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Autore: Chewingum alla mela verde    31/08/2012    0 recensioni
E' la gelosia a bruciare il mondo.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sfogli le ciocche dei suoi capelli e leggi i segreti nascosti fra le doppie punte: tinta arancione per non sembrare troppo ingenua, olio ai semi di lino per mantenere una consistenza soffice e vaporosa. 
Ti macchi i polpastrelli di gel alla vaniglia e sai con una precisione massacrante che passerai il resto della giornata ad annusarti le mani. 
Lei finge di perdersi nel vuoto, tu fingi di non smarrirti nella sua matita sbavata, nei suoi occhi da cerbiatto ferito a morte.
E’ un gioco di specchi in cui nessuno vede l’altro: tutti sono troppo occupati a dirigere la propria performance. 
Appoggio la testa sul dorso della mia borsa sbrindellata, anche se, in fondo, la tentazione di farti sentire uno scarto umano è quasi incontrollabile. 
La realtà toglie il fiato. 
Lei cambia posizione, ti si acciambella fra le gambe come una gatta in preda alle fusa. Le gratti il collo con un sorriso che meriterebbe tutti gli ergastoli di questo mondo. 
Accendo una sigaretta e mi allontano verso il cielo e verso l’esterno, ebbra della facoltà di ignorare determinati ambiti della mia vita: se qualcosa mi dà la nausea, svolto l’angolo e prendo un frullato alla frutta. Se un coltello mi si pianta nella schiena, cambio pelle ed entro in uno stato di torpore incondizionato. C’è un universo per ognuno di noi, mi ripeto. C’è una nicchia felice anche nelle circostanze più catastrofiche, basta saper correre più veloce della verità.  
Colgo la fugace interruzione che la mia fuga ha inflitto a quell’idillio romantico che siete diventati: sorrido fra le ondate di rabbia e respiro un altro po’ di rancore stantio, ma senza voltarmi. Senza fermarmi.
Fermarsi, biascico mentalmente, è sinonimo di morire. 
Dai appuntamenti, fai progetti, non lasciare che il tempo si amputi nemmeno un’unghia per te. E’ la legge della giungla moderna: non guardarti mai dentro.
Nei sogni, cadere nel vuoto - da una scogliera, in un pozzo, giù da una finestra - significa esplorare la parte più intima di sé: gli psicoterapeuti hanno un orgasmo ogni volta che il paziente partorisce onirismi simili. ‘E’ un enorme passo avanti’ incalzano, ‘Continui pure, l’ascolto’. Continuo dicendo che, una volta abbandonato il corpo allo schianto, il risveglio è garantito. Chiamiamola autoconservazione. Chiamiamola: ‘il mio subconscio è troppo intelligente per lasciarsi assassinare in un modo tanto stupido’. Diciamo pure: ‘so benissimo che, al termine della caduta, c’è solo un marciapiede cosparso di organi frantumati; nella fattispecie, i miei’. 
Nei sogni, i simbolismi brillano raramente per originalità: tutto è molto più chiaro di quanto non sembri a prima vista. E’ per questo che gli psicologi usano parole altisonanti per descrivere l’anagramma dei nostri tormenti. Dire: ‘Hai paura di quello che sai, quindi fingi di non saperlo’, alla lunga, può suonare imbarazzante. Il problema è che è tutto qui. 
La luce, fuori, è disgustosamente abbacinante: l’aria è spolverata di polline profumato, le nuvole formano volute di panna, i tetti dei palazzi sono lamine argentate che scheggiano un cielo sin troppo primaverile. Le mie smorfie irritate stonano con qualsiasi dettaglio circostante. 
Offro una Winston Rossa al primo barbone bisognoso; arranco per un vicolo nascosto e mi intrufolo in un forno che sa di Paradiso perduto: nelle tasche compare una manciata di spiccioli dimenticati da settimane, covati con dovizia a fini d’emergenza. Chiedo con un sorriso surrealista una fetta di crostata. Sento il profumo di mirtilli caldi e glassati, sento la pasta frolla sbriciolarsi sotto il bacio del coltello. Una donna panciuta e rossiccia mi allunga la busta ecologica in plastica blu, io ringrazio e corro fuori. 
Estraggo la torta fresca d’acquisto e, per prima cosa, scatto qualche fotografia per immortalare questo gesto coraggioso: un flash per il bisogno di masticare; un flash per l'acquolina in bocca; un flash per la mano tremante; un flash per lo stomaco vuoto. 
Non ora, non qui. Adesso e subito. 
La mia mente è un quadro astratto, affisso all’ultima parete dell’ultimo museo dell’ultima gita scolastica passata a mordicchiarsi le unghie. 
Cammino per qualche secondo. Rimango immobile. Respiro affannato, anima affannata. 
Cosa c’è che non va? Li chiamano emotive eaters e la loro filosofia si riassume nel ‘Ho un vuoto dentro e nessuna speranza di colmarlo: l’unica soluzione è imbottirmi di qualsiasi pietanza mi capiti a tiro. Fino ad esplodere. Problemi?’ Sì, parecchi. Talvolta, li chiamano anche ‘Individui con disturbo alimentare di tipo bulimico’. 
Cammino ancora, mi avvicino a un cestino e butto la busta ancora calda. 
La marmellata emette gemiti sommessi, mescolandosi a un'orgia di scontrini, chewingum e schegge di vetro.
- Un messaggio in arrivo - Tuona il cellulare. 
Una scusa di plastica, borbotto io. 
Frugo nella borsa e il telefono ha una consistenza umida, quasi sudaticcia. Ci metto qualche secondo prima di constatare che ad essere bagnate sono le mie mani. 
"Non puoi fare sempre così". 
Un respiro e poi un altro.
"Volevo prendermi un caffè, ci vediamo in autobus". 
"Accompagno Federica a casa, ci vediamo domani".
Un respiro, poi un altro. Lo stomaco si contrae, una scarica elettrica lega i miei polsi al terreno, capovolgendomi come un foglio di carta: sono bidimensionale - penso - non ho nulla dentro. Non c'è niente da nascondere. Qualche scintilla di amor proprio vibra senza convinzione, nel tentativo disperato di risvegliare un orgoglio più abortito che propriamente deceduto. Non c'è la consapevolezza del fatto di essere accartocciata per terra, in mezzo a un portico affollato. Non c'è la percezione di quelle mani che mi premono sulle spalle, di quelle voci che mi chiedono se sto bene. C'è la caricatura dell'invidia, la bozza di una reazione. Ci sono io, avvolta in una maglia Banksyiana, che mi frugo nel cranio alla ricerca di un modo per manipolarti e ricondurti da me. C'è una disperazione che assume i connotati della comicità. C'è un'idiota che si rimette in piedi, muove qualche passo verso la fermata dell'autobus, poi verso la scuola - dove vi ha lasciati abbracciati, avvinghiati, uniti, fusi in un'attrazione corrosiva - poi di nuovo verso il pavimento. Mordo la pelle intorno all'unghia dell'indice, e, con altre mascelle, addento l'idea più oscena che si possa visualizzare. Mormoro un: "Va tutto bene, grazie, ho avuto un capogiro" e corro verso il bidone dell'immondizia; lì c'è la prova di quella forza che dieci secondi dopo è stata neutralizzata da un misero messaggio. Lì, c'è l'errore che sono ancora in tempo a commettere. Così, quando mi chiesero perché stessi divorando una fetta di crostata in posizione fetale, proprio affianco a un cestino dei rifiuti, risposi: "Mi girava la testa, mi sono seduta contro il primo muro che ho trovato". Ma, no, la verità non è mai espressa ad alta voce; la sua indole è più infima, si arrampica sul petto delle lettere e fa sentire la propria opinione attraverso un'eco impercettibile eppure evidente. "Cristo santo, hai beccato proprio il muro migliore, devo dire!" Un sorriso eloquente, di quelli che rassicurano: tranquilla, ho capito. Puoi non dirmelo, va bene così. "Un muro, per definizione, non è mai migliore di niente". E lo sapevo, perché non vedevo altro.  
  
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