano
che massaggiava quelle del marito, mentre gli sussurrava inutili parole di
conforto, anche solo per tentare di riscuoterlo.
Finn invece non si era mosso di un
centimetro. Era rimasto lì, in piedi, senza neanche accorgersi del fatto che
Blaine avesse perso i sensi o dell'intervento di Cooper. Le voci del battibecco
gli erano arrivate lontane, ovattato dal dolore e dall'incredulità in cui era
sprofondata. Aveva continuato a ripetersi che era solo un incubo, che davvero
non era possibile che una simile cosa fosse accaduta a loro, fino a che
l'esterno non gli era piombato addosso con le parole urlate dai due contendenti
e lo aveva turbato quasi più delle ultime notizie ricevute.
Suo fratello era in coma e loro litigavano
come se nulla fosse. Era una cosa che non avrebbe sopportato oltre – di questo
era certo.
«Scusa, Finn.. Io...», si pentì
immediatamente Puck e anche Cooper si sentì davvero in colpa – avrebbe dovuto
avere un po' di considerazione per quella famiglia e dopotutto il fatto che
quel ragazzo – Kurt? – fosse entrato in coma era il motivo per cui anche suo
fratello era in quelle condizioni.
Restò in silenzio, troppo in imbarazzo per
dire qualcosa, e prese a concentrarsi su Blaine, ancora incosciente tra le sue
mani. Doveva farlo rinvenire. Con dei lievi colpetti sul viso cercò di
riscuoterlo e quando vide che le cose non cambiavano, prese a chiamarlo.
«Blaine? Hey,
fratellino? Blaine, avanti apri gli occhi...».
Stava sul serio cominciando ad avere paura,
quando le palpebre del riccio si mossero per poi spalancarsi, gettando sguardi
d'ambra a tutto ciò che lo circondava. Per qualche istante Blaine ci sperò
davvero, che fosse stato solo un brutto incubo, ma quando riconobbe l'ospedale
e Cooper, la realtà tornò a schiacciarlo come non mai.
Non resistette oltre e scoppiò in un pianto
dirotto tra le braccia di suo fratello – non che gli importasse, in quel
momento non contava altro che piangere, perché sentiva che se non l'avesse
fatto sarebbe potuto scoppiare.
«Non posso perderlo, capisci?!», gridava
con voce indecifrabile «É la sola cosa buona che c’è nella mia vita... io non
posso perderlo! Non avrebbe più senso nulla... Cooper non posso perderlo!»,
continuava a gridare come un forsennato e il maggiore degli Anderson avrebbe
così tanto voluto promettergli che non sarebbe successo, che Kurt sarebbe stato
bene, ma la sola cosa che riuscì a fare fu stringere il più piccolo a sé e
tentare inutilmente di calmarlo.
Rachel, singhiozzando, strinse a sé Finn
che davvero non avrebbe voluto apparire tanto abbattuto, ma ancora non riusciva
a credere a quello che stava succedendo. Avrebbe voluto prendere suo fratello e
scuoterlo come aveva fatto Cooper fino a farlo svegliare tra le sue braccia;
allora gli avrebbe sussurrato che l'incubo era finito, che da allora tutto
sarebbe andato bene – avrebbe potuto farlo, perché sarebbe finalmente stata la
pura e certa verità.
Le restanti New Direction
si aggiravano nel corridoio più o meno tutti nelle stesse sconvolte condizioni.
Alcuni erano stati raggiunti dai genitori, ma dopo averli rassicurati, avevano
preferito restare con gli Hummel-Hudson ad aspettare che si sapesse qualcosa di
più di Kurt: per il momento non permettevano ancora a nessuno di vederlo.
Il professor Shuester
si era fatto medicare il taglio al braccio e dopo aver rassicurato per una
buona mezz'ora Emma sulle proprie condizioni e su quelle generali – senza tuttavia
entrare nei particolari per non farla agitare inutilmente, dato che non poteva
muoversi – aveva raggiunto i ragazzi, informandosi delle condizioni di Kurt e
offrendo il proprio sostegno a chiunque lì ne avesse bisogno.
«Sai, dovresti farti guardare quella
ferita», disse, rivolgendosi a Jeff, che dopo le brutte notizie riguardo Kurt
era rimasto in quel corridoio con Nick in attesa di novità.
Il biondo lo guardò come se ci stesse
impiegando del tempo per capire a cosa si riferisse e in effetti non disse
nulla fino a che l'uomo non gli indicò la gamba che recava una fasciatura rozza
e sporca di sangue. Come aveva fatto a dimenticare di essersi ferito? In
effetti bruciava e pulsava non poco, ma si accorse di sentirla davvero solo
facendoci attenzione: tutto quello che era successo, la catasta di cattive
notizie che continuava a cader loro addosso e le parole di Nick avevano fatto
in modo che non provasse nulla di definito, come se non fosse davvero lì
insieme agli altri e faticasse ad entrare nella scena.
«Io... lo farò, grazie», rispose,
probabilmente più per meccanica cortesia che per altro – tornò, infatti,
immediatamente a fissare il vuoto davanti a lui.
*
Dal vetro della stanza, osservava i due
adulti accanto al figlio con attenzione meticolosa, come se avesse voluto
imprimere nella sua mente tutti i particolari. L'affetto con cui la donna gli
accarezzava il volto, il pallore di quei lineamenti; la paura con cui l'uomo
invece gli teneva la mano, la fragilità di quella pelle invasa da tubicini e
sonde così estranee ad essa da sembrare invasori da scacciare con rabbia.
Osservava. Si limitava a quello. Non
sarebbe mai entrato, non l'avrebbe mai accarezzato, non avrebbe mai tenuto
quella mano. Non ne aveva alcun diritto e dopotutto non voleva farlo.
Oh, se avesse voluto farlo!
No, la verità era che non si sarebbe mai
permesso di farlo. Non lui, non Sebastian Smythe. Doveva innanzitutto fare
chiarezza nella sua testa, mettere in ordine le cose, tornare in sé e solo
allora si sarebbe concesso un qualunque gesto che fosse più avventato del
respirare o guardare. Perché ora non era lucido e Dio solo sapeva a cosa si
sarebbe lasciato andare, se solo non avesse avuto questo saldo controllo di sé.
Quindi meglio star fermi.
E poi, in fondo, non c'entrava nulla con
quel quadro familiare. Loro erano le persone che più tenevano a Thad, quella
che avrebbero fatto di tutto per lui e che non si sarebbero allontanate
per nessuna ragione al mondo. Lui... lui
no, lui non aveva fatto altro che trattarlo male ed tenerlo a debita distanza.
Lui non aveva mai usato parole di cortesia e di certo nessuno dei due avrebbe
potuto dire di poter contare sull'altro, neanche come conoscente.
Probabilmente, se Thad di fosse svegliato e l'avesse trovato accanto al proprio
letto, gli avrebbe semplicemente chiesto con disgusto cosa diavolo ci facesse
lì, per poi mandarlo via – e in fondo non era la stessa cosa che aveva già
fatto anche lui?
Il pensiero di rivederlo sveglio
improvvisamente gli tolse il fiato. Si accorse che davvero in quel momento non
avrebbe voluto altro che vederlo scherzare con gli altri Warblers e rassicurare
i suoi genitori, sorridere con semplicità e grattarsi la nuca con imbarazzo per
qualche aneddoto carino che la signora Harwood si sarebbe lasciata scappare con
qualcuno dei suoi amici.
No, lui non c’era in quella scena, non gli
importava esserci, non del tutto. Gli sarebbe bastato restare lì come
spettatore.
Non si accorse neanche per un attimo di non
essere solo un osservatore, ma anche un osservato: poco lontano da lui, seduto,
Richard non gli aveva staccato gli occhi da dosso. Ne studiava anche lui i
lineamenti ed ogni minima parvenza di movimento con attenzione meticolosa, come
se si aspettasse qualcosa da un momento all’altro.
«Sta reagendo bene».
La voce di Cameron non lo fece spaventare,
nonostante fosse così concentrato da non essersi accorto del momento in cui non
era stato più solo sui sediolini di plastica del corridoio.
«Sono uno stupido», sospirò, guardando il
suo compagno di stanza per un attimo, prima di abbassare gli occhi sul pavimento.
«E perché?», si sorprese quello «Solo
perché hai pensato che Smythe avrebbe potuto star male per questa cosa, non
significa di certo che sei stupido! Anzi, mostra quanto tu tenga davvero a
tutti i tuoi amici».
«Io... ero certo che avrei visto nei suoi occhi
lo stesso sguardo vuoto e la voglia di non fare nulla. Ero sicuro di sapere
come sarebbe finita e la cosa mi terrorizzava».
Cameron sospirò, facendosi improvvisamente
serio: doveva aspettarsi che una simile cosa, in un modo o nell'altro, avrebbe
destabilizzato Richard e anche se Sebastian stava bene, questo non aveva
evitato i mille pensieri che ora affollavano la testa del suo amico.
«È una cosa normale! Non serve farsi
problemi per questo: quello... quello che è successo a tua sorella... non è una
cosa che si supera così, in poco tempo–».
«Anni, Cam. Ci ho
messo anni e a quanto pare non mi è ancora passata», lo interruppe quello.
«Sai, credo sarà una cosa che, nel bene o
nel male, ti porterai sempre dietro. Sta a te, però, lasciare o meno che ti
condizioni così tanto. Non c'è nulla di sbagliato nell'aver avuto paura di
quello che sarebbe potuto succedere a Sebastian... l'importante è che non hai
dato di matto», tentò di scherzare per risollevarlo di morale.
«Questo solo perché tu mi hai calmato», gli
fece notare in modo scoraggiato.
«Arriverà il momento in cui saprai fare
tutto da solo e non avrai più bisogno di me», lo rassicurò Cameron, ma Richard
lo guardò improvvisamente serio.
«Non farò mai a meno di te», gli promise.
Sorrisero poi entrambi, come se per un
attimo quasi potessero dimenticare a quale pericolo erano appena scampati e
come alcuni dei loro amici, invece, erano stati meno fortunati. Erano quei
pochi istanti che spesso si intromettevano fra loro, senza un preciso preavviso
e li facevano sentire bene. Solo loro due. Tutto il resto scompariva.
Il rumore della porta della sala intensiva
che si chiudeva mise fine a quegli istanti, riportandoli senza alcun rimpianto
alla situazione in cui si trovavano. Si alzarono entrambi, raggiungendo l'altro
Warbler che non aveva ancora avuto la forza di dire nulla alla donna – questa
aveva sorriso verso di lui, poi si era appoggiata al vetro, osservando il
marito che ancora teneva la mano di Thad. Era difficile separarsi, ma la
signora Harwood aveva sentito l'improvviso bisogno di prendere aria, o avrebbe
rischiato di impazzire lì dentro.
«Vuole che le vada a prendere qualcosa da
bere? Magari una camomilla?», chiese gentile Sebastian, perché certo, era
stronzo, ma sapeva quando essere educato e soprattutto con chi.
La donna gli sorrise, scuotendo appena la
testa.
«Non preoccuparti, basterà una bottiglina
d'acqua» e Sebastian si allontanò verso il distributore prima che la madre di
Thad potesse anche solo pensare di mettere mano al portafoglio.
Si fermò davanti al primo che trovò, dopo
una svolta in fondo al corridoio, ricordandosi solo allora, guardando le
diverse marche di acqua, di non aver chiesto alla donna se avesse una qualche
preferenza particolare, né se di solito la prendesse liscia o gasata. Optò per
la prima, che essendo quella comune non avrebbe dovuto dispiacere in nessun
caso e ne prese per sé una gasata, così al limite avrebbe potuto fare cambio.
Le bottigline scesero con una lentezza
assurda, facendo poi un botto che non ci si aspetterebbe da cose così piccole.
Il ragazzo le raccolse con pigrizia, sussultando lievemente al freddo che
portavano e si mosse di nuovo verso la stanza del reparto davanti alla quale
era stato fermo per non sapeva più
quanto tempo.
Camminando, notò che Nick e Jeff erano
fermi a pochi passi dalla stanza: sapeva che avevano accompagnato il fratello
di Blaine dalle New Direction
e per un attimo si chiese se ci fossero stati feriti anche tra di loro. Poi
notò che qualcosa fra i due non andava. Nick si muoveva freneticamente avanti e
indietro, mentre Jeff se ne stava appoggiato al muro senza fare o dire nulla.
Nonostante tutto quello che era successo, non aveva potuto fare a meno di capire
che le cose fra loro, dopo il bacio che si erano scambiato fuori dal McKinley,
non stavano andando affatto bene – e l'esplosione doveva c'entrarci davvero in
minima parte.
Era stato tra i primi a sostenere che c'era
un legame particolare tra di loro e credeva che alla fine il mistero fosse
stato svelato; invece, le cose parevano essere peggiorare. Si fermò poco
lontano da loro, colto da una curiosità che non gli apparteneva così tanto, ma
a cui in quel momento non aveva saputo resistere.
All'improvviso Nick si fermò, come se
avesse finalmente trovato la risposta a qualcosa di davvero importante, e si
voltò verso il compagno che sembrava ad anni-luce da quel corridoio.
«Jeff», lo chiamò, prendendolo per le
spalle e costringendolo a guardarlo negli occhi «Voglio che tu mi prometta una
cosa», la voce gli tremò.
Anche il biondo sussultò a quella
richiesta, ma al momento aveva così poche forze che avrebbe davvero accettato
di tutto.
«Qualunque cosa accada, voglio che tu mi
prometta che noi saremo sempre migliori amici, che niente potrà cambiare
questo. Me lo prometti?»
Jeff sbiancò. Sapeva esattamente che cosa
in realtà Nick gli stava chiedendo: non voleva che il loro rapporto cambiasse,
né in peggio, né in meglio. Gli stava dicendo di non farsi strane idee, che
sarebbero potuti essere solo amici, migliori amici, ma nulla più. Lo stava uccidendo.
E Nick in quel momento di odiava, si odiava
perché sapeva quanto anche l'altro stesse soffrendo – perché era ovvio che
avesse capito ogni cosa –, ma non era in grado di fare diversamente: la paura
di perdere ogni cosa, in quel momento, era troppo forte. In una giornata era
stato come se il mondo gli fosse crollato addosso e Jeff era rimasto il suo
unico punto fisso: per nessuna ragione al mondo lo avrebbe alterato, in nessun
modo.
«Io... io lo prometto».
La voce del suo compagno di stanza, del suo
migliore amico non aveva mai fatto tanto male come allora. Avevano accettato
entrambi qualcosa di falso, qualcosa a cui Nick potesse aggrapparsi con
disperato bisogno e che Jeff aveva concesso senza aver la forza di far valere
le proprie ragioni.
Sebastian li guardò abbracciarsi e fu certo
che quello fosse il gesto più triste del mondo.
Non fece che qualche passo oltre i due
ragazzi che improvvisamente una strana lentezza, la stessa che sentiva in ogni
suo movimento, si diramò nella scena al di fuori di lui, in tutto ciò che lo
circondava. Gli parve di vedere le cose a rallentatore: dei medici,
riconoscibili dal camice bianco, che correvano verso la stanza, la signora Harwood
che si allontanava col marito, tenendo le mani sulla bocca, gli altri Warblers
in fermento che si muovevano a destra e manca senza fare davvero qualcosa. Poi
delle voci lontane.
«Portate un defibrillatore!».
«È entrato in arresto cardiaco!».
«Chiamate il medico!».
Gli mancò il fiato. In un attimo, ebbe di
nuovo la sensazione che l'intero mondo gli stesse franando addosso e che lui
non potesse fare altro che lasciare che tutto crollasse e stare ad aspettare.
Magari pregare e sperare che le cose non andassero così male – perché bene di
certo non sarebbero potute andare.
Le bottigliette gli scivolarono di mano
come se queste fosse fatte di burro. Si accorse che gli stavano tremando le
ginocchia e che se non si fosse seduto a breve, non sarebbero più state in
grado di reggere il suo peso. Tuttavia l'inerzia lo portò a muoversi verso
l'epicentro di quel nuovo terremoto senza neanche rendersene conto: si trovò
accanto ai suoi compagni, lo sguardo irrimediabilmente fisso sulla scena che si
svolgeva all'interno della stanza.
Thad. Thad era in arresto cardiaco. Thad
stava morendo. Thad.
In quel momento si rese conto che avrebbe davvero
potuto sopportare tutto, davvero tutto, ma non quello. Con ce l'avrebbe fatta
ad andare avanti con una cosa del genere. Non con la morte di Thad.
Se ne rese conto e ancora una volta ebbe
paura.
Ti prego, Thad. Ti prego. Non morire.
*
Non era mai stato così pallido. Blaine
aveva sempre amato la carnagione chiara di Kurt, la delicatezza che
trasmetteva, il modo in cui si colorava quando era in imbarazzo, sotto sforzo o
quando facevano l'amore. Amava ogni aspetto di quel colorito, ma ora stentava a
riconoscerlo. Non c'era nulla di quello che amava su quella pelle così pallida,
malata. E tutti i tubicini che la violavano non facevano altro che accrescere
il senso di inadeguatezza, di sbagliato che sentiva in quella situazione.
Non dovevano esserci loro lì, non doveva
esserci Kurt su quel lettino, né lui al capezzale, con Burt, Carole e Finn.
Loro dovevano essere a scuola in quel momento, a festeggiare per la vittoria
alle Regionali, o a consolarsi l'un l'altro per la sconfitta che avrebbe
bruciato per un po', ma poi li avrebbe resi più forti ed agguerriti. Quello
sarebbe dovuto essere l'ultimo anno di Kurt, alla fine avrebbe dovuto prendere
il diploma e andare a New York, per cominciare i corsi alla NYADA o ovunque
sarebbe stato.
E ci sarebbero stati problemi e litigate;
avrebbero sofferto per la lontananza, stringendo i denti battendo i pugni
contro il muro; si sarebbero lasciati perché uno avrebbe creduto di non essere
abbastanza per l'altro e paranoie simili e poi si sarebbero trovati di nuovo.
Blaine avrebbe sopportato ogni litigio,
ogni parola cattiva che senza volerlo davvero sarebbe uscita dalle loro bocche,
ogni lacrima, ogni dolore. Giurava che avrebbe sopportato tutto, davvero tutto
pur di avere ancora Kurt nella sua vita. Pur di non lasciarlo andare così,
senza poter fare nulla.
No, questo non l'avrebbe accettato.
Ti prego, Kurt. Ti prego. Non morire.
Un sospiro tremulo scappò dalle labbra di
Burt ed attirò la sua attenzione. Sollevò lo sguardo per scorgere l’uomo che
teneva la mano di suo figlio con un’espressione indefinibile sul volto: tutto
il dolore che si poteva immaginare non avrebbe eguagliato quello che leggeva su
quei lineamenti e non aveva mai visto quegli occhi chiari così spenti. Gli si
strinse ancora di più il cuore.
«È per quando sono stato male io, vero? Me
la stai facendo pagare per l’infarto dell’anno scorso, eh?», parlò con voce
spezzata «Ma ora siamo pari ed io mi sono svegliato, quindi devi farlo anche
tu, mi hai capito? Non ti azzardare, non ti azz-».
Non ce la face ad andare avanti, le parole
pesavano troppo e ferivano: non aveva la forza di farle uscire e perciò se ne
stesse di nuovo in silenzio, accanto a Carole, ad accarezzare quella mano,
pregando che anche quella storia, come un anno fa, finisse bene.
Finn si teneva un po’ più lontano, lo
sguardo basso che solo a scatti e per meno di pochi secondi alla volta sfiorava
suo fratello, quasi temesse che quella fragilità potesse essere accentuata da un
gesto di troppo. Sembrava così disorientato da fare tenerezza ed ora teneva lui
in mano il papillon che Kurt aveva indossato durante le performance.
Tutto sembrava così terribilmente lontano
per essere successo nella stessa giornata che a Blaine girò improvvisamente la
testa. Osservò di nuovo i genitori di Kurt e si rese conto che aveva bisogno di
uscire, anche solo per qualche minuto, dalla stanza: gli mancava il fiato e
sapeva perfettamente che quello era l’inizio di un attacco di panico di cui
davvero non aveva bisogno in quel momento.
«P-prendo una boccata d’aria», si scusò,
uscendo, sotto lo sguardo comprensivo degli altri.
Si chiuse la porta alle spalle e ci si
appoggiò contro come se non fosse in grado di tenersi in piedi da solo. Sospirò
lento e lasciò che le palpebre calassero sui suoi occhi per concedergli un
attimo di pausa da tutto quello. Solo quando sentì i battiti del cuore tornare
regolari e riuscì a respirare con una certa libertà, si decise a muoversi, ma
non fece neanche un passo che notò suo fratello, seduto in corridoio, con i
gomiti puntati sulle gambe e le mani che nascondevano il viso. Non lo aveva mai
visto così: sembrava… disperato e lui non aveva la minima idea del perché.
Gli si sedette accanto, senza dire nulla,
sperando che fosse l'altro a parlare:
non aveva idea di come comportarsi con lui e nonostante la rabbia e il
risentimento fossero più che presenti nel suo animo, qualcosa al momento lo
bloccava – forse Kurt, forse il fatto che continuava a rimanere in quella
posizione così drammatica o più semplicemente il rendersi improvvisamente conto
che, dopotutto, Cooper era lì, aveva lasciato il suo lavoro ed era corso da lui
non appena aveva sentito la notizia.
«Che succede?», ebbe allora il coraggio di
chiedere e ringraziò il cielo che la sua voce non avesse alcuna sfumatura
particolare.
Il maggiore non rispose subito, ma alzò la
testa e incrociò gli occhi ambrati del fratello, sostenendo quello sguardo.
Blaine si rese immediatamente conto che aveva pianto, perché l'azzurro era
lucido in una maniera che non lasciava dubbi.
«Ho parlato con mamma e papà», rispose semplicemente
e almeno la voce era abbastanza ferma da far capire che aveva avuto tempo per
riprendersi.
«Suppongo non sia stata una bella
chiacchierata».
«Ho semplicemente detto loro che ero con te
e che magari avrebbero potuto raggiungerci visto che qua le cose non… vanno
così bene», spiegò esitando nel finale; Blaine semplicemente annuì.
«Non verranno», lo anticipò, sempre con
tono calmo, fin troppo atono per lui.
Cooper ebbe solo la forza di scuotere la
testa, confermando quelle parole. No, i loro genitori non sarebbero venuti, non
avrebbero lasciato gli affari in Europa per raggiungere i figli, neanche se uno
di loro aveva rischiato di morire.
Il maggiore degli Anderson sentì il sangue
ribollirgli nelle vene al pensiero di quello che gli avevano detto: aveva
sempre saputo che non erano genitori modelli, soprattutto con Blaine, ma
quello, quello proprio non se lo sarebbe aspettato, neanche da loro. E poi...
il modo in cui lo avevano trattato non appena aveva detto loro di Kurt...
ancora non riusciva a venire a capo di
quelle parole.
«Hai detto loro anche di quello che è
successo a Kurt?», parve leggergli nel pensiero il più piccolo.
«Quello è stato... il peggio del peggio»,
confermò l'altro «Io credevo... insomma, conoscendoli non mi aspettavo che
facessero i salti di gioia per la cosa, ma davvero non pensavo che potessero
arrivare a tanto, con le parole e anche con le azioni, solo perché tu sei gay.
Davvero non credevo che le cose stessero sul serio cos-»
«Questo perché tu non ci sei mai!», scoppiò
improvvisamente Blaine «Perché l'ultima volta che ti ho visto per bene è stato
quando sei partito per il college, dopodiché tanti saluti e a mai più! Perché
le tue telefonate si sono ridotte a telegrammi e ho fatto quasi fatica a
riconoscere la tua voce quando sei venuto, perché non ho idea di cosa tu stia
facendo al momento così come tu non hai idea di quello che è successo a me, di
come la mia vita abbia fatto abbastanza schifo ultimamente!».
Per un attimo si guardarono, entrambi
sorpresi. Poi fu la volta di Cooper di scoppiare.
«Non essere scorretto, questo non è vero!
Ero con te quando... è successo, so come sei stato, non dimenticherò mai lo
sguardo che avevi in quel letto d'ospedale», ed era vero: gli occhi di Blaine,
così feriti e scoraggiati, così spenti, erano qualcosa che lo aveva
perseguitato per molte notti dopo l'aggressione: aveva davvero temuto che non
fosse più in grado di riprendersi, ma fortunatamente lo aveva sottovalutato.
«Certo. Ci sei stato. Ma per quanto? Due
giorni, forse tre? Poi sei dovuto tornare al tuo lavoro e alla tua vita, troppo
separata dalla nostra – dalla mia – per poter capire che era proprio dopo i
primi giorni che veniva il peggio. Perché vedi, Cooper, l'aggressione è stata
un qualcosa di pubblico, la notizia è comparsa sui giornali ed improvvisamente
tutti sapevano che il figlio minore degli Anderson era gay. E credimi tra fare coming-out solo con mamma e papà e questo c'è molta
differenza. All'improvviso avevo l'impressione di essere qualcosa da
nascondere, qualcosa di cui provare vergogna e per quanto loro dicano che
l'unica ragione per cui mi hanno iscritto alla Dalton sia stata la mia
sicurezza, io ho ancora i miei dubbi a riguardo: lì almeno nessuno mi avrebbe
visto troppo, né mi avrebbe additato come “il figlio gay degli Anderson”».
C'era un disprezzo in quelle parole, una
rabbia che Cooper non si sarebbe mai aspettato da Blaine. Lui ricordava solo il
bambino troppo buono e gentile per essere apprezzato da tutti, quello sempre
pronto a regalare un sorriso, a cui non importava nulla se non che fossero
tutti felici. Ora di quel bambino vedeva ben poco mentre gli occhi chiari
scintillavano di risentimento.
E la colpa, almeno in parte, era anche sua.
Lui non era stato migliore dei suoi genitori, troppo preso da se stesso e dalla
sua vita per rendersi conto che stava lasciando indietro la persona più
importante; troppo desideroso di essere libero ed andare via da non rendersi
conto che così facendo avrebbe lasciato suo fratello in balia di confronti ed
aspirazioni sempre più alti e alla fine anche del disprezzo di chi non sa che
cosa significhi davvero amare.
Non aveva pensato a tutto questo, o forse
aveva preferito non farlo, allontanandosi sempre più da loro, volendone sapere
sempre meno. Ora vedeva chiaramente tutti gli errori che aveva commesso e
soprattutto si rendeva conto di non poter rimediare a nessuno di essi.
«Nella sfortuna sono stato... fortunato»,
aveva ripreso Blaine, perché certo, stava raccontando tutto quello che gli era
successo, del male che aveva provato, ma doveva raccontare anche – soprattutto
– il modo in cui ne era uscito. «Qualche mese dopo il mio trasferimento,
all'improvviso, è arrivato un nuovo ragazzo. In realtà all'inizio era solo una
spia della concorrenza... ma poi, dopo vari problemi, si è trasferito anche lui
alla Dalton. Kurt è stato una boccata di aria pulita, come riprendere fiato dopo
non so quante vasche di nuoto. Alla nuova scuola stavo bene, i ragazzi erano
fantastici, ma... mancava qualcosa, sentivo come se in qualche modo mi stessi
trattenendo, come se non fossi più davvero io. Avevo paura, credo. Paura di
fare continuamente la mossa sbagliata e Kurt mi ha innanzitutto insegnato che
non si più evitare di sbagliare, ma che bisogna avere la forza ed il coraggio
di rimediare alle proprie azioni. Kurt mi ha lentamente riportato in superficie
e per quanto lui possa dire che sono stato io a salvarlo, non ha idea di quanto
lui, invece, abbia salvato me».
Cooper lo aveva osservato per tutto il
discorso ed il modo in cui gli occhi di suo fratello avevano brillato gli aveva
fatto stringere il cuore. Capiva quanto Kurt significasse per lui e poteva solo
immaginare che cosa stesse passando Blaine in quel momento.
Una lacrima scese sul viso del più piccolo:
improvvisamente aveva davvero posto l'attenzione su come sarebbe stata la sua
vita se non avesse mai conosciuto Kurt e l'idea di perderlo stava diventando di
attimo in attimo sempre più insopportabile. Si portò le braccia al petto e si
curvò in avanti, come a volersi proteggere da tutto il male che stava
minacciando di nuovo la sua vita. Cooper si mosse istintivamente verso di lui
perché era vero, non c'era stato ed aveva sbagliato, ma questo non gli impediva
di provare a rimediare adesso. Blaine però si scansò istintivamente, come se
non riconoscesse in quel gesto l'amore ed il supporto che il più grande avrebbe
voluto dargli.
In fondo, non c'era abituato.
«Lascia che ci provi, fratellino. Lascia
che provi a rimediare adesso. Non è troppo tardi, vero?», chiese in una maniera
così accorata che Blaine non poté non sollevare lo sguardo su di lui.
«Non lo so. Non lo so se è troppo tardi. Ma
credimi, quello che ho sempre voluto è che per te non fossi così invisibile...»
«Non lo sei mai stato!»
«Coop... tutte le chiamate che non hai
fatto, tutte le parole che non hai detto o i gesti che non mi hai rivolto, pur
sapendo che non ci sarebbe voluto chissà quale grande sforzo, nulla di tutto
questo avrebbe dovuto farmi pensare che ero semplicemente invisibile per te?»,
c'era una disperata rassegnazione in quell'accusa, come di discorso fatto già
fin troppe volte e mai capito fino in fondo.
«Non ho mai voluto farlo intenzionalmente,
credimi».
«Ma lo hai fatto. Questo non cambia le
cose».
Cooper sapeva che Blaine aveva ragione e
davvero se avesse potuto avrebbe trovato il modo di aggiustare tutto, ma ancora
una volta si rese conto che semplicemente non c'era un modo.
*
Bip. Bip. Bip. Probabilmente ci si poteva
assuefare a quel rumore come ad una droga leggera e lasciarsi cullare da esso
come se tempo e spazio non fossero che mere parole lontane, senza più senso.
Era così che si sentivano i coniugi
Harwood: assuefatti a quel posto, a quei rumori, a quella situazione, alle
lacrime che erano scese e alla possibilità che ce ne fossero altre, senza avere
la forza di opporsi o semplicemente reagire, come se avessero già da ora
accettato passivamente qualunque cosa sarebbe successa, bella o brutta che
fosse.
Erano riusciti a salvare Thad. Il suo cuore
si era fermato per 34 secondi, ma erano riusciti a farlo battere di nuovo.
Adesso erano lì, ancora in quella stanza d'ospedale, il loro ragazzo che
dormiva – sì, la parola coma li spaventava troppo per poterla pensare – e quei
macchinari che continuavano la loro lenta litania fatta di suoni troppo
stonati, troppo freddi per essere anche solo vagamente gradevole.
Il signor Harwood continuava ad accarezzare
i capelli del figlio come se non se ne rendesse veramente conto, quasi fosse un
movimento automatico con cui cercava di contenere l'ansia e scacciare
l'instabilità di quella situazione; la moglie era appoggiata con la testa sul
bordo del letto e probabilmente era stata colta dal leggero sonno del tardo
pomeriggio.
L'uomo lasciò scorrere gli occhi sui
lineamenti abbastanza marcati di Thad. Era cresciuto, ne aveva fatta di strada
da quando, bambino, si divertiva a lanciare palle da baseball in giardino con
lui, la lingua che appariva appena tra le labbra per la concentrazione e
l'esultanza così genuina e piena di energia dei tiri più precisi. Kevin Harwood
si chiese per quale motivo si stava rendendo conto di quelle cose solo ora,
perché per tutto quel tempo non aveva osservato con la stessa precisione suo
figlio: da quando era andato alla Dalton avevano cominciato a vedersi di meno e
gradualmente anche il dialogo si era ridimensionato. Non sapeva come stesse e
se le cose andassero davvero bene – lui diceva di sì, ma con i ragazzi non si
poteva mai essere certi –; diavolo, non sapeva neanche se aveva una ragazza, se
frequentava qualcuno o se semplicemente aveva una cotta ancora segreta.
«Mi pare che tu mi sia sfuggito dalle mani
come un uccellino che impara improvvisamente a volare, Thaddy»,
sussurrò, concedendosi di chiamarlo con quel nomignolo affettivo che pure suo
figlio non sopportava – o almeno così diceva.
Sapeva che non aveva molto senso parlare in
quel momento, quindi tornò silenziosamente ad osservarlo, continuando a giocare
con i suoi capelli. Doveva aver usato della lacca o del gel, perché erano
unticci in alcuni punti: probabilmente li aveva sistemati per l'esibizione dei
Warblers, ma ora era difficile capire in che modo stessero e quanto fossero
belli. Ora erano scompigliati e pieni di polvere.
«S-sai ch-e Jeff
c-ci ha mes-so se-coli per si-stemarli?»
D'un tratto l'attenzione dell'uomo si
concentrò sul volto del figlio. L'aveva solo immaginato, oppure aveva appena
parlato?
Il volto era sereno, come prima, ma un
sorriso leggero allargava giusto di un po' le labbra chiare.
«Thaddy»,
sussurrò sperando che rispondesse, che gli dicesse che-
«Non m-i è m-ai pia-ciuto
quel sopran-nom-e».
Kevin trattenne a stento le lacrime mentre
gli sfiorava il viso e guardava finalmente gli occhi scuri e così profondi di
suo figlio, rendendosi conto solo in quel momento che aveva pensato di non
rivederli mai più. Ma suo figlio era forte, come aveva detto Melissa, sua
moglie. Suo figlio era forte e ce l'aveva fatta a tornare da loro.
«Mel, tesoro! Svegliati, svegliati!», la
chiamò con la voce incrinata dall'emozione.
La donna si destò con lentezza e si guardò
intorno spaesata prima di capire che cosa stesse succedendo. Quando incrociò il
viso di suo figlio, sveglio, pensò che stesse ancora sognando e poi comprese
che non le importava: se quello era un sogno, allora era il migliore che avesse
mai fatto. Si gettò al collo di Thad con una felicità che non aveva mai provato
prima e lo strinse a sé così tanto che il ragazzo credette di soffocare; tuttavia
non si staccò, ne protestò: doveva essere successo qualcosa di davvero
terribile per aver spaventato così tanto entrambi e avrebbe potuto fare tutte
le domande dopo averli rassicurati.
Nella gioia generale, nessuno si accorse
che Sebastian li stava osservando – come del resto non aveva potuto evitare,
soprattutto da dopo il collasso. Il nuovo Warblers vide la donna abbracciare
stretto il figlio e tutti e tre ridere di gusto, senza avere davvero un motivo
per farlo. Vide come i due adulti sembravano non poteva fare a meno di tenere
un contatto fisico con Thad, come se temessero che perdendolo avrebbero perso
anche lui.
Li vide e fu felice, felice come non era
mai stato nella sua vita. Felice perché Thad era vivo e sembrava stare bene,
felice perché quel peso allo stomaco si stava lentamente sciogliendo. Era così
felice che delle lacrime premevano al bordo degli occhi.
Poi sussultò. Si rese d'un tratto conto di
quanto fosse sentimentale, vulnerabile in quel momento. Era umano in un
modo quasi osceno e non poteva essere. Semplicemente non poteva concederselo,
perché lui non era così. Era colpa di Thad. Tutto quello era semplicemente
colpa di Thad.
Che cosa mi hai fatto?, si chiese in
modo quasi disperato. Quando c'era lui di mezzo non riusciva più ad essere lo
stesso, quando c'era lui di mezzo si perdeva nella marea di sensazioni che
provava e non sapeva più come uscirne. Quando c'era lui trovava un modo nuovo
di sentire le cose, un modo che, a dirla tutta, lo spaventava. Un modo
così... vivo, così intenso da sopraffarlo.
Sebastian prese la sua decisione.
Era colpa di Thad se lui era così
vulnerabile. E lui non sarebbe mai più stato così, mai più.
Avrebbe lasciato stare Thad e tutto il
resto. L'avrebbe evitato e avrebbe tirato per la sua strada. Alla fine di
quell'anno se ne sarebbe andato e tanti saluti. Avrebbe fatto di tutto, davvero
di tutto per non essere così debole. Mai più.
Si concesse un ultimo sguardo al ragazzo,
poi si girò e lasciò l'ospedale.
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Aaaaaaaaaaaaaaaaah sono in un
mega-ritardo anche questa volta, lo so!! Scusate, scusate, scusate!
Non è mia intenzione farvi soffrire tanto, ma davvero ogni capitolo è un parto
^^’
La buona notizia è che almeno su un fronte le cose sembrano non andare più così
male, no? Almeno Thad sta bene! Ora c’è solo da sistemare tutto il resto xD *ho detto nulla!*
Ad ogni modo vi ringrazio tantissimo: in un modo o nell’altro avete mostrato che questa storia non è proprio da cestinare e davvero vi ringrazio per gli apprezzamenti e la pazienza che avete con me!
Alla prossima, magari con più rapidità xD
Alch ♥