Respiravo piano e in silenzio, la notte, nascosta tra i sospiri di lei, dormiente. Come un'acrobata in bilico su una fune: un passo falso e sarei andata giù, svegliandola. In momenti come quello combaciavamo perfettamente, come due frammenti di enigma destinati a restare incastrati sempre, poiché quello era il posto che ci spettava; a noi e a nessun altro.
Era così piccola, si perdeva tra le lenzuola come gli ultimi pensieri formulati a sera che la mattina si cerca disperatamente di ricordare. Invano. Avrei voluto scaldarla e portarla altrove, dove neanche il vento sarebbe entrato; avrei voluto prenderla tra le mani e tenerla sul cuore, sempre; chiuderla in una gabbia d’oro bianco. Ma come non puoi tagliare le ali a un passero senza che sanguini così io non potevo proteggerla senza ferirla. La consapevolezza finiva col far male a me.
Discreta, lasciava al mondo la decisione di riconoscere o meno la sua presenza, la sua esistenza, e nessuno poteva sapere ch’era lì se non sceglieva di prestarvi attenzione. Ogni sua parola era un sussurro senza pretese; troppo fragile, troppo simile a una domanda, e se finiva ignorata allora era persa per sempre, distrutta da una risposta che non aveva avuto.
Nell’istante prima che quelle parole uscissero c’era un momento, uno, in cui le sue labbra erano socchiuse e gli occhi pure, mentre cercava di capire se davvero valesse la pena rischiare ad alta voce, ed improvvisamente conoscere quelle parole, ascoltarle, era la cosa più importante tra tutte. Faceva questo alle persone. Silenziosa, cauta, faceva divenire priorità desideri che neanche sapevo di avere. Lei che non era neanche presente nella lista delle sue, di priorità.
S’esponeva alla violenza della pioggia, chiedendosi come sarebbe stato annegarci in due, e ti ritrovavi a grondare acqua prima di accorgerti di essere lì.
Davvero doveva finire così, amore?
Era il tipo di persona che non si bastava, sempre cercando il suo pezzo mancante; l’ultimo elettrone per arrivare agli otto. Io, invece, mi rannicchiavo e mi contorcevo per assumere la forma della parte che lei non aveva, smussavo gli angoli della mia anima e contraevo i muscoli per poter entrare in quello spazio vuoto ed essere quella giusta per lei, serratura senza chiave.
Ma non capiva. Passava la vita preoccupandosi di quanto la sua presenza potesse risultare invadente, e la cosa la occupava a tal punto che le era impossibile accorgersi di quanto fosse ingombrante la sua assenza, invece. Come un fiore di plastica che non profuma, la sua assenza strisciava sui muri e sul pavimento; penetrava la pelle fino a raggiungere le ossa, l’anima. S’aggrappava ad ogni fibra come una fredda nebbiolina gelatinosa, e continuava a far male per mesi.
Credo di sentirlo ancora quel freddo, amore.