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Autore: Belle_    31/08/2012    15 recensioni
«Usagi...», ripeté con dolcezza.
Le stava accarezzando le guance piene di biancore, poi passò a toccarle i capelli dorati lasciati anonimi sulle spalle, ed infine sfiorò le sue labbra con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita. La toccava come se fosse tutta roba sua, come se in qualche tempo tutta quella pelle, quelle palpitazioni e quelle ossa fossero state sue. Solo sue.
«Usagi...», sussurrò ancora.
Si chinò sul suo viso con gli occhi dischiusi, le labbra pronte ad improntarsi sulle sue, il respiro spezzato da un'emozione più grande.
Ma lei si scostò, spaventata, e iniziò a toccarsi le mani con morbosità.
Lui le fermò con la sua presa salda, sicura e spaventosa, consapevole di quel vizio immaturo, e la stava fissando con quegli occhi suoi, color cielo. Un cielo antico si stava stagliando su di lei, un cielo pieno di dolore. Ed era tremendo trovarsi sotto una volta così agghiacciante e morbida, meravigliosa e terribile.
* * *
...se perdessi la memoria, a chi crederesti?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Outer Senshi, Seiya, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna serie
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Pastelli di Luce
 


1) Color Cielo




Bruciava. Quella ferita bruciava.
Era nascosta in qualche posto in cui Usagi non capiva, ma bruciava intensamente. E seppe sin da subito di non ricordare dove esattamente stava bruciando, ma sentiva il fuoco da qualche parte del suo corpo e sentiva che quel fuoco avvampava sempre con più forza. Una forza tremenda.
Decise così di aprire gli occhi, di inumidire le labbra secche, di alzarsi in qualche modo e di fare qualcosa che le era rimasto da fare, ma non ricordava cosa. Sapeva che era una cosa importante, qualcosa che doveva fare prima di addormentarsi, ma proprio non le veniva in mente.
Le sembrava di aver dormito per giorni.
Pazienza, pensò. Lo avrebbe ricordato in seguito.
Così aprì gli occhi e la luce del neon la ferì, se li strofinò con la mano e, mugugnando impercettibilmente, si alzò da quel posto così caldo. Si guardò attorno e capì che il suo rifugio era l'ospedale, lo aveva capito già da prima per via dell'odore acuto, ma le premeva sapere un'altra cosa che non lasciava troppo spazio ai dubbi.
Come ci era arrivata in ospedale?
Si toccò istintivamente le mani, strofinandole.
Era un brutto vizio, quello, ma sapeva che strofinarsi i palmi delle mani era un rito, un capriccio della sua mente per controllare qualsiasi evento le capitava e che proprio non riusciva a gestire.
Si osservò e non trovò nulla di rotto, oltre che quel mal di testa lancinante e le fasce sotto il pigiama, proprio sull'addome, che cercava di coprire ferite sanguigne. Si pizzicò e a bruciare ora furono le striature rossastre che non guarivano sotto le bende.
Emise gemiti di dolore, respirando affannosamente.
Sentì la porta cigolare e si rigettò nel letto, voltandosi verso la finestra e stendendosi di fianco. Trattenne il respiro e non si spiegò il perché di quel suo nascondersi, ma non si era nemmeno spiegata il perché si trovava in un ospedale con l'addome completamente scorticato. Si accucciò, sperando in una parte piccolissima e recondita di cambiare quello stato di malata, di capire come mai era in un ospedale.
La porta si aprì completamente e, insieme a passi incerti, entrò un rivolo d'aria fresca che accarezzò di nascosto nelle caviglie scoperte di Usagi.
«Si è voltata?».
La voce sull'uscio della porta parve disorientata, forse un po’ sollevata.
Usagi si era domandata cosa c'era di strano nel voltarsi durante il sonno, ma la domanda scappò via subito perché quella bruciante sensazione che si trovava sotto la sua pelle le suggerì, con comando immediato, di voltarsi e guardare negli occhi chi si preoccupava dei suoi movimenti nel sonno.
Era una voce maschile. Era un uomo, un corpo con una voce calda, aveva note incerte nel suo timbro di voce eppure erano così personali. Un voce ferma, fredda, una voce sua.
La sentì improvvisamente addosso, a ricordo di qualcosa che le sfuggiva.
Usagi si voltò di scatto, incapace di trattenere la curiosità, e si ritrovò ad ammirare un ragazzo che non riconosceva, ma che sentiva di averlo visto tante volte, di aver provato a baciare le sue labbra e di aver cercato rifugio dentro le sue braccia. Sapeva che dentro quelle braccia c’era un mondo, un cielo, un mare che l’avevano aspettata. Qualcosa di suo.
Il ragazzo sussultò, facendo un passo indietro, e afferrò la maniglia della porta per sorreggersi e fermare il mondo che girava vorticosamente. Increspò le lunghe sopracciglia nere e il viso si contrasse, mentre i suoi occhi color cielo tremavano per l'emozione e le labbra si incurvavano in giù.
Usagi notò quella cicatrice tra la guancia e il sorriso si plasmava e si deformava, assecondando le rughe del lieve sorriso. Lo rendeva così… vero.
«Usagi...», pronunciò.
Fu un flutto tremendo a colpirle il cuore, dei ricordi senza identità.
La cosa più strana che ritrovò a chiedersi non fu chi era quel ragazzo bellissimo, vestito con i jeans a sigaretta e camicia azzurra sotto un giubbino di pelle nero, con quei capelli neri e vaporosi come piaceva a lei, ma si stava chiedendo se il suo nome fosse davvero Usagi. Non si era chiesta chi era proprio perché lei sentiva di essere qualcuno e di aver fatto qualcosa che la reputava importante in quel pezzetto di vita, e di dover finire quell'azione che aveva lasciato a metà e che ancora non ricordava.
«Sei sveglia», mormorò, inebetito.
Lo disse come a confermare a se stesso una teoria lontana, quasi impossibile, come a ricordarsi che svegliarsi era una funzione normale e realizzabile.
Usagi lesse in quel tono di voce un soffio di speranza che rinasceva a poco a poco, un pezzo di colore che veniva fuori da quegli occhi come il cielo di inverno. Un cielo di mezzanotte. Un cielo tutto suo.
E, quando il ragazzo si avvicinò a lei e l'abbracciò con forza, sentì dentro le sue ossa quella speranza che sapeva di amore, quell'emozione che sapeva di passione.
Quel passato che sapeva di sale. Era amore.
Lui era amore.
Un po' impietrita e imbarazzata, guardò attonita il volto del ragazzo che la sovrastava e che sembrava amarla con quegli occhi azzurri. E sembrava che anche lei lo stesse amando, o che lo avesse amato.
Ma perché non lo ricordava? Caspita, avrebbe dovuto ricordarsi di essere stata con uno schianto simile!
«Usagi...», ripeté con dolcezza.
Le stava accarezzando le guance piene di biancore, poi passò a toccarle i capelli dorati lasciati anonimi sulle spalle, ed infine sfiorò le sue labbra con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita. La toccava come se fosse tutta roba sua, come se in qualche tempo tutta quella pelle, quelle palpitazioni e quelle ossa fossero state sue. Solo sue.
«Usagi...», sussurrò ancora.
Si chinò sul suo viso con gli occhi dischiusi, le labbra pronte ad improntarsi sulle sue, il respiro spezzato da un'emozione più grande.
Ma lei si scostò, spaventata, e iniziò a toccarsi le mani con morbosità.
Lui le fermò con la sua presa salda, sicura e spaventosa, consapevole di quel vizio immaturo, e la stava fissando con quegli occhi suoi, color cielo. Un cielo antico si stava stagliando su di lei, un cielo pieno di dolore.
Usagi aveva così tante domande sulla lingua, così tante cose da sapere, ma la sua voce uscì con un rantolo e con un lento respiro.
«Il mio nome è Usagi?».
Gli occhi di quello sconosciuto si sbarrarono, colti da un dolore improvviso, mesti alla resa, alla sconfitta perenne. Come a volerle dire che doveva esserci qualcosa che non sarebbe mai andata nel verso giusto, tra di loro. Sospirò, arreso, gli abbassò in un estremo gesto di dolore e strinse le sue mani con una forza che dalle sue parole non uscì.
«Sì, tu sei Usagi Tsukino».
Usagi annuì, seria.
Sapeva che non doveva chiederglielo perché quella domanda gli avrebbe fatto male e non se la sentiva di vedere quel cielo discendere su di lei insieme ad una tempesta, ma doveva sapere.
«Tu chi sei?».
Il ragazzo deglutì e si sforzò di sorridere.
Quel sorriso forzato, spinto da chissà quali forze, le ricordava qualcosa di tremendo e lontano, antico e dal sapore di morte.
«Mamoru», rispose.
«E... sei il mio ragazzo?», chiese con un certo timore.
«Quasi», sorrise. Un sorriso bucato.
«Quasi?».
Mamoru annuì. «Quasi».


   
 
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