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Autore: B_Major    31/08/2012    0 recensioni
La memoria di un ragazzo vive e muore con lo stesso ciclo di alcune farfalle, entro ventiquattro ore tutto scompare. E' sufficiente iniziare a dormire perché il ciclo si ripeta nuovamente, e perciò si trova a vivere ogni giorno in un luogo diverso, inconsapevole di ciò che causa questa amnesia. Amnesia che si interromperà quando verrà a conoscenza di un potere singolare, condiviso con altri elementi...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Crocevia del Labirinto -

 

 

Svegliarsi è un singulto, un sussultorio battito di palpebre, mentre le mie iridi fissano tremanti il soffitto. Sento la gola bloccarsi, in una sorta di stasi traumatica per il mio esofago. Svegliarsi è il momento precedente la morte mentre qualcuno tenta di affogarmi nell'acqua. Tutto sembra lento e approssimativo, tutto avviene con moderazione e silenzio. Finché in pochi secondi non sono del tutto sveglio. Questa sorta di paralisi nella fase R.E.M., Rapid Eye Movement, mi accompagna tutti i giorni ogni mattina da quando riesco a ricordare, e ciò corrisponde a ben poco. Conosco il mio nome, conosco i miei dati personali, data di nascita e mi sveglio ricordando il mio aspetto. So svolgere determinate azioni facendo ricorso a numerose capacità di cui non ricordo come sono venuto in possesso, merito di una qualche istruzione che ora attraversa la mia mente come la pallida orma di uno spettro. Tutto il resto, famiglia, amici, casa o luoghi sono assenti. Tutto è polvere cinerea nel mio cranio.

Mi alzo con fatica, mentre sento il mio esofago contrarsi e ricominciare a respirare, il sangue pulsare nelle vene, bollente, e il sudore imperlare la fronte. L'occhio destro pulsa ripetutamente, come se stesse per scoppiare, mentre appoggio il piede nudo sul pavimento, allontanandomi dalle lenzuola zuppe di sudore madido e di sogni infranti, accompagnandolo con il sinistro. Le piante dei miei piedi affondano nel tappetino affiancato al giaciglio, e posso percepire ogni grezzo filo di lana del suddetto mentre agito le lunghe dita. Come i palmi delle mani, le piante dei miei piedi sono sensibilissimi a qualunque tocco da quando ho memoria. Appoggio le mani sul materasso, che scopro molto poco flessibile. Dormire sul duro è sempre stato piacevole, un altro inutile dettaglio che si unisce al mosaico insensato delle mie restanti memorie. Faccio forza contro l'emicrania che spesso “ravviva” la mia mente con fitte di dolore acuto e mi alzo con fatica, indebolito. Mentre sento le mie gambe muoversi correttamente, le ginocchia sembrano sussurrarmi il loro poco desiderio a restare in piedi, e così mi appoggio al muro con una mano, percependo l'imprimitura polverosa e mal lavorata dello stucco nell'appartamento, mentre l'altra striscia contro la mia T-Shirt fino ai boxers, come per liberarsi di un qualche strato di polvere. Non so il perché di alcune mie azioni, sono abitudini che mantengo, perché sono ciò che mi rimane, alla fin fine. Non conosco, non so altro. Riesco a raggiungere la piccola porta a scomparsa che nasconde il bagno, e la apro, mentre la porta produce quel suono fastidioso e stridente, caratteristico. Il bagno è piccolo, dotato di un water, di uno spazio doccia e di un lavandino, sormontato da uno specchio, e le pareti sono ricoperte di minuscole piastrelle blu. Apro il rubinetto e sento l'acqua scorrere, mentre tento di nuovo di ricordare, inutilmente. Ogni volta sento un singolo ricordo, fondamentale, avvicinarsi ai bordi della mia mente, raspando come un cane. Tuttavia, resta lì, sospeso, senza darmi una possibilità di avvicinarmi, o spiarlo da lontano.

Da ciò che ricordo, a differenza di altri, riesco a vivere i miei sogni in maniera più realistica, memorizzando dettagli, e riuscendo ad adempiere ad alcune azioni che solitamente i sogni ci impediscono: la gravità, quindi saltare, leggere eventuali iscrizioni, guardare l'ora e scoprirla corretta. Questi sono alcuni di quei segnali che permettono ad un umano di viaggiare con efficacia nel sogno, e sono estremamente rari. Il lavello è pieno, e immergo il volto nell'acqua, a lungo. Mi piace la sensazione dell'acqua sulla pelle, e la abbandono con fatica. Dopo che l'acqua mi ha rinfrancato e ho asciugato il viso, esco dal bagno e vado ad aprire la veneziana dell'unica finestra lì presente, scoprendo di non conoscere, di nuovo, il posto dove mi trovo. Ogni giorno mi sveglio nutrito, in una camera d'albergo, o di una pensione, o un semplice appartamento, senza avere il benché minimo indizio su ciò che è accaduto precedentemente, ma conoscendo istintivamente la mia stanza. Torno in bagno per indossare un paio di jeans sgualciti che ho visto in giro, una T-Shirt diversa da quella con la quale ho dormito e mi guardo allo specchio.

Iridi verdi sono sormontate da sopracciglia aggrottate e spaesate, rosse e fulve come i capelli, che si infittiscono formando una chioma spigliata. Un naso dritto e sottile, sormonta due labbra forse eccessivamente grandi per il resto del volto, che celano una dentatura dritta. L'occhio destro ha già cessato di pulsare, un buon segno. Sbadiglio, coprendo la bocca con la mano, che scopro arrossata per qualche motivo. La apro e la chiudo più volte, mentre sento i muscoli e i tendini tirare dolorosamente. Fantastico, un'altra cosa che non so. Mi chiedo perché io abbia sempre il pieno controllo sulla situazione. Smetto di sperimentare il dolore e decido di uscire. Tento di imparare il più possibile da ogni giorno, perché la conoscenza che resiste all'amnesia può tornarmi utile in un altro giorno, o in un periodo più difficile. Indosso le scarpe e chiudo la porta dietro di me, senza preoccuparmi di prendere chiavi o effetti personali. Non ne ho, né mi serviranno. Domani mi sveglierò in un posto diverso, forse anche in uno stato diverso, e quasi tutto di me sarà apparentemente diverso da ciò che era e da ciò che sarà. Ma la sostanza rimane la stessa, intrinseca e sempreverde. Dopo che la porta si chiude dietro di me, mi fermo, analizzando ogni dettaglio. Un semplice corridoio, leggermente stretto, che va avanti per circa due metri. Sul fianco destro un appartamento, così come in fondo al corridoio. Mi dirigo all'imboccatura delle scale, superando le porte degli altri due appartamenti, e ignorando la terza porta, a destra della rampa di scale. Poggiò il piede sinistro sul primo scalino, ricoperto come gli altri di moquette rossa, simile a feltro e polvere. Tantissima polvere. Il posto dove mi trovo è in decadenza. Faccio un altro passo, ma una vertigine improvvisa mi coglie, e mi trovo aggrappato al corrimano alla mia sinistra, il mio sguardo fisso sulle rampe di scale del piano inferiore. Per qualche motivo, la mia visione si distorce, e improvvisamente le rampe, dapprima rettangolari, diventano solo strisce ricurve che terminano in una sorta di fauci mostruose, che occupano il piano terra. La bestia che è l'edificio digrigna le zanne molteplici, ognuna lunga come un pugnale e ricurva. Apre la bocca, affamata, mostrando come ogni centimetro di essa sia occupata da zanne, tranne il centro, simile ad una voragine, che conduce probabilmente al suo stomaco. La bestia fa schioccare le fauci due volte, muovendosi poi in uno scatto violento contro di me.

Batto le ciglia, e la bestia non c'è più. Sto di nuovo sudando, ne sento l'odore, ma non ho tempo per sciacquarmi di nuovo. Mi siedo sul sudicio scalino, attendendo che il senso di vertigine svanisca. Osservo l'ora su di un orologio dai bordi rettangolari, appeso al muro. Mostra le 8.12.

Devo muovermi: considerata l'ora di pranzo, e la stanchezza improvvisa che potrebbe cogliermi da un momento all'altro come sempre e le allucinazioni come quella appena sperimentata, il mio tempo si sminuisce di nuovo. Per come funziona la faccenda, potrei stare fermo tutti i giorni, con la tranquillità di non morire, qualunque cosa succeda. Invece mi muovo, sono frenetico, sono estatico di scoprire, di sapere, di raggiungere una conoscenza utile seppur caduca. Ecco perché ogni giorno viaggio nel quartiere, conosco cose e persone. Il desiderio di conoscere, di sapere, solo per abbandonare quella solitudine che accompagna la mia vita così come la mia mente.

Scendo le scale di corsa, ad ogni passo uno sbuffo di polvere si alza dalla moquette, ma non devo badarci, per quanto detesti un luogo del genere. Arrivo al piano terra, dove risiede la reception, come noto da un cartellino indicatore. Tutto è deserto e decaduto: polvere ovunque, una serie di bagagli ammassati in un angolo, un vetro scheggiato e un registro di prenotazioni che, avvicinandomi a guardare, scopro totalmente bianco. Non dovrei farlo, ma la curiosità mi spinge ancora. Entro nella reception e apro la cassa. Ci sono alcuni soldi, niente di eccezionale, meno dell'incasso di una giornata anche per una pensione del genere, a occhio e croce e vista la vastità del palazzo. Non dovrei, ma non ho niente con me. Prendo una manciata di biglietti da venti di non so quale moneta(non faccio molta attenzione, suppongo sia la corrente nel luogo) e scappo dalla pensione, attraverso la porta sul retro. Uscito, mi trovo in un quartiere popolare, decaduto come il posto da cui sono appena uscito. Il sottile strato di intonaco che ricopre i palazzi è frammentario, e mostra i mattoni rossi che costituiscono le pareti. Il quartiere è pieno di persone di ogni etnia immaginabile, che vendono e comprano e svolgono le loro quotidiane mansioni. Una signora di colore, vestita d'arancione e ricoperta di bracciali sottili e tintinnanti, mi propone delle pesche. Ha un banco grande e spazioso, che emana un fortissimo profumo di cannella, merito dei dolci invitanti che poggia con grande astuzia proprio nel punto centrale del banco, per attirare l'attenzione sia della vista che dell'olfatto. Mi invita a scegliere. Frutta, cioccolato, biscotti alla cannella, arance e dolci esotici. Scelgo la frutta, e le porgo dei soldi per una delle sue pesche. Accetta la banconota e mi da il resto, e addento la pesca. Ha un sapore fantastico. Le faccio i miei complimenti, e lei mi invita a prenderne altre, se mi piacciono. Le chiedo un sacchetto e le porgo altri soldi, ma lei scuote la mano e me li porge. È molto gentile, ma io insisto, e allora lei mi sorride, con il sorriso più bello del mondo, e mi mette il sacchetto in mano, per poi scacciarmi via con simpatia. Le sorrido anch'io, commosso. Mi saluta, agitando il braccio mentre i bracciali le scendono fino al gomito.

Percorro le strade una dopo l'altra, evitando altre bancarelle. La signora mi ha colpito, e ormai ho ricevuto una sorta di imprinting per la sua bancarella, come un negozio di cui diventare cliente abituale. Se mai fossi riuscito a ricordare il luogo in cui mi trovavo, sarei sicuramente tornato. Decisi quindi di fare un tentativo. Trovai un lavoratore di cuoio. Chiesi quanto costava un braccialetto. Voleva uno di quei biglietti da venti e metà del resto della signora. Non mi importava. Se avesse funzionato, anche solo quello...

L'artigiano, biondo e con gli occhi azzurri, dotato di una barba corta che gli attraversava il viso, si mise al lavoro, chiedendomi poi cosa avrebbe dovuto scrivere su di esso. Un nome, una frase, un luogo. Chiesi di scrivere il nome del mercato, la città e l'indirizzo della via, nonché lo stato e le altre generalità.

India. Nuova Delhi. Angolo in Shantipath.

Me lo allacciai al polso. Se domani fossi riuscito a svegliarmi con questo bracciale attaccato, sarebbe un passo importante. Potrei riuscire a ricordare posti importanti, e ritornare, se mai fossi riuscito a sconfiggere l'amnesia.

Girovago tranquillamente per la città, mangiando una specialità tipica di cui non so il nome intorno a mezzogiorno. Trovo negozi di giochi, di gioielli e man mano che proseguo vedo Nuova Delhi crescere e ravvivarsi, finché il tramonto non la accarezza, avvolgendola in un manto misterioso e rossastro, che fa risaltare un gruppetto di donne che mi tagliano la strada, tutte vestite di blu cobalto. Noto con piacere che la metropoli è estesa ed evoluta, tanto che mi viene in mente che potrebbe esserne la capitale. Passa un taxi, e gli chiedo i riportarmi a Shantipath, dopo che mi ero sufficientemente allontanato da perdermi.

Lui indossa un cappello nero, ha una barba grigia e irsuta, e due occhi profondi e seri che risaltano sulla pelle rosea. Si gira verso di me e mi punta contro una pistola.
Lo sento, lo vedo sparare, vedo il proiettile dirigersi verso il mio petto e trafiggermi, mentre una nube di polvere rossa si alza, soffocando la mia visuale.

 

Mi sveglio.

Sono in una camera sconosciuta, in un posto sconosciuto. Non so come sono finito qui, ma qualcosa mi ci ha portato con la forza, riconosco un livido sulla mia spalla. Sono su di un letto, le lenzuola hanno assunto posizioni stravolte, sono una serie di vergini in fuga dal vampiro. Le sposto ulteriormente, deciso a scendere.

Poggio entrambi i piedi sul pavimento e mi alzo. Passo la mano destra tra i capelli e sento qualcosa. Il braccio aveva una sorta di imprecisione nella sua superficie, lo abbasso e vedo un bracciale di pelle, che non ricordo aver mai indossato. Osservo la scritta.

India. Nuova Delhi. Angolo in Shantipath.

Cosa vuol dire? Sono in India? Colui che architetta tutti i miei spostamenti ha deciso di manifestare la sua presenza in qualche modo sadico e occulto?

Devo controllare, ma mi sono mosso troppo in fretta: la testa mi gira e cado in ginocchio. Per non sforzarmi ulteriormente arrivo alla finestra carponi, aggrappandomi al davanzale e rimettendomi in piedi. Le tende sono tirate, la finestra è aperta, e dinanzi alla mia vista posso distinguere un fiume.

Città con fiumi. Sono tantissime, anche se questa è grande e immensa, posso perdermi facilmente.

La mia routine quotidiana si ripete nuovamente, e mi ritrovo ad uscire. Scopro di avere la porta della camera che si apre direttamente nella Hall dell'edificio, separata solo da tre gradini di legno scuro. Una signora ha in mano una tazza di tè, dalla quale sorseggia delicatamente la bevanda, mentre il mignolo la sorregge. È alla reception, e mi osserva con cautela, come se stesse valutando qualcosa in particolare, per poi domandarmi.

“Dica.”

Io rabbrividisco. Che sia o meno merito del te non è importante, ma mi meraviglio della sua voce. È suadente, sebbene abbia il rigore e l'esperienza concessi dall'età. Ha delle rughette dall'aria arzilla intorno agli occhi, e i capelli sono avvolti in un'acconciatura originale, ma dal gusto classico. Poggia la tazza e appone il cucchiaino dietro quest'ultima, poggiando tutto dietro al bordo del suo banco di lavoro. Carezza lievemente la spallina del suo tailleur verde erba di seta, per poi farmi un secondo cenno con lo sguardo ed invitarmi ad andarle più vicino. Quando le sono davanti noto che i suoi occhi sono azzurri e freddi, ma in loro brilla la mentalità della donna. Mi porge un foglio ripiegato, una sorta di lettera, per poi prendere una borsetta e dirigersi verso la porta girevole che introduce l'edificio. Solo quando poggia la mano sul plexiglas della porta noto che porta dei guanti bianchi. Mi osserva nuovamente, aspettando che io la raggiunga prima di uscire fuori.

Non apro la lettera, sono troppo distratto dalla donna. Esco fuori per ritrovarmi in una metropoli che si estende, sovrastata dal cielo nero. Come può essere notte, se due minuti prima era piena mattina? Avevo già osservato fuori dalla finestra, come tutte le volte che mi sveglio, per trovare un indizio sulla mia posizione. Ma la cintura di Orione mi osservava dall'alto con sarcasmo, notai guardando in aria, finché la donna non mi riporto alla realtà, invitandomi ad entrare in una limousine lucida e nera, rifinita da alcune sottili linee argentate che percorrevano i bordi.

Seguendo il suo invito, senza riconoscere il fatto che sono a piedi nudi, con addosso un paio di pantaloncini e una T-Shirt sgualcita e con una lettera in mano. Salgo, e le piante dei miei piedi assaporano il feltro che riveste parte della macchina, rabbrividisco e noto la signora che mi osserva, stringendo gli occhi. Mi siedo di fronte a lei, senza spiccicare parola, osservando fuori dal finestrino, mentre le figure davanti a me si distorcono di nuovo, tramutandosi in esseri mostruosi o inquietanti. Ci fermiamo al semaforo, e una signora bionda e ridente, molto in carne, cambia davanti ai miei occhi: gli occhi, stretti per la risata in cui si era crogiolata, erano diventati due schegge di ossidiana rilucenti, il naso si era gonfiato come quello di un suino e i suoi denti erano diventate zanne che si incastravano in un ghigno goloso e malvagio.

I miei occhi lanciano fitte dolorosissime, e li stropiccio. La signora, osservando questo mio misterioso disagio, mi porge un bicchiere d'acqua, dove aggiunge una pastiglia azzurra, simile ad una moneta, che esplode in un'ondata di sostanze effervescenti. Sorseggio a fatica la bevanda, esteticamente simile alla marea raccolta da una sirena e dal sapore di terra e bruciato, che mi secca la gola, come se avessi appena bevuto qualcosa di amaro.

L'effetto della bevanda mi fa tossire forte, ma le fitte scompaiono immediatamente. Tutto ciò non vale però per la tosse. Quando sembra essersi calmata, chiedo cosa conteneva l'acqua.

Niente di che, risponde lei con nonchalance, scuotendo la testa per negare l'importanza del discorso, per poi osservare fuori dal finestrino. Osservo anch'io, mentre vedo solo un ricordo effimero del passaggio dell'abbagliante della limousine decorare il paesaggio mostrato, mentre ciò che la luce non ritiene degno della sua presenza viene inghiottito dalle tenebre, e il fascio di fotoni mostra nuovi edifici, alberi e strade sterrate, come se stessero salendo in una zona di campagna.

Sarà un viaggio lungo.

Dice, più a sé stessa che a me, mentre annuisco, perdendomi nell'effetto ipnotico di un mondo che nasce e si disgrega, come assorbito da un buco nero alle spalle della macchina, tutto racchiuso nel finestrino di un semplice veicolo. Cerco di combattere il sonno che sembra impossessarsi delle mie membra, mentre penso addirittura che sia solo un effetto di quel liquido che ha lenito le fitte che sembravano frantumarmi il cranio...

Le mie convinzioni vacillano, la mia volontà è consistente quanto il fumo di un tizzone prossimo alla propria fine, e le mie palpebre si abbassano, sconfitte da un nemico troppo potente per loro.

Il mio riposo è buio e privo di sogni, e voci fioche e soffuse mi richiamano al mondo reale, e cedo alle loro pressioni con grande facilità. Mi sveglio e vedo la signora davanti a me, ancora nella macchina e con le sopracciglia aggrottate, presumibilmente preoccupate per la mia attuale situazione. Porto le nocche della mano sul collo, e lo sento sudato. Ho dormito, ho dormito un bel po'. Sudo sempre quando dormo, spesso perché il sonno è popolato da incubi. Lei sapeva che il viaggio sarebbe stato lungo e mi aveva lasciato dormire, mentre ora eravamo giunti a destinazione.

La signora trae un sospiro di sollievo e si lascia cadere sul sedile. Accasciata, si ricompone, stringe le gambe e rassetta la gonna verde del tailleur con una mano. Poi poggia in grembo le mani giunte, mi guarda e dice quelle che si suppone saranno le sue ultime parole a me, lo capisco da come mi guarda. La malinconia e la scintilla spaesata di un addio sconosciuto brillano in quelle iridi.

Beh, ora ci siamo. Devi scendere qui, ho ricevuto dettagli ben precisi, non devo né condurti oltre, ne tantomeno scendere con te. Questo è il piano. Leggerei quella lettera, se fossi in te.

Tira la leva dello sportello e lo spinge delicatamente, mentre scendo a piedi nudi su di un suolo ricoperto di ghiaia. Appena sono sceso, la lettera chiusa in mano, la limousine si richiude e con delicatezza riparte, curvando a U e tornando al punto di partenza, per un altro lungo viaggio, affinché la signora torni all'albergo dal quale è venuta.

Un vento freddo e delicato mi attraversa, mentre osservo tutto intorno a me.

La zona è pianeggiante, e un prato di erbetta bassa l'attraversa, avvolgendola in un mantello smeraldino. Ad ovest dalla mia posiziona si trova un foresta di conifere alte e scure, dall'aria cupa e spettrale, come se nascondessero luoghi che hanno visto scene terribili.

Cesso di rabbrividire e osservo alla mia destra, ad Est, dove la pianura si estende svariate centinaia di metri in avanti, terminando in un brusco dirupo, il cui bordo grigio costeggia la pianura. Aldilà, solo nebbia. Ma non una nebbia normale, una nebbia tipica di un borghetto umido. Questa era una nebbia fitta e baluginante, il fiato di vite mietute, una nebbia spessa e viscosa. Se una lama l'avesse attraversata, sarebbe stato come attraversare un panetto di burro. Il cielo era nuvoloso, e un lampo squarciò la calma della pianura. Fu allora che mi concentrai sull'edificio.

A Nord, davanti a me, si trovava un immenso edificio grigio ferro, formato principalmente da tra parallelepipedi immacolati, attraversati da un foglio di cemento piegato ad onda le finestre erano presenti su tutte e tre le torri al di sopra della singolare decorazione, mentre al di sotto di questa le finestre abbellivano soltanto il pilastro centrale, mentre due archi uguali e ampi, che avvolgono due porte di grigio metallo munite di batacchio, si stagliano alle basi dei due pilastri. L'edificio è moderno e apparentemente spazioso, partorito dalla mente di un architetto bizzarro e imprevedibile, e perfettamente nascosto dalla zona. Il bosco a sinistra, la nebbia a destra e dietro di lui un anonimo sentiero asfaltato. Stringo la lettera in mano, meditando su dove potrei trovarmi.

Poi, senza tergiversare oltre, una goccia di pioggia cade sul mio naso. Poi un'altra, e un'altra ancora, fino a diventare uno stormo di piccoli soldati, pronti a sacrificarsi per dissetare Madre Natura. Siccome non ho molto addosso, comincio a camminare verso l'edificio, per ripararmi almeno sotto il fregio, che fa anche da tetto per le due entrate. Noto che una ferita grigia attraversa il prato: è un sentiero di ghiaia che porta direttamente alla costruzione. Non ho molto tempo per decidere se mantenere i piedi puliti ma soffrire nella corsa o rinunciare e incamminarmi nel prato bagnato. Scelgo la ghiaia, e mentre un fulmine squarcia il cielo, i miei talloni gemono ad ogni scontro con i frammenti di ghiaia. Mentre corro, assaporo la pioggia, una di quelle sensazioni che non vorrei dover dimenticare. La natura si manifesta con l'odore del terriccio bagnato, mentre l'aria si rinfresca e i fiori gioiscono dell'arrivo del temporale. Continuo a correre, e chiudo gli occhi, sorridendo mentre l'acqua mi accarezza.

Arrivo alla porta di destra e mi siedo a terra, distrutto. Non so quanto era lontano il riparo dalla pioggia, ma sento l'aria che respiro uscire fuori immediatamente, a causa dei miei respiri veloci e profondi, avventati nel abusare dell'ossigeno, come se ne fossi stato privato a lungo. Passo una mano tra i capelli. Non sono bagnati, sono fradici. Come tutto il mio corpo e la lettera. Oh no, la lettera. Aprò la busta, scoprendo che per fortuna la lettera al suo interno non è così danneggiata ed è abbastanza leggibile. Una calligrafia manuale, gonfia e voluttuosa, scrive:

 

I nostri più sinceri ringraziamenti per aver letto la lettera a Lei mandata.

Le chiediamo con grande emozione di unirsi alla corporazione presente nel luogo indicato alla sig.ra Delevir, che L'ha accompagnata fin qui. La scelta di un entrata così giovane(appena 17 anni) nella nostra associazione è più unica che rara, ed è soltanto dovuta ai suoi speciali talenti. Voglia Lei recarsi presso il luogo stabilito il prima possibile, per informazioni su ciò che Le destineremo in caso accettaste la collaborazione.

Cordiali saluti

 

La lettera si fermava qui. Accidenti, quanti dettagli. Uno sciame di parole addestrato appositamente per confondere la mente di colui che viene chiamato in tale associazione. Ero lì, e quindi, visto e considerato che avevo bisogno di un riparo(una notte mezzo nudo in mezzo ad un temporale mi ucciderebbe, per cosa sto indossando), decisi di tentare. Se non altro, avrei ascoltato le loro “offerte” fino ad asciugarmi, sperando che il temporale finisse. Magari mi sarei addormentato qui fuori dopo aver rifiutato, trovandomi in un altro luogo immediatamente.

Mi rialzo, combattendo l'impulso di accasciarmi nuovamente per dormire anziché entrare. Già, come avrei fatto ad entrare? Il portone era alto e massiccio, di legno e decorato da spessi fasci di metallo, che gli conferivano un aria antica e robusta, quasi medioevale. Il contrasto con la struttura in se era davvero notevole, quasi un pugno nell'occhio. Poi notai un batacchio, un anello di ottone nel becco di un corvo, le cui ali abbozzate si ergevano sul legno scuro. Afferrai saldamente l'anello, per poi bussare. Tre colpi, tre rintocchi. Suoni che echeggiavano nonostante la pioggia, solenni e altisonanti, suoni impossibili da ignorare. Passarono pochi secondi, infatti, prima che la porta venne aperta da un uomo sulla trentina. Era esile e di statura media, ed indossava un completo da ufficio con una giacca a doppiopetto, i cui bottoni bianchi rilucevano nell'ombra che sembrava avvolgere l'interno della struttura. Aveva occhi scuri piccoli e penetranti, un naso abbondante e labbra sottili, il tutto sormontato da una chioma di capelli corvini brizzolati.

Desidera?

Chiese. La sua voce era decisa e leggermente nasale, notai.

Sono qui per la lettera. Mi avete chiamato per farmi un'offerta.

Tentai di spiegare a mia volta, mentre la pioggia diventava più forte e le lacrime di quel cielo grigio cadevano con più irruenza.

Il ragazzo mi osservò, dai capelli scarlatti e umidi fino ai piedi scalzi, per poi guardarmi dritto negli occhi. Per un attimo mi sentii avvolto dal calore, come se venissi esposto ad un riflettore, ma avevo la cattiva sensazione di essere colto in flagrante, come se mi osservassero fare cose che non dovrei. Quella specie di mortificazione cessò quando il ragazzo interruppe il contatto visivo, facendomi un cenno con le mani. Osservai i segni dei suoi denti sulle dita con disinvoltura, come se stessi guardando tutt'altro, mentre la mia curiosità tentava di rivelare i miei crimini. Per tutta risposta, avvalorò la mia tesi, cominciando a mangiucchiare la pelle dell'indice non appena fui entrato.

Tic nervoso, noia, stress represso. Chissà che lavoro faceva per ridursi in quel modo. Ma forse esagero, forse è semplicemente un vizio. Sentivo ancora i suoi occhi su di me, mentre nell'anticamera dove mi trovavo si sentiva soltanto il rumore di piedi nudi sul marmo color onice.

La stanza era circolare, e le pareti, la cui vernice era di un grigio leggermente più chiaro della pavimentazione, color fumo oserei dire, erano rivestite da schermi di plexiglas, che si incurvavano anch'essi. Su di loro, con un pennarello bianco, erano state scritti una serie di orari, dai collegamenti incomprensibili. Mi voltai a vedere cosa faceva il tipo che mi aveva fatto entrare, e notai che si era seduto su di una comoda poltrona dietro una scrivania, una sorta di reception.

Leggeva una rivista, gossip o qualunque cosa fosse, mentre nella mano smozzicata reggeva una lunga sigaretta, tra medio e anulare, anziché tra medio e indice. Che tipo singolare.

Pensò il ragazzo che non ricorda e che non conosce.

Replicò sarcastica la mia mente. Mi costrinsi a cambiare la corsia dei suoi pensieri, ridirigendomi sulla stanza. Tutto ciò che infrangeva l'effetto prospettico circolare erano la scrivania, anch'essa curva, sebbene seguisse archi di diversa direzione rispetto alle pareti, e una rampa di scale, anch'esse della resina che rivestiva le pareti. Mi diressi quindi verso la scala angusta, e appoggiai il piede sul primo scalino, aspettando che il tipo all'ingresso mi fermasse. Non mi sarei voltato, sarei apparso soltanto strano, perciò proseguii integerrimo nella scalinata, giungendo ad un pianerottolo e poi salendo verso destra. Arrivai ad un altro piccolo pianerottolo, che però stavolta presentava una biforcazione. A sinistra un'altra rampa di scale, a destra una porta. Non c'era scritto niente sulla porta, e provai a bussare. Preferivo trovare qualcuno capace di aiutarmi, invece di rimanere in silenzio alla porta, facendomi entrare con disgusto per poi riprendere a leggere una rivista dall'importanza davvero approssimativa.

Nessuna risposta. Bussai nuovamente. Al terzo colpo, decisi che avrei provato ad aprire. Il pomello era d'ottone ed era tondo, lo afferrai con la mano e tentai di aprire la porta che, con mia grande sorpresa, gemette con grazia e lo introdusse nella camera. C'era un letto, un armadio in ebano e un comodino con sopra un vaso bianco contenente delle orchidee. Le pareti erano di un azzurro spento e gradevolissimo. L'intero complesso sembrerebbe molto buio, se non fosse per le lenzuola bianche del letto ad una piazza e mezza e le tende della grande finestra sulla parete sinistra. Quest'ultima illuminava tutto senza problemi, mentre i colori riposavano la vista. Era veramente piacevole. Girai a destra, notando una porticina a destra dell'armadio che celava un bagno piccolo e appartato, classico. Una doccia, un lavandino, un wc. Tutto circondato da mattonelle bianche quadrate, ogni lato lungo una decina di centimetri. Tornai indietro e guardai il letto. Sembrava tentasse di indurmi a dormire. Soffice e tranquillo, così silenzioso e pacifico. Senza accorgermene avevo accorciato le distanze tra me e il letto in tre passi, e ormai ero li per lì per gettarmi tra i cuscini. Mi fermai e feci mente locale. Non potevo farlo, ma soprattutto non potevo farlo con la porta aperta. Mi voltai e notai che effettivamente, davanti alla porta c'era qualcuno.

Salve!

Disse cordiale. Aveva i capelli ramati legati in una crocchia stretta dietro la testa, che rendeva le sue spalle più imponenti, avvolte nel completo malva che esibiva, in giacca e pantaloni.

Io sono Eva, puoi rivolgerti a me per qualunque cosa. Sappi comunque che puoi benissimo usufruire di questa camera, discuteremo dell'offerta quando sarai ben riposato. Una mente stanca decide con lucidità approssimativa. Meglio dormirci su.

Affermò con complicità, guardandomi in modo materno e chiudendo la porta dietro di sé. Feci spallucce. Visto che insisteva, avrei dormito. Tanto al risveglio mi sarei trovato da tutt'altra parte, senza la benché minima idea di chi fosse Eva e di dove avessi passato la notte.

O, almeno, era quello che credevo.

  
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