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Autore: EliCF    01/09/2012    2 recensioni
Una raccolta di tre One-shot introspettive sul personaggio più amato di Hunger Games: Peeta. Tre momenti fondamentali per la crescita per il personaggio del ragazzo del pane. Dalla prima shot:
"ll grigio domina. Grigio surreale dal sapore di vecchio e sporco. Grigio che sembra voler sfidare l'azzurro del cielo, senza mai trovarne realmente il coraggio.
Nonostante le strade, come ogni domenica mattina, siano poco trafficate, gli abitanti del 12 sono svegli nelle loro case. Da qualche abitazione arriva fin qui il rumore dell'armeggiare di pentole e piatti per la prima colazione; da qualche altra sento lanciarsi auguri di buon giorno e buona domenica, accompagnati dal rumore di qualche tv che si accende. Non accendo mai quel dannato televisore. So che è troppo per me lasciare che anche quell'apparecchio malefico mi ricordi dei miei impegni da vincitore dell'ultima edizione degli Hunger Games, come il Tour della Vittoria.
Non sono felice di tutto questo: quello che desideravo era non diventare una pedina dei loro giochi sporchi e invece ora sento che, sì, mi stanno controllando."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Peeta Mellark
Note: Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Beacuse I avoid mirrors



- Non andartene ancora. Non prima che mi addormenti -
- Pensavo che avessi cambiato idea, oggi. Quando eri in ritardo per la cena -
-Resta con me.
 


«Sempre»
Sempre, Katniss. Sempre.
Potrei giurare che tu non abbia colto la mia risposta alla tua richiesta, come potrei giurare che ci sia riuscita. 
Rimango, ancora sorpreso, seduto sul ciglio del letto. Ho ancora la tua mano tra le mie: l'ho presa sperando di riscaldarla.
Faccio roteare lo sguardo lungo le pareti spoglie della stanza, senza coglierne realmente il motivo. La finestra è spalancata nonostante il freddo pungente che quest'inverno ha deciso di rifilarci; vorrei andare a chiuderla, ma decido di lasciar passare ancora un po' d'aria fresca. 
La guardo dormire sotto le luci fioche di un paio di candele: i capelli sono sciolti e d'inverno sembrano assumere riflessi rossicci che richiamano il colore forte delle labbra. La pelle, impallidita per il freddo, lascia che spicchino ancora di più insieme agli occhi di quel grigio sempre acceso, ora coperti dalle palpebre pesanti, testimoni di un sonno profondo. La fronte è rilassata: le sopracciglia non assumono l'espressione aggrottata che la caratterizza nei momenti di disapprovazione. Sembra una sconosciuta. Riesce a sembrarmi persino più bella. 
Mi impongo di distogliere lo sguardo e andare a chiudere la finestra per evitare altri malanni: sfilo la mano bianca dalle mie e la guido sotto le coperte. 
Prima di serrare la finestra, esito un paio di secondi: è una serata fredda e limpida. La neve ha smesso di colorare di bianco ogni superficie, ma il ghiaccio regna, lucido e trasparente. C'è un po' di vento, mi scompone i capelli e mi sferza con leggerezza il viso reso duro e quasi incallito dalle intemperie a cui è rimasto esposto all'Arena. Richiudo la finestra e il vetro mi riflette la mia immagine come uno specchio. Distolgo velocemente lo sguardo, un po' assonnato e un po' malinconico, perché evito gli specchi. 
Il motivo risale a quando tornai a casa dopo la vittoria degli Hunger Games. 
Varcai la soglia di casa timidamente, sentii una fitta di emozione allo stomaco. La porta non era chiusa a chiave e mi aspettavo di trovare qualcuno: mio padre, mia madre, uno dei miei fratelli. Eplorai in lungo e in largo, chiedendomi il motivo per cui non fossero lì. Temetti il peggio. Pensai che potevano essere stati uccisi, imprigionati, portati via dalle forze di Capitol City per motivi che, in quel momento, mi erano sconosciuti. Sfrecciai lungo il corridoio ed aprii con forza le porte di tutte le stanze, ma non trovai nessuno. Solo quando mi convinsi del fatto che non avrei trovato nessuno, mi chiusi la porta della camera dei miei genitori alle spalle. Non so perché andai lì, ma ci rimasi per un po'. Mi sedetti sul letto, sfiorai con le dita la stoffa della trapunta a cui mia madre teneva così tanto, il bianco liscio della fodera del cuscino di mio padre. Pensai che potessero essere ancora al Forno, allora mi feci coraggio e feci per andarmene. Prima di uscire dalla stanza, il mio sguardo cadde sullo specchio della toeletta di mia madre. Pensai che potrebbe non averla mai usata, per quanto era curata - la toeletta, e per quanto non era curata - mia madre. Fissai la superficie del tavolino: schiere di pennelli d'ogni misura e forma si susseguivano per tutta la lunghezza del mobile, intervallati da paia di cilindri dai colori diversi, ancora chiusi. Aprii uno dei due cassetti e scoprii rossetti e matite di cui non ho mai scoperto la funzione, vasetti di creme e una quantità quasi industriale di spugne di forme diverse che, evidentemente, costituivano un elemento sostanziale per il trucco. Pensai che quel piccolo tesoro avrebbe fatto impazzire chiunque persino a Capitol City. Tranne Portia, ovviamente: lei è la regina di tutta questa roba, possiederà una dozzina di mobili come quello. 
Mi ritrovai a riflettere su quanto mi sarebbe piaciuto dipingere. All'inizio pensavo solo che mi sarebbe piaciuto utilizzare un paio di quei pennelli così sottili che sembravano promettere la riuscita di un lavoro accuratissimo; poi mi resi conto di avere qualcosa, molte cose, da dire. Ma di avere la bocca serrata.
Ho sempre pensato che ci siano cose che, raccontate, perdano tutto il loro valore: un'esperienza all'Arena è una di queste. 
Sapevo che se avessi parlato, nessuno avrebbe capito il senso e l'intensità delle mie parole, delle mie verità. Allora decisi che avrei parlato con il linguaggio dei colori. Su tela. Con pennelli veri, non con quelli per il trucco, mai utilizzato, di mia madre. 
Abbandonai la stanza, ma non prima di essermi guardato allo specchio. Sì, è una cosa stupida: con tutte le apparizioni televisive in cui compaiamo io e Katniss, che bisogno avrei di guardarmi allo specchio? So come appaio. So come vogliono che io appaia. Eppure è stato diverso, guardarmi lì, da solo, in camera dei miei. Io che guardavo me, o quello che di me era rimasto. Io. Io, non una folla di persone radunate attorno ad un maxischermo. Io, non l'intera Panem. Io e basta. Mi vidi e mi sentii nudo. Sorridevo, ma sapevo di farlo solo perché ero in una specie di riflesso condizionato: pensavo di vedere me stesso da un maxischermo, costretto a sorridere, a battere le mani, a fare un paio di battute su argomenti che mi danno la nausea. Poi piansi e lì vidi me per come mi conoscevo. Debole. Impotente. Spaventato. 
Corsi al Forno e mi riconciliai con la mia famiglia, ma da quel giorno evito me stesso. Evito gli specchi perché capaci di mostrarmi quello che sono. 
E non voglio che il mondo lo scopra, perché nessuno va fiero delle sue debolezze. Nemmeno io. 
Lancio un ultimo sguardo a Katniss addormentata e sento che desidererei rimanere lì la notte intera. Mi avvicino nuovamente al letto e le regalo un bacio sulla fronte come augurio per una buona notte, poi mi chiudo la porta alle spalle e mi lascio distrarre dal motivetto che Primrose canticchia al piano di sotto.
Saluto la madre e la sorella di Katniss, mi complimento con quest'ultima per la bellezza della sua voce, quasi equiparabile a quella della ragazzina di cui mi innamorai a cinque anni. Lascio la casa e penso ancora agli specchi. Penso che sia una cosa stupida, nascondere persino a se stessi sfumature del nostro essere. Così, una volta a casa, prendo quello che, appena arrivato, ho staccato dal muro in corridoio e nascosto tra gli asciugamani del bagno. 
E' semplice, un quadrato magico capace di risvegliare in me momenti di assoluto mistero. 
Lo porto con me davanti al fuoco e piango per tutta la notte.


NdA: Seconda shot andata. Penso che questa mi piaccia molto di più della prima! 
E' bello leggere di un Peeta coinvolto in vicende, in qualche modo, staccate  da Katniss, nonostante ami quella coppia.
Anyway, spero in meglio per questo capitolo. 
Ringrazio chi ha recensito il precedente, perché è sempre un piacere,
Elicf
   
 
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