Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: PapySanzo89    03/09/2012    9 recensioni
Qualcuno era mai morto piangendo?
La risposta era no. Semplicemente perché lo aveva provato sulla sua pelle. Quando iniziava a mancargli l’aria, la vista iniziava a diventare appannata e finiva semplicemente per svenire o per ritrovarsi a fare respiri brevi e corti, che poi diventavano sempre più profondi e lunghi, finché non si ritrovava accucciato sul divano in posizione fetale, stanco come avesse fatto il giro del mondo correndo. Così si addormentava.
Nemmeno questa volta era riuscito a morire.
Post-reichenbach, Sherlock vuole tornare a casa sua in Baker Street, mentre John sta tentando di andare avanti in qualche modo.
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Se sperava che le cose con John migliorassero da quel giorno, beh, sperava male.
John era diventato ancora più intrattabile, più chiuso, e, più passava il tempo, più questa cosa lo infastidiva e lo feriva.
Da giorni la casa era assediata da giornalisti ed era stato costretto a una chiusura forzata... Di nuovo.
La signora Hudson stava iniziando a diventare isterica; voleva dare una mano, scacciando tutta quella folla, ma si era ritrovata solo a fare danni senza volerlo, così aveva pensato di mandarla per un po' da sua sorella con una scusa. Non poteva pensare ai paparazzi, alla signora Hudson e ai problemi con John, non ne aveva la forza.
 
John stava pensando di prendere la sua pistola, uscire e sparare sulle persone assediate da giorni davanti a casa loro ma il minimo di autocontrollo che gli era rimasto gli impedì di arrivare a un gesto così estremo. Aveva chiamato Greg obbligandolo a venire e a far sgombrare la gente, giurando che sennò ci avrebbe pensato lui. Era venuto, aveva scacciato via tutti quanti minacciandoli uno per uno di ricevere una bella denuncia, e loro se n'erano andati... Per circa mezza giornata.
Era uscito di casa per andare al lavoro ma lo avevano gentilmente rimandato indietro, dicendo che la sua presenza rovinava la concentrazione e la tranquillità dello studio; i giornalisti erano arrivati fin lì. Quindi ora si ritrovava anche senza un lavoro. Miglior amico risorto, single, casa insediata da paparazzi, disoccupato. Ecco la sua situazione attuale. E sempre tutto ricollegabile a Sherlock. La rabbia, che in quei giorni stava pian piano scemando, stava rimontando in modo decisamente più veloce.
Sospirò, prendendo il telefono e chiamando l'ultima persona al mondo che voleva sentire al momento.
«Dottore, che piacevole sorpresa. Cosa posso...?»
«Mandali via, Mycroft; in un modo o nell'altro, fallo!»
Era ovvio che il maggiore degli Holmes avesse colto al volo a chi si stesse riferendo.
«Farò del mio meglio, ma poi consideri il mio debito verso di lei concluso.» disse riattaccando subito dopo, senza attendere risposta.
“Debito”. Non aveva nessun debito nei suoi confronti e lo sapeva benissimo. In fin dei conti, Sherlock in realtà era vivo e -cosa più importante- si era preso cura di lui negli anni in cui finse la sua morte.
Forse era anche questo che gli faceva rodere qualcosa, in fondo allo stomaco; il fatto che Sherlock -che poco sopportava il fratello- fosse andato da quest'ultimo, piuttosto che da lui. Che avesse avvisato prima il fratello, di lui. Si sentiva messo in secondo piano, da parte, poco importante ma allo stesso tempo capiva che era un discorso infantile. Mycroft aveva potere, soldi e un'organizzazione dietro di lui pronta a rispondere a ogni comando; lui cosa aveva? Una pistola scarica da tre anni, chiusa in un cassetto ad ammuffire.
Sherlock si era buttato dal palazzo per salvarlo -lui, Greg e la signora Hudson, dettaglio non trascurabile-, quindi non poteva sentirsi in secondo piano. Ma quella era tutta logica, una cosa in cui Sherlock era bravo; lui invece si era sempre fatto trasportare dai sentimenti, era nella sua natura e qualcosa, semplicemente, gli faceva pensare di non valere poi così tanto.
 
Passarono diversi giorni, i giornalisti -tranne uno o due più temerari- avevano smesso di assillarli e Sherlock era potuto tornare a occuparsi di casi -sempre di nascosto e sotto supervisione di Lestrade- mostrandosi entusiasta all’idea. John, dal canto suo, era tornato a seguirlo e a mandare curricula in giro per gli ambulatori londinesi. Voleva provare a mandare qualcosa anche al Bart's, ma tra i brutti –orribili- ricordi da ricollegare e il fatto che avrebbe rivisto Molly (altra persona a sapere la verità che non gli aveva detto niente), lasciò perdere. Prima o poi sarebbe comunque andato a trovarla per farci una chiacchierata, Molly era una persona troppo buona di cuore, non doveva essere stato facile nemmeno per lei mentirgli ma, per amore di Sherlock, lo aveva fatto, come lo avrebbe fatto anche lui se Sherlock glielo avesse chiesto.
 
Scena del crimine, pluriomicio, una donna assieme alla migliore amica (amante) trovate morte in un bidone dell'immondizia, tagliate a pezzi, una col volto sfigurato.
Sherlock risolse il tutto in mezza giornata d'indagine, trovando assassino, arma del delitto e movente.
Spiegò a Lestrade come mai l'uomo (il padre di una delle vittime) le avesse uccise e il perché una delle due (la figlia) fosse sfigurata. Finito il resoconto nessun “fantastico” o “brillante” uscì dalla bocca di John, che se ne rimaneva in disparte a parlare con uno degli agenti. Non lo stava ascoltando e, a dire il vero, non lo faceva praticamente mai, nemmeno sulle scene del crimine. L'aver compreso un altro enigma, per gli altri irrisolvibile, non gli procurò alcun entusiasmo.
 
Tornarono a casa a piedi, entrambi avevano bisogno di una passeggiata, ognuno rinchiuso nel proprio pensoso silenzio.
Tornati a Baker Street, Sherlock andò a chiudersi un attimo in camera mentre John si sedette sul divano aprendo il giornale. Non era giornata per nessuno dei due.
Sherlock sospirò in camera sua, poggiando il cappotto sull'apposito gancetto dietro la porta e rimanendo a guardare il vuoto per qualche secondo; infine, decise di fare un ultimo tentativo.
Quando tornò in soggiorno, John non si degnò nemmeno di alzare gli occhi dal giornale. Si fermò a riflettere sulle parole di Greg di qualche settimana prima: “Lui si comporta come ti comporti generalmente tu con le persone”. No, con John non si era mai comportato così. O sì? Non lo aveva sicuramente fatto apposta comunque.
«Vuoi del caffè?» chiese con tutta la finta tranquillità del mondo. L'altro non rispose.
«Caso piuttosto interessante oggi, non credi?» provò ancora ma niente, sempre lo stesso identico mutismo.
«John, per favore, dì qualcosa!» Sospirò esasperato ma l'altro continuò a escluderlo da ogni suo pensiero.
Gli si avvicinò togliendogli delicatamente il giornale dalle mani; John parve accorgersi della sua presenza solo in quel momento ma non disse niente, intanto cominciò a guardare da qualsiasi parte pur di non posare gli occhi su di lui.
«John, mi stai facendo impazzire!»
E quella frase sembrò far rinsavire il dottore.
«Come prego?!»
Sherlock lo guardò, serio in viso, e ripeté le stesse identiche parole iniziando a spiegarsi: «Non mi parli da giorni, mi eviti, alle volte invece mi descrivi come la persona migliore del mondo e subito dopo ti rabbui e torni a non rivolgermi la parola. Cosa devo fare?»
John lo guardò come a dire “spero tu stia scherzando” e storse la bocca non dicendo niente.
«Anche adesso, perché non mi rispondi?!» Si sedette sopra il tavolino arrivando all'altezza degli occhi di John. «Sto provando a farmi perdonare ma ogni cosa che faccio che sembra buona ti fa solo rallegrare per pochi minuti per poi farti arrabbiare di nuovo. All’inizio, appena sono tornato, andava meglio, eri veramente più contento di vedermi ma adesso...» Fece voltare il viso di John verso il suo con un movimento brusco. «Adesso a malapena mi guardi in faccia.»
John si divincolò, si alzò riprendendo il giornale e andò a sedersi sulla sua poltrona continuando a ignorarlo.
Ora si stava veramente incazzando, doveva trovare un argomento per farlo smuovere... Ma cosa?!
Ah! C'era qualcosa d’irrisolto.
«Che fine ha fatto Mary?»
Sapeva di aver fatto una domanda scomoda, con lui non ne parlava mai ed erano settimane che non lo vedeva uscire con lei.
John alzò lo sguardo dal quotidiano puntandolo sul coinquilino, in un’espressione ferma e decisa. «L’ho lasciata.»
Oh.
Rimase un attimo in silenzio a riflettere, mani sui fianchi, sguardo rivolto a terra. Sinceramente non se lo aspettava; credeva che le avesse semplicemente detto che gli serviva un po' di tempo, che il suo amico era tornato e che voleva stare un po' con lui, ma non credeva... questo.
«Perché?»
John fece una risata amara. «Tu non mi parlavi di Irene, mi sembra; bene, io non ti parlerò di Mary.», concluse senza aggiungere altro, per tutto il resto del tempo.
Cosa c'entrava Irene in quel frangente?! Voleva sapere perché aveva lasciato Mary, voleva saperlo anche se non ne comprendeva il motivo; del resto, delle sue altre relazioni, non gli interessava il “perché”.
«Voglio saperlo.» disse mettendosi davanti alla finestra per poterlo vedere bene in faccia.
John sbuffò sorridendo, mentre voltava pagina non degnandolo di risposta. E lì Sherlock esplose.
«Maledizione, John! Che cosa vuoi che io faccia ancora?! Tu mi conosci, in realtà sei l'unico che mi conosca veramente, e sai che ci sto provando, sto tentando di tutto per fartela passare! Sono addirittura più socievole ma tu... tu non me la stai rendendo facile! Non fai niente, nemmeno per farmi capire se sto sbagliando o meno.»
John voltò pagina passando allo sport. La sfuriata sembrava essergli entrata da un orecchio e uscita dall’altro.
«Okay...» si ritrovò a sospirare Sherlock. «Okay, ho capito.»
Aveva finito di trarre le sue conclusioni, aveva preso tutti i dati a sua disposizione e li aveva messi insieme arrivando alla soluzione.
«Io non vorrei mai essere la causa della tua infelicità, John, non di nuovo e tu, al contrario di quello che pensavo, sei infelice, deluso, arrabbiato. E' meglio se me ne vado. Ora sai che sono vivo, non hai nulla di cui preoccuparti.» A grandi falcate lo sorpassò -notando ancora che John non aveva fatto una piega- e uscì dalla porta di casa non prendendo niente tranne il cellulare, fece le scale a due a due inciampando quasi sugli ultimi gradini. Arrivato di fronte al portone, si fermò. Stava per lasciare tutto quanto, stava per varcare la soglia e non tornare più. Non sarebbe rimasto a Londra, non nella stessa città di John.
«Tu.»
Si voltò di scatto verso destra trovando John sugli ultimi due gradini prima del pavimento, non lo aveva nemmeno sentito.
«Come puoi permetterti di dire e fare sempre quello che vuoi?» domandò, rabbioso. «Come puoi pretendere di tornare e trovare tutto come prima? Che io sia solo felice, non abbia un minimo rimpianto, una paura che tu possa farlo di nuovo, lasciarmi fuori, lasciarmi indietro -mentendomi- sparendo per chissà quanto tempo? Hai idea di quello che ho passato? Di come mi sia sentito? Di quanto ora io mi senta inutile per te?! Insomma, sei andato da Mycroft, per Dio! MYCROFT!»
Lo guardò mentre tentava di riprendere fiato tra una parola urlata e l’altra. «John, non sei mai stato inutile, sono dovuto andare da Mycroft perché...»
«Zitto! Stai zitto e ascoltami.»
E Sherlock non aprì più bocca.
 
Si stava sentendo come un fiume in piena, come se finalmente un argine si fosse rotto e ora avesse la possibilità di dire tutto quello che voleva. Probabilmente era stato il discorso di Sherlock di poco prima, il suo “sto facendo tutto per te”, ma qualcosa era cambiato, si era mosso, e finalmente poteva dire ciò che realmente pensava.
«Smettila di fare il buon samaritano che cerca di salvarmi, andandosene e venendosene come più gli aggrada! Chi ti da il diritto adesso di andartene? Veramente, sai cosa vuol dire credere il tuo migliore amico morto?! La persona a cui tieni di più, defunta? Sono andato alla tua tomba Sherlock, la tua stramaledettissima tomba ogni anno! Parlandoti delle mie giornate e scherzando sul fatto che a te non sarebbe potuto importare di meno! Mi sono fatto fuori i nervi a forza di non dormire e di ritrovarmi a frignare come un moccioso di cinque anni!»
Riprese fiato appoggiandosi al corrimano, l'adrenalina che gli pompava nelle vene. Non faceva un discorso così lungo e dai toni così accesi da quelli che gli sembravano secoli ma finalmente si sentiva vivo. Gli sembrava che il cuore battesse di nuovo e che il respiro fosse tornato. Si ritrovò a sorridere.
«Quindi tu ora la smetti di fare di testa tua! Di decidere anche per me e porti quel tuo fottuto culo al piano di sopra! E se deciderò di ignorarti per altri tre anni, allora tu sopporterai! Così forse capirai, almeno in parte, come mi sono sentito io!»
Una piccola parte del suo cervello gli aveva fatto notare che quella frase era ingiusta, che Sherlock sicuramente non era andato a divertirsi e che probabilmente anche lui aveva sentito la sua mancanza ma la zittì immediatamente.
«Ci siamo capiti?!»
Contrariamente a quanto pensava, Sherlock annuì rimanendo in silenzio. Probabilmente quello non era che l’inizio di un lungo discorso ma nessuno dei due era in una facoltà tale da poterlo affrontare al momento.
John gli voltò le spalle e fece per tornare su, quando sembrò ricordarsi di una cosa e si voltò di nuovo, Sherlock aveva già un piede sul primo gradino.
«Ah, Sherlock...»
Il detective alzò il viso per guardarlo e John ne approfittò per tirargli un pugno sullo zigomo (facendosi oltretutto male), era la prima parte che riuscì a colpire.
Sherlock sputò fuori un imprecazione e si toccò lo zigomo. La parte lesa gli sembrava già più gonfia.
«Bene, ora mi sento meglio.» Fece un profondo respiro, come se non ne facesse uno vero e così bello da secoli. «Adesso sali che prendo la cassetta del pronto soccorso, bisogna metterci un po' di ghiaccio.»
 
Dopo averlo medicato, i due mangiarono insieme qualcosa di semplice e veloce.
Finita la cena, John andò in camera propria salutando l'amico in tono allegro, l’altro rispose al saluto con un muso lungo e una mano a massaggiarsi lo zigomo.
Un raggio di luna filtrava dalle tapparelle, non del tutto chiuse, illuminando parzialmente il lenzuolo aggrovigliato su se stesso alla fine del letto. Il dottore se ne stava disteso a guardare il soffitto, perso nei suoi pensieri, le mani sulla pancia e l'espressione smarrita.
Si sentiva meglio, si sentiva dannatamente meglio. Anche con l'adrenalina che era scemata, gli rimase una sensazione di calore nel petto che lo lasciò tranquillo, di buon umore e finalmente sereno.
Stava pensando a Sherlock -come sempre- ma questa volta i suoi pensieri non sembravano essere del tutto negativi e, anzi, lo facevano riflettere dal punto di vista dell'altro.
Era stato via per tre anni, e lui non aveva nemmeno chiesto dove e perché o come se l'era cavata, lasciando la sua città e le uniche persone a cui teneva -o a cui diceva di tenere- quindi si era ritrovato totalmente solo a dover andare avanti. Non c'era nessun Greg, nessuna signora Hudson a tentare di risollevargli il morale quando magari sentiva nostalgia (e John ne era sicuro: ne aveva sentita), nessuna spalla su cui provare a sfogare il dolore o semplicemente nessuno con cui scambiare qualche battuta (inutile dirlo, sapeva che con Mycroft non lo avrebbe mai fatto).
Si voltò su un fianco in direzione della finestra, un braccio sotto la testa.
Il giorno in cui era tornato...
Sherlock, zuppo dalle punte dei capelli alle scarpe, se ne stava a testa bassa a guardarlo; nessun “Ehi, ho finto la mia morte, sono un genio, ti racconterò come ho fatto.” Semplicemente lui era lì, veramente felice di vederlo e di potergli parlare, di poterlo toccare. Lo aveva capito da come Sherlock lo aveva stretto in quell’abbraccio, gli era mancato. Gli era mancato tanto quanto lui era mancato a John.
Sorrise nell’oscurità della stanza e si chiese come mai quell'idea gli stesse venendo solo in quel momento ma non tentò di darsi una vera risposta. C'era una cosa che doveva ancora fare.
 
Sherlock se ne stava rannicchiato in un angolo del letto, spalle rivolte alla porta, fermo a riflettere come il suo coinquilino al piano di sopra -anche se non poteva saperlo-, e pensava a tutto quello che gli aveva detto John solo qualche ora prima.
Davvero aveva pensato di essere inutile? Meno importante del fratello? Insomma, era ridicolo! E quel pugno che gli aveva tirato... Tutt'altro rispetto a quello di anni addietro. Questo gli aveva fatto veramente male.
Doveva fargli capire che non doveva sentirsi inferiore a nessuno, mai. Che era la persona migliore del mondo per lui e che si sentiva fortunato -molto fortunato!- ad averlo incontrato. A parole però non era bravo, non quando si trattava di esprimere i sentimenti, bastava vedere i risultati ottenuti in tutte quelle settimane...
Era talmente concentrato a riflettere che non sentì la porta della camera aprirsi e dei passi farsi avanti, si accorse della presenza di John solo quando il materasso si abbassò sotto il peso dell'altro.
Il cuore gli iniziò a galoppare impazzito nel petto. Tentò di non darlo a vedere, voltando appena la testa in direzione dell'amico con aria annoiata e ancora imbronciata.
«Sei venuto a terminare l'opera?» chiese ironico, indicandosi velocemente lo zigomo.
John rise. Rise per la prima volta dopo tanto tempo e le orecchie di Sherlock si bearono di quel suono mentre socchiudeva gli occhi per un secondo.
«No. Sono venuto per proporti un’offerta di pace.»
Fece il sostenuto, notando il buon umore dell’amico. «Non so se adesso mi va.»
«Dai, andiamo!»
Si sentì prendere per un braccio e voltare delicatamente verso John, il lenzuolo gli scivolò dalle spalle senza che potesse fare niente per fermarlo, preso totalmente alla sprovvista com’era.
 
John era un medico militare e in vita sua ne aveva viste di cose. Sperava però di non doverle più vedere e, soprattutto, non sulla pelle del suo migliore amico.
Non si era ricordato dell'abitudine di Sherlock di dormire in mutande e, sinceramente, quando aveva fatto la strada per entrare in camera sua non ci aveva nemmeno pensato, quindi si ritrovò spiazzato quando il lenzuolo calò delicatamente fino al fianco dell'altro lasciando in vista la pelle bianca cosparsa di cicatrici.
Sherlock aveva tentato di rimediare tirando di nuovo a sé il lenzuolo ma John aveva stretto il tessuto bianco fra le dita, lasciandolo cadere ai piedi del letto e scoprendo così del tutto l’altro.
Era rimasto in silenzio qualche secondo lasciando vagare lo sguardo su ogni cicatrice, rimanendo quasi senza fiato nel vedere quella enorme sul fianco.
Ci passò una mano sopra, toccandola a malapena con i polpastrelli in una carezza che la ridisegnava, dal fianco fino quasi all'elastico dei boxer. Sentì Sherlock tremare lievemente.
Lo guardò negli occhi e vide che l’altro lo stava fissando con la bocca contratta e l'espressione indecifrabile.
Passò una mano su qualche altro segno, soprattutto su quelli che sapeva che avrebbero potuto fargli rischiare la vita, e quasi gli uscì un rantolo dalla bocca quando ne sfiorò uno vicino al cuore.
«Come... come te le sei procurate?», l’esitazione nella voce era chiara, non era totalmente convinto di volerlo sapere. Mentre lui se ne stava tranquillamente a Londra a lavorare, Sherlock era da qualche parte a rischiare di farsi ammazzare, da solo.
Il consulente investigativo rimase per un attimo a fissarlo, probabilmente stava pensando bene a cosa rispondere ma soprattutto a come farlo. Si schiarì la voce e si avvicinò un po’ di più come se, detta da una distanza ravvicinata, la realtà facesse meno male.
 
«Me le sono procurate in giro per il mondo, non ti so dire esattamente la provenienza di tutte ma della maggior parte sì. Ad un certo punto inizi ad avere talmente tanti taglietti superficiali da dimenticarti perfino da dove essi arrivino.» Provò a metterla un po' più sull'ironico ma vide la faccia di John contrarsi dal dispiacere, con lo sguardo spostato in un'altra direzione.
Sapeva di non essere bello da guardare.
Sospirò e si mosse ancora un po’ verso di lui, aveva come bisogno di sentirlo più vicino.
«Questa qui...», e si indicò il fianco, «Me la sono cercata a dire la verità. Un errore di distrazione estremamente stupido, dovuto alla troppa euforia e alla convinzione che presto sarei potuto ritornare.» L'attenzione di John era tutta sua, anche se sapeva di non averla mai persa in quel frangente.
«Ero sulle tracce del braccio destro di Moriarty.» Vide John rabbrividire a quel nome e gli strinse una mano sul braccio come per rassicurarlo. «In realtà erano mesi che gli stavo dietro ma sempre, in ogni situazione, alla fine riusciva a sfuggirmi e io dovevo fare nuove ricerche ed elaborare nuove strategie, sotto copertura ovviamente.»
John cercò di dire qualcosa in tono allegro ma fallì miseramente. «Beh. È quello che ti piace fare, no? Avere un avversario alla tua altezza.»
Lo guardò con finta calma. Davvero non capiva?
«No, se l'unica cosa che voglio è tornarmene a casa da te. Per mesi ho pensato di farti venire, di chiamarti e dirti “risolviamo anche questo insieme”, sei un soldato del resto ma era troppo pericoloso. Questa volta non potevo permettermelo.»
John gli si avvicinò ancora un po' finché non si ritrovarono a condividere lo stesso cuscino. «Poi?» chiese, e Sherlock per un attimo perse il filo dei pensieri guardando John che lo osservava con espressione malinconica.
Si schiarì la voce tossendo appena.
«Poi finalmente l'ho trovato in una città dell'Iran, ero ben travestito quindi non è riuscito a riconoscermi. Tutto il piano era perfetto -beh, quasi!-, dovevamo tendergli un'imboscata e prenderlo vicino a Varamin. Peccato che avessimo scoperto troppo tardi che nell'organizzazione c'era una spia. Così si è preso semplicemente gioco di noi, tentando di fuggire sotto il nostro naso.
Ho iniziato a rincorrerlo e John, te lo posso giurare, quando ho allungato la mano avrei potuto toccarlo ma lì... Beh, lì mi sono distratto.»
Non riuscì a nascondere un certo tono d'imbarazzo nell'ammettere una cosa simile. Ancora adesso continuava a darsi dell'Anderson per essere caduto in una trappola del genere. Si schiarì la voce e continuò, riservando di quando in quando qualche occhiata a John che aveva smesso totalmente di parlare. «Così mi sono ritrovato un bel coltello nel fianco e una ferita che mi fece annebbiare la vista, proprio mentre vedevo Moran riuscire a fuggire, di nuovo. Il mio gruppo arrivò poco dopo e sparò in fronte alla spia, prima che riuscisse a finire l'opera. Dannati idioti, ci avrebbe potuto dare informazioni preziose. Il giorno dopo mi risvegliai in un ospedale, ero stato portato lì dagli altri mentre ero svenuto; gli infermieri mi imbottirono talmente tanto di analgesici da non riuscire più nemmeno a pensare. Mi hanno detto che ho delirato per settimane ma, sinceramente, non ricordo nulla.»
Tornò il silenzio nella stanza, John sembrava assimilare la cosa e sembrava farlo meglio toccando l’altro. Gli ripassò la mano sulla cicatrice e Sherlock la sentì bruciare di nuovo sotto il tocco delle sue dita.
 
“No, se l'unica cosa che voglio è tornare a casa da te.” John fece finta di non sentire il proprio cuore fare un balzo e finse anche una calma che non possedeva, mentre Sherlock gli rivelava come si era procurato quella ferita. Voleva solamente abbracciarlo come aveva fatto quand'era tornato e sentirlo stretto a sé, vivo, caldo. Invece si era avvicinato di poco, rimanendo a fissarlo preoccupato, e gli aveva chiesto di continuare; voleva sapere.
Così quello era il famoso Moran, la causa di tre anni di attesa, tre anni di sofferenza. Dopo quel racconto, Sherlock iniziò a rivelare qualche informazione molto veloce su altre sue avventura e su come, alla fine, se l'era sempre cavata. Questa volta non riuscì a trattenere qualche esclamazione sorpresa –“brillante!”, “geniale!”- e Sherlock ne sembrava entusiasta.
Più Sherlock parlava e spiegava, più lui si sentiva un terribile imbecille ma soprattutto uno stronzo per averlo trattato così male. Si vedeva da come ne parlava che la situazione lo aveva esasperato, che la continua ricerca di uomini dalla dubbia identità lo aveva sfinito, stancato. E per la prima volta John notò che il corpo dell’amico era anche effettivamente più magro di quanto ricordasse.
Sollevò lo sguardo, che fino ad ora era rimasto puntato sui fianchi stretti, e gli posò una mano sulla guancia.
«Scusa per il pugno di prima. Non te lo meritavi.»
Gli carezzò il graffio delicatamente, nello stesso modo con cui aveva toccato tutte le cicatrici. La mano di Sherlock coprì la sua facendola aderire di più allo zigomo mentre chiudeva di nuovo gli occhi e respirava l'odore di John dalla sua mano.
«No, non me lo meritavo.» concordò. «Per una volta che faccio qualcosa di veramente altruista, guarda come vengo trattato.»
John sorrise lievemente. «Mi dispiace, Sherlock.»
Si ritrovò gli occhi azzurro chiaro puntati nei suoi blu. Il dottore capì che l’altro stava riflettendo.
Il consulente poi abbassò lo sguardo, lasciando la mano di John e  portandosi la propria mano verso la clavicola destra. Stava evidentemente soppesando le parole.
«Sai, John, fra tutte le ferite che mi hanno fatto male, questa è la peggiore che mi sia capitata.»
Rimase in silenzio ad ascoltare, non capendo subito dove volesse andare a parare, mentre osservava quel segno che, al contrario degli altri, sembrava mal curato e non ancora del tutto a posto. 
«Non perché sia più profonda delle altre o perché mi sia stata inferta in modo più crudele, ma semplicemente perché qui sono dovuto rimanere cosciente per tutto il tempo. Quando mi colpirono, un pezzo di lama mi rimase conficcato dentro e non c’erano medici con me, nessuno per miglia. I miei compagni mi hanno dovuto ricucire lì, in mezzo al nulla, senza anestesia.»
John sapeva cosa volesse dire, quel dolore non lo aveva mai provato in prima persona ma si era ritrovato più volte senza medicinali o del semplice cloroformio, con i furgoncini dei rifornimenti che venivano attaccati per le strade deserte o che semplicemente tardavano ad arrivare, e lui si era preparato psicologicamente –per quanto questo potesse servire- a cucire ragazzi più giovani o più vecchi di lui che urlavano fino a perdere quasi la voce o che mordevano una cintura di cuoio per cercare di trattenersi dal perdere il controllo.
«Ricordo di aver provato un dolore atroce, di aver urlato e di essermi dimenato, ma sono rimasto sveglio e vigile per tutto il tempo. Ora la guardo e questo è tutto ciò che mi rimane: un ricordo. Di una cicatrice rimane solo il ricordo, John. Può farti venire in mente cose tristi o farti ricordare qualche sensazione ma, una volta rimarginata, è solo un segno sulla pelle. Non può riportarti indietro, non può farti riprovare veramente quella sofferenza.»
Finalmente John stava iniziando a capire il senso del discorso e quasi gli venne da piangere.
«Io sono la tua cicatrice, io ti ho provocato sofferenza, ma spero che un giorno riuscirai a perdonarmi totalmente e, guardandomi, non ti verranno in mente solo cose brutte ma lascerai il passato alle spalle per andare avanti...», fece un piccolissima pausa. «Con me, magari.»
E John si sentì sprofondare in un baratro di senso di colpa. Da quando Sherlock era così prolisso in cose come i sentimenti e le metafore? Non lo sapeva, non lo sapeva proprio; l'unica cosa che sapeva, di cui era veramente sicuro, era di volere Sherlock. Per sempre, con lui, ancora.
«Ti ho già perdonato. Ti ho perdonato da quando mi sei ricomparso davanti, da quando hai pronunciato il mio nome la prima volta dopo tre anni di assenza. Ce l'avevo con te per un semplice motivo di orgoglio.» Non era solo per quello, ma non aveva senso spiegargli tutto, probabilmente Sherlock già lo sapeva.
«Non voglio che ti senti inferiore a nessuno, John. Perché non lo sei.»
E lui, in realtà, sapeva benissimo anche questo.
«Sherlock... Io...»
Si avvicinò quel poco che bastò per far sfiorare le loro fronti e si guardarono negli occhi ancora una volta, respirandosi addosso. John iniziò a lasciargli dei piccoli baci sulle guance, sul naso, sulle palpebre e, subito dopo ogni bacio, udiva un mugolio di approvazione dell’altro. Posò una mano dietro la schiena del suo più caro amico, facendo una piccola pressione in mezzo alle scapole, e poggiò le labbra in un tenero bacio a stampo su quelle di lui.
 
Sherlock si spinse con il corpo contro il suo dottore cercando maggior contatto fisico, passò le braccia dietro il suo collo iniziando ad approfondire il bacio. La sua mente era totalmente persa verso lidi lontani.
D’un tratto si ritrovò la schiena adagiata completamente contro il materasso e John sopra di lui che gli passava le mani lungo il corpo snello, iniziando a strusciarglisi sopra senza cognizione di causa. Aprì la bocca sotto le carezze della lingua di John che continuava a solleticargli le labbra, finché d'un tratto il dottore si fermò alzandosi di poco dal corpo di Sherlock con grande disappunto di quest’ultimo.
 
Stava iniziando ad avere dei grossi problemi a gestire la situazione. Per prima cosa, Sherlock era praticamente nudo sotto di lui e, se quando era entrato nella camera non ci aveva pensato, adesso lo stava facendo e anche troppo. Oltretutto se ne stava docile tra le sue braccia e si modellava perfettamente a lui, era una sensazione talmente nuova e coinvolgente che non si era nemmeno accorto di averlo spinto sulla schiena e di stargli pesando addosso mentre gli si muoveva sopra. Qualcosa però lo aveva fermato, un dubbio, un piccolo e insignificante dubbio. 
«Sherlock... Non lo stai facendo solo per me, vero?»
Gli occhi dell’altro lo fulminarono come se avesse appena detto che non ci sarebbero stati più omicidi per vent'anni avvenire.
«Una volta ti dissi che eri un idiota ma non credevo arrivassi a certi livelli. Io devo per caso chiederti se sei ancora eterosessuale?»
Si sentì prendere di forza per i capelli e spingere di nuovo giù, verso la bocca di Sherlock che stava aspettando famelica.
 
Gli mordicchiò il labbro inferiore per poi leccarglielo, quasi in segno di protesta, passando poi la lingua sul contorno di quello superiore. Non credeva avrebbe fatto una domanda così stupida (anche se una cosa del genere l'avrebbe potuta fare anche solo per lui, perché era lui), come non credeva -fino a nemmeno venti minuti prima- che si sarebbe ritrovato John nudo addosso, che gli baciava ogni centimetro di pelle ripetendogli quanto fosse bello e facendogli perdere ogni facoltà di raziocinio. Si era lasciato guidare tutto il tempo da John, decisamente più ferrato nel campo di quanto fosse lui, e aveva raggiunto l'orgasmo. Non avrebbe nemmeno saputo dire se fosse durato poco o tanto, ma sapeva perfettamente di essere la persona più felice e completa sulla faccia della Terra con John che gli sorrideva e gli baciava il viso facendogli delle piccole brevi carezze e sussurrandogli che lo amava.
Dio, sì, lo amava.
«Ti amo anch’io, John.» Non poté evitare di dirlo, mentre gli avvolgeva il collo con le braccia.
 
 
                                                                                                     *         *         *
 
La mattina dopo John si svegliò con un braccio anchilosato e la mente stranamente rilassata. Aprendo gli occhi la prima cosa che notò furono una zazzera di capelli ricci e castani e poi il loro proprietario, tranquillamente addormentato con la testa sul suo braccio e il resto del corpo avvinghiato a lui.
Okay. Non era stato un sogno. Uno di quei sogni che si ritrovava a fare certe notti per poi passare i giorni successivi non riuscendo più a guardarsi allo specchio per la vergogna di averci solo pensato.
Sherlock era lì, ancora magnificamente nudo e aggrappato a lui. Stava per mettersi a ridere. Quelle risati forti che ti fai con gusto, liberando tutto quello che senti dentro: eccitazione, follia, gioia, rabbia e rimpianto che se ne vanno; ma non voleva svegliarlo. Rimase a contemplarlo ancora un po', fermandosi ogni tanto sui segni che aveva lasciato quella notte (qualche morso qui, qualche succhiotto là) e a pensare a quanto fosse stato incredibile. Non erano durati tanto, né l’uno né l’altro, però -come si dice?- breve ma intenso. Okay, aveva quasi quarant’anni e si sentiva come un'adolescente in calore... Meraviglioso. 
«Sappi che questa sarà una delle rare volte in cui te lo dirò, quindi prendilo come un avvertimento: dormi.»
La voce di Sherlock lo riportò alla realtà. Lo vide districarsi dalla posizione in cui aveva dormito e dargli le spalle per poi avvicinarsi al suo corpo, fino a far aderire la sua schiena al petto del dottore. Gli prese poi un braccio guidandolo sulla sua pancia, la mano stretta attorno alla sua, e così John si ritrovò ad abbracciarlo da dietro. Sorrise e gli diede un veloce bacio tra i capelli.
«Agli ordini.»
Si addormentarono entrambi in poco tempo.
 
 
 
Sei mesi dopo...
 
«Sherlock! Che cos'è questo?!» proruppe John, dirigendosi verso la cucina -dove l'altro stava beatamente appoggiato su una sieda a fare qualche tipo di ricerca col microscopio- con in mano una scatola di scarpe.
«È un...»
«No. È una domanda retorica, so benissimo che è un piede. Ti sto chiedendo -sottintendendolo- perché c'è una scatola con dentro un piede nel nostro armadio, nella nostra camera da letto!»
Sherlock sollevò gli occhi al cielo. «È chiaro come la luce del sole, John: è un esperimento.»
Avrebbe dovuto commentare?! Probabilmente no. Tanto ormai cosa avrebbe dovuto dire? Era fatto così, e lo amava anche per questo.
«Ne avevamo già parlato. Niente roba del genere in stanza.»
Sherlock stava per replicare ma John lo interruppe: «No, né dalla parte mia né dalla parte tua. Era un discorso piuttosto chiaro, il mio.»
«Non mi ricordo di aver avuto questa conversazione con te.», disse senza neanche sollevare gli occhi da quello che stava facendo.
John sorrise. «Oh no, infatti. Io parlavo con te, tu eri chiuso nel tuo Palazzo Mentale per un caso, quindi ne ho approfittato e te ne ho parlato, non mi hai risposto e, beh, chi tace acconsente.»
Finalmente Sherlock lo degnò di un'occhiata.
«Ecco, vedi cosa intendevo quando parlavo di una stabilità nel ruolo della coppia? In questo momento se io e te avessimo un ruolo fisso potrei minacciarti di non farti vedere più il mio fondoschiena per settimane dopo una cosa simile, peccato che tu potresti minacciarmi nella stessa maniera ed è una cosa che non riuscirei a sopportare.» concluse dando un'occhiata maliziosa al sedere di John.
L'altro sorrise scuotendo la testa, sinceramente divertito.
 «Che esperimento fai ora?» chiese avvicinandosi più del necessario per guardare nel microscopio. Sherlock tossicchiò e scostò la sedia, alzandosi in piedi, improvvisamente troppo agitato. Spostò l'apparecchio, allontanandolo un po' troppo di fretta, e tirò su col naso. «Niente che t'interessi... Credo.»
John lo guardò e rimase sinceramente sorpreso dal rigonfiamento nei pantaloni dell’altro che già poteva notare. Si avvicinò e mise le braccia ai lati del tavolo, ingabbiandoci dentro Sherlock che lo guardava pieno di aspettativa.
Il caro vecchio blogger gli andò a mordere e leccare la parte sotto l'orecchio che -ormai sapeva- mandava il caro consulente fuori di testa, mentre iniziava a sbottonargli pian piano la camicia. La poggiò poi su una sedia (non fosse mai che si sgualcisse) e iniziò a scendere lentamente con piccoli baci lungo il collo, fermandosi sulla clavicola mentre sentiva le mani di Sherlock afferrarlo per le spalle per reggersi meglio in piedi.
«Che ne dici se...?»
Lo voce di John fu interrotta dal cellulare di Sherlock. Dalla suoneria capì che si trattava di Greg.
«John, mi passeresti il telefono?» chiese il consulente a mezza voce.
«Dove si trova?»
«Nella tasca posteriore dei miei jeans.»
John sorrise.
«Certo.»
«J-John! Ho detto nella tasca dei jeans, non nelle mutande!»
«Ops. Ecco perché non lo trovavo.» fece sardonico e infine gli passò il telefono al quale -stranamente- Sherlock parve rispondere di malavoglia.
«Che c'è?!»
John fece qualche passo indietro e fissò Sherlock che si era fatto un attimo serio per poi tornare a dargli un’occhiata e rifarsi subito agitato e voglioso di chiudere quella conversazione il più presto possibile.
A John venne un'idea.
Tornò ad appropriarsi della clavicola del suo compagno lasciandoci piccoli baci delicati. Sherlock probabilmente era troppo occupato al telefono per collegare subito, ma quando John passò a succhiargli il capezzolo quasi non si soffocò con la propria saliva; coprì l'apparecchio con una mano e fissò John, sconvolto. «Sei impazzito?!»
L'altro si limitò a sorridere, continuando a baciarlo e succhiarlo.
Parola sua, non si sarebbe fatto distrarre. Alzò lo sguardo verso il soffitto e tornò a parlare con Lestrade del caso. Sembrava qualcosa di davvero interessante ma il suo orecchio colse un rumore più stimolante, ovvero quello della zip dei suoi pantaloni che si abbassava. Tornò a guardare verso il basso e vide John inginocchiato davanti a lui, la faccia rivolta verso l'alto e un sorriso da santarellino, mentre si leccava le labbra.
«Lestrade, ti richiamo io. No, non ho tempo ora, ciao.»
Abbandonò il telefono sul tavolo e lo guardò sornione.
«Questa me la pagherai, John Watson.»
«Oh, non vedo l'ora.»
 
 
                                                                                                          *         *         *
 
 
Mycroft se ne stava seduto al Diogenes Club aspettando un ospite, mentre leggeva diversi quotidiani di diverse località.
Non sapeva bene nemmeno lui di cosa avrebbero potuto parlare ma si sentiva come in dovere di fare qualcosa. Quando l'ospite arrivò, venne annunciato direttamente da Anthea che non staccava gli occhi dal telefono per mezzo secondo, troppo impegnata a scambiarsi messaggi con chissà chi.
«Buongiorno.», sorrise educatamente Mycroft. «Si accomodi pure!»
Intanto andò a sedersi alla propria scrivania, versandosi un goccio di Brandy.
«Posso offrirle da bere?» propose sollevando la bottiglia trasparente e indicando poi altre bevande, tra cui anche una bottiglia d’acqua.
«No, la ringrazio. Piuttosto vorrei sapere chi è lei e come mai mi trovo qui.»
Il maggiore degli Holmes si voltò. «Credo lei abbia sentito parlare di mio fratello: Sherlock Holmes.»
Non ricevette risposta.
«Volevo solo farle sapere che mi spiace e che in un certo senso la colpa è stata mia se le cose tra lei e John non sono finite come avrebbe voluto.»
Mary si stava guardando intorno, perlustrando ogni centimetro di quel posto, ora non più troppo sicura di voler sapere perché si trovasse lì. Qualsiasi cosa avesse ancora a che fare con John e il suo compagno le dava un certo fastidio. Lo aveva sentito un paio di volte –sempre per messaggio-, in cui le chiedeva di vedere Michael ogni tanto. Era ovvio che non fosse ancora riuscita a dimenticare totalmente un uomo del genere.
«Vede, io tengo a mio fratello e –nel bene o nel male- anche il dottor Watson ha iniziato a starmi in un certo modo simpatico. Ha questa attrattiva che, pur non essendo molto intelligente, riesce a farsi ben volere.»
Mycroft guardò la donna che lo fissava in tralice.
«Beh, questo lei lo sa.» Sorrise per dissimulare la tensione.
«Senta, signor Holmes…»
«Mycroft.»
«Senta… Mycroft, sono stata portata qui con la forza e ora mi parla di cose che non voglio stare a sentire. Devo andare a prendere Michael a scuola e a preparare il pranzo per poi tornare al lavoro, potrebbe dirmi che cosa vuole e perché adesso?»
Mycroft appoggiò i gomiti al tavolo, unendo le punte delle dita e appoggiandoci sopra il mento; Sherlock aveva pur preso da qualcuno.
«Le vorrei fare una specie di offerta: se le dovesse servire qualcosa –qualsiasi tipo di cosa-, non esiti a chiedere e provvederò personalmente a fare in modo che le arrivi.» Lo disse con tutta la tranquillità del mondo, guardandola negli occhi.
«Non credo lei abbia qualcosa da offrirmi. Qualcosa che mi possa interessare, intendo. »
Il maggiore degli Holmes si ritrovò a sollevare un sopracciglio; c’erano poche cose a cui lui non poteva provvedere, talmente poche che si contavano sulla punta delle dita.
«Ne è totalmente sicura?»
Mary rimase un attimo a fissarlo, cercando di capire se quell’uomo fosse serio o meno.
Accavallò le gambe poggiandoci sopra le mani incrociate.
«Sa, Mycroft, io ho un figlio di nome Michael di quasi dieci anni…» sorrise melliflua in sua direzione.
Mycroft pensò che era ovvio che lo sapesse e non capì subito il punto della questione.
Lo avrebbe capito molto presto.
 
 
 
FINE.
 
 
Note: Okay, e anche l’ultimo capitolo è stato postato *si asciuga il sudore dalla fronte*. Devo ammettere che, averla finita, mi ha fatto intristire abbastanza; e dire che sono solo poche pagine. o__ò
Comunque, tutta l’idea di questa fic è venuta fuori da una notte insonne, dove mi sono immaginata la scena di un John piangente (primo capitolo), la litigata sulle scale e la parte della chiacchierata sul letto. Tutto il resto? E’ venuto fuori scrivendo, non ne avevo idea sinceramente quando mi sono imbarcata a scriverla. D: Spero solo sia venuta bene lo stesso, dal canto mio mi sento abbastanza felice (l’ultimo capitolo lo trovo molto ripetitivo ma ormai ho messo l’anima in pace con me stessa).
Per un’info personale (di cui dubito vi importi qualcosa ma lo dico lo stesso) volevo far dire a Myc (amico mio ormai) alla fine quando parlava con Mary  ‘’Dopo tutto questo tempo ha finalmente imparato ad amare’’ (ovviamente riferita a Sherlock)… colta la citazione? No?.... *tossisce* lo dice Mrs. Brick ne ‘’La Bella e la Bestia’’ e, non so perché, ho collegato Mrs. Brick a Myc (credo sia per la prima puntata della seconda stagione dove Mycroft versa il the… credo che la battuta ce la ricordiamo tutte), fortunatamente ho lasciato perdere, non solo perché troppo OOC (l’ho messo negli avvertimenti ma meglio non strafare) ma perché… No, basta, solo perché troppo OOC. Bene, dopo essermi pure ridicolizzata per questo ringrazio infinitamente chi ha commentato, chi ha messo la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate (un grazie enorme a tutte). Vorrei dirvi ‘’alla prossima’’ ma vediamo se riuscirò a pensare a qualcos’altro da scrivere. XD
Queste note sono troppo lunghe mannaggia…
   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: PapySanzo89