Attenzione: non che la mia
abilità nella scrittura sia
tale da sconvolgere nessuno (né tantomeno esplicito) ma mi
sento in obbligo di
avvertirvi che in questo capitolo troverete violenza (molta violenza,
sebbene
come al solito di bassa lega) e un tentativo di stupro. Detto questo,
buona
lettura!
21. SEPHIROTH
Mi stringeva così forte che
le dita quasi mi penetrarono nelle carni. Mi costrinse a rientrare in
casa
torcendomi un braccio dietro la schiena nel processo, poi mi spinse
contro mio
padre. Non ebbi nemmeno il tempo di riacquistare l’equilibrio
che mi colpì in
faccia col dorso della mano, così forte che mi
buttò per terra. In qualche modo
riuscii a mettere le mani in avanti per attutire la caduta. Mi
fischiavano le
orecchie. Tossii e sputai a terra un po’ di sangue. Com’è possibile che stia
davvero succedendo? mi domandai mentre
vagliavo velocemente con la lingua l’interno della bocca
cercando l’origine di
quel sangue e finendo per individuare un molare che traballava.
- Merce avariata, come avevo
detto – mio padre mi diede un altro calcio mentre cercavo di
tirarmi in piedi.
Un secondo dopo era accovacciato accanto a me, mi prese rudemente il
mento tra
indice e pollice per costringermi a guardarlo in faccia. –
Dove credevi di
andare, eh?
- Vaffanculo – soffiai tra i
denti e ricevetti un altro schiaffo. Niente sangue questa volta ma
certo avrei
avuto presto un occhio nero. Approfittai di quel momento in cui
sembrava aver
abbassato la guardia: con un unico, rapido colpo di reni, come mi aveva
insegnato Safer, fui in piedi ed ecco che di nuovo scattavo verso la
porta
della cucina, dal momento che quella da cui ero entrata era ancora
occupata da
Daisuke. Scivolai oltre mio padre agilmente ma di nuovo fui buttata per
terra,
questa volta dal mio “promesso sposo”.
- Bastardo – urlai calciando
e cercando di morderlo – Mollami, stronzo. Tanto non ti
sposerò mai! Mai! Hai
capito? Scordatelo!
Un altro calcio. Questa
volta nello stomaco. Questa volta non da parte di mio padre.
- Credi di avere una qualche
scelta? – disse il ragazzo. La sua voce era piatta, un
po’ stridula.
Fastidiosa. Non mi fece alzare di nuovo in piedi.
- Siete già sposati
– si
curò di spiegare mio padre. – Nessuno aveva
intenzione di sprecare tempo o
denaro dietro a questa cerimonia. I documenti sono già stati
firmati.
Mi prese per un braccio, mi
trascinò di forza fino al bagno e mi ci gettò
dentro.
- Preparala – disse con tono
freddo e con quella si chiuse la porta alle spalle. Dopo un attimo
sentii il
rumore della chiave che veniva girata nella toppa. Ero chiusa dentro.
Mi voltai. Seduta su uno
sgabello c’era mia madre.
- Mamma – esclamai,
correndole incontro, accucciandomi accanto a lei. – Mamma!
Aiutami! Mamma!
Aiutami a scappare! Ti prego – le mie mani si aggrapparono
disperate alla sua
gonna. – Non puoi lasciargli fare questo. Aiutami!
Non rispose. Mia madre non
emise nemmeno un sospiro. Tra le mie suppliche, che si erano
rapidamente
trasformati in singhiozzi, le mie preghiere, mentre tornavo a sentirmi
una
bambina, mentre chiedevo aiuto alla mia mamma, cominciò a
muoversi. Si spostò
alle mie spalle e cominciò a pettinarmi i capelli. La spinsi
via con una
gomitata e balzai lontano da lei.
Questa donna. Questa donna
che mi aveva dato al mondo.
- Mamma – dissi per
l’ultima
volta, le guance bagnate dalle lacrime, - aiutami.
Lei girò la testa, evitando
il mio sguardo. – Mi dispiace – disse.
Mi sentii male. Fu come
ricevere un nuovo pugno nello stomaco. Volevo vomitare. Mia madre mi
abbandonava al mio destino. Ma in
realtà
è semplice, vero?
Risi. Una risata amara,
quasi ultraterrena, mi nacque nel petto. Non era un suono umano, se
fossi stata
più padrona di me stessa forse me ne sarei spaventata.
- “Bisogna rispettare le
tradizioni” – dissi. Un’eco di una
discussione che avevamo avuto tanto, tanto
tempo prima. Così tanto tempo prima che sembrava appartenere
a un’altra vita.
Ma dopotutto cosa era cambiato? Niente.
La donna fece un passo in
avanti cercando di finire di acconciarmi i capelli. Le diedi un altro
spintone
che la fece quasi cadere per terra. – Non ci pensare nemmeno.
Non pensare mai
più niente che abbia a che fare con me. –
ringhiai. Una rabbia folle mi
annebbiava lo sguardo. – Vorrei dirti di dimenticare di avere
una figlia, ma
sarebbe inutile. È evidente che è una cosa che
hai dimenticato molto tempo fa.
Mi frugai nelle tasche e
tirai fuori la materia Cura. La tenni stretta in pugno mentre si
illuminava.
Curai il molare che traballava rendendolo di nuovo stabile nella mia
bocca.
Rimarginai un taglio che mi si era aperto sopra lo zigomo destro,
rendendomi
conto solo in quel momento che sanguinava, e la rimisi in tasca. Avrei
voluto
poter continuare, ma la mia energia non permetteva tanto. Almeno
l’occhio
avrebbe evitato di diventare troppo gonfio, adesso.
Quella donna mi guardava con
la bocca spalancata, non so se sapesse o meno cosa avessi appena fatto
ma non
mi interessava. Per me era morta. Mi tolsi i vestiti e mi infilai in un
paio di
pantaloni bianchi di lino e una camicia simile, ma solo
perché ormai i miei
vestiti cadevano a pezzi.
Mi mossi verso la porta e
calai forte il pugno per tre volte.
- Fammi uscire. Non abbiamo
più niente da spartire qui dentro.
Dopo un attimo la porta si
aprì e mi trovai faccia a faccia con mio padre. Cercai di
tirargli un pugno sul
naso. Safer non mi aveva addestrata nel combattimento corpo a corpo ma
mi aveva
spiegato che un colpo ben assestato poteva stordire una persona
abbastanza a
lungo da permettermi di scappare.
In effetti gli ruppi il
naso, ma non ottenni il risultato sperato.
Con una mano si tenne il naso
sanguinante, con l’altra mi colpì. Poi mi
colpì ancora e il dente che avevo
appena rinsaldato mi schizzo fuori dalla bocca.
- Non – un pugno –
osare –
un altro pugno, caddi per terra – mai più
– un calcio nello stomaco – cercare –
un altro calcio – di colpirmi.
Mi inarcai presa dai conati
e vomitai sangue.
Safer pensai. Le lacrime che tornavano a
offuscarmi la
vista. Come ti sbagliavi. Non sono
capace. Non sarò mai capace. Sono solo una ragazzina. Cosa
posso fare contro
queste persone? scoppiai a piangere. Vorrei
che tu fossi qui.
Mi scappò un gemito quando
sentii un dolore improvviso e inaspettato al cuoio capelluto. Mio padre
mi
aveva afferrata per i capelli e ora mi stava trascinando verso la
stanza
matrimoniale.
Sapevo cosa stava per
succedere. Non volevo pensarci.
Sono solo
una ragazzina.
Mi buttò dentro come prima
mi aveva buttata nel bagno e come prima chiuse a chiave la porta dietro
di sé.
- Se provi solo ad
avvicinarti ti uccido – gli dissi ma ottenni in cambio solo
una risata amara.
- Credi davvero di poter
fare qualcosa? – mi domandò mentre si abbassava
lentamente i pantaloni fino a
sfilarli, senza distogliere lo sguardo. Si lanciò in avanti
e mi afferrò per un
braccio dove già spiccavano lividi i segni delle dita di
Daisuke e di mio
padre. – Se nemmeno io ho potuto fare niente per impedirlo.
Cercai di scalciare ma fu
inutile, ottenni solo un altro pugno in faccia. Mi afferrò
per il collo per
tenermi fredda, stringendomi più del necessario, fino quasi
a strozzarmi. Le
mie mani, che fino a quel momento avevano cercato di colpirlo, corsero
al collo
cercando inutilmente di allentare la pressione. Mi sovrastava.
- Ti prego – rantolai
–
lasciami.
- Oh, lo vedrai papà
– fece
il ragazzo. Non mi aveva sentito. Sembrava a malapena consapevole della
mia presenza
mentre parlava da solo. – Se non sono in grado di scoparmi
una ragazza. Lo
vedrai.
Non potevo muovermi. Non
potevo urlare. Potevo solo piangere lacrime silenziose mentre lo
fissavo. Lo
fissavo mentre con la mano libera si liberava degli ultimi indumenti.
Lo
fissavo mentre si prendeva in mano il pene molle e cominciava a muovere
freneticamente la mano su e giù cercando di provocare una
risposta di qualche
tipo attraverso la frizione. Cosa che palesemente non stava funzionando.
Con un grugnito cambiò
leggermente
posizione, senza smettere di muovere quella mano.
- Dannazione –
esclamò. Mi
guardò con uno sguardo carico d’odio. Mi tolse la
mano dal collo e mi afferrò i
capelli tirandomi brutalmente in avanti, verso di sé. Ebbi a
malapena il tempo
di riprendere fiato prima di capire cosa stava cercando di fare. Feci
appena in
tempo a serrare la bocca quando mi urtò con il prepuzio. Scordatelo, pezzo di merda. Vallo a ficcare in gola
al tuo fidanzato,
pensai. Avrei voluto urlarlo ma non avevo ancora abbastanza fiato.
Prima mi prese a schiaffi,
poi mi diede un pugno nello stomaco così forte che rischiai
di vomitare.
Spalancai la bocca in cerca di aria e approfittò di quel
momento per ficcarmi
il pene in bocca. Glielo morsi. Non abbastanza forte da staccarglielo,
purtroppo.
- Puttana – urlò
e riprese a
malmenarmi. A quel punto mi pulsava la testa. Sanguinavo dal naso e
dalla bocca
e non ci vedevo più da un occhio. Sentivo la coscienza che
lentamente
cominciava ad abbandonarmi. Scossi la testa, cercando di ritrovare un
po’ di
lucidità ma ottenni solo di essere investita da una nuova
ondata di nausea.
Questa volta mi afferrò i
polsi tenendoli fermi sul pavimento giusto sopra la mia testa,
usò le ginocchia
per costringermi a restare per terra mentre con la mano libera
continuava a
masturbarsi febbrilmente. Per quanto facesse il suo membro non sembrava
voler
reagire e restava molle e flaccido nella sua mano. – Fanculo
– ringhiò
affondandomi con rabbia un ginocchio nel fianco. –
E’ tutta colpa tua, puttana!
Io ormai non avevo più la
forza di fare niente. Fino a un momento prima avevo urlato e gridato.
Ormai
piangevo sull’orlo dell’incoscienza, sapevo che
stava continuando a picchiarmi
ma non riuscivo più nemmeno a sentire dolore. Con un ultimo
colpo mi mandò a
sbattere contro un muro e mi lasciò lì,
sanguinante.
Cercai di muovermi. Quello
era il momento giusto per scappare, con il ragazzo distratto forse
avrei avuto
qualche possibilità, ma non riuscivo a muovere nemmeno un
dito. Tutti i miei
sforzi erano concentrati nel semplice atto di continuare a respirare e
di
rimanere cosciente.
Potevo vedere il ragazzo
muoversi agitato avanti e indietro per la stanza. Il ragazzo. Non
ricordo
nemmeno il suo nome. In realtà non sono sicura di averlo mai
saputo. A volte mi
sento il colpa per questo. Poche volte. Penso solo che avrei almeno
dovuto
sapere il suo nome. Dopotutto non era nemmeno colpa sua. Come per me,
nemmeno
lui aveva avuto una scelta di sorta: l’unica differenza
è che la sua
alternativa non era stata bella come la mia. O forse non
c’era proprio stata.
Sentii battere dall’altra
parte della porta. Concentrandomi riuscii a sentire la voce di Seimei
che
urlava, quella di mio padre che rispondeva. Andarono avanti per un
po’ poi il
rumore di uno schiaffo. Altre urla, altri colpi. Nostro padre stava
picchiando
Seimei. Stava picchiando a morte il mio fratellino e l’unica
cosa che potevo
fare era giacere immobile contro un muro. Piangendo. Dopotutto non era
cambiato
niente. Ero ancora inerme come l’ultima volta che mi avevano
picchiata.
Se non fosse stato che in
quel momento il ragazzo era tornato a concentrare la sua attenzione su
di me mi
sarei accorta dell’irreale silenzio che era calato dal
momento che più nessun
rumore proveniva dall’altra parte della porta.
- Dov’è lei?
– sentii poi. E
riconobbi la voce imperiosa.
Un attimo dopo la porta
venne buttata giù e Safer entrò nella stanza.
Avrei voluto chiamarlo, baciarlo,
abbracciarlo ma riuscii a malapena a gemere nella sua direzione.
Voltò la testa
verso di me e mi guardò. Vidi le fiamme
dell’inferno attraverso i suoi occhi.
All’improvviso i suoi
lineamenti cambiarono, divennero duri, gli occhi ardevano di una rabbia
indescrivibile che li facevano brillare come fiamme verdi, non erano
mai stati
più simili di così agli occhi di un serpente.
- E tu chi cazzo saresti? –
disse il ragazzo alzandosi in piedi belligerante.
Safer voltò la testa verso
di lui e sfoderò la spada con un movimento così
repentino che non riuscii a
vederlo e il ragazzo cadde a terra morto, infilzato dalla Masamune.
Senza dire una parola tornò
a guardare verso di me. I lineamenti ancora deformati dalla rabbia ma
più umani
come mi vide. Mi si accucciò accanto, per un secondo il suo
viso mostrò solo
dolore, la rabbia cancellata dai suoi occhi.
- Cosa ti hanno fatto? –
gemette accarezzandomi delicatamente i capelli. Per un attimo
cercò di studiare
come fare a sollevarmi senza farmi ancora del male. – Adesso
ci sono io qui con
te, non avere più paura. - Fu in quel momento che mio padre
decide di irrompere
nella stanza, furente, stringendo in mano un bastone di legno.
- Si può sapere chi cazzo
è
lei? – non credo avesse ancora visto il corpo senza vita del
ragazzo. Guardò
Safer e me e ci sputò addosso. – Ma certo,
è tutto chiaro! Quindi sei davvero
una puttana! Tutto questo tempo nei boschi! Avrei dovuto sapere cosa
stavi
facendo! Non sei niente di meglio di una prostituta!
Mi accorsi del pericolo.
Perché solo io mi accorsi del pericolo? Perché
conoscevo Safer meglio di
chiunque altro? Non credo fosse questo, ma gli occhi di Safer
scintillarono di
una luce folle quando mio padre parlò.
Si alzò in piedi a una
velocità tale che non lo vidi muoversi, aveva una mano
stretta intorno al collo
di mio padre, tenendolo sollevato da terra. – Umani
– sibilò con una voce che
non aveva più niente di umano. – Inutili, stupide
creature. Come osate? – la
sua mano si strinse ancora finché non si sentii un suono
orribile, secco, il
rumore di un collo che si rompe. Scagliò il corpo senza vita
dell’uomo che era
stato mio padre contro la parete alle mie spalle, che crollò
sotto la sua
forza. Ormai più niente separava la stanza dal corridoio.
Safer fece un passo, come se
avesse tutto il tempo del mondo, e lasciò vagare lo sguardo
sulla mia famiglia.
Erano tutti lì, mancava solo Shin: Seimei sdraiato a terra
con la faccia
deformata dai lividi, i gemelli quasi pietrificati accanto a lui mentre
i loro
occhi non abbandonavano Safer neppure per un secondo, così
come si fissa un
animale feroce, poco più in là c’era
Daisuke e infine mia madre e Yo, che si
trovavano ancora vicino alla porta. Fu su di loro che si
fermò lo sguardo di
Safer, o meglio, su mia madre.
- La madre – disse in un
sibilo, con quella voce che non riuscivo a riconoscere. – Non
c’è nulla di più
abominevole di una madre che abbandona i propri figli.
Sollevò la spada davanti a
sé, puntandola verso mia madre. Yo fece coraggiosamente un
passo in avanti,
ponendosi fra la donna e la Masamune, ciò che ottenne
però fu una risata. Una
risata spaventosa, ancora di più perché per
l’attimo che durò deformò il viso
di Safer completamente, facendolo assomigliare un po’ di
più al viso di un
demone. – Fuori dai piedi – aggiunse gelido
– voglio guardarla bene, questa
madre – balzò in avanti e li infilzò.
Vidi, e sentii, la lama
attraversare le loro carni. Sollevò la spada e i due corpi,
che ora avevano
l’aspetto di due macabre marionette, con essa. Con un altro,
rapido movimento
lanciò i corpi a terra, privi di vita. Il sangue che
sgorgava dai i loro corpi
e che ormai imbrattava quasi tutto il pavimento. Io non vedevo
più il sangue
però, non sentivo risuonarmi nelle orecchie il gemito,
così simile a un
gorgoglio, che aveva emesso Yo quando la lama l’aveva
trafitto, non vedevo i
capelli rossi di mia madre sparsi intorno a lei come una corona
assorbire il rosso
scuro del sangue: vedevo solo l’uomo che amavo che sterminava
la mia famiglia.
Cercai di chiamarlo, ma
sembrava che la voce mi si fosse bloccata infondo alla gola, quasi come
fosse
stata imprigionata laggiù da un incantesimo. Non riuscivo
nemmeno a muovere un
muscolo. L’unica cosa che potevo fare era odiare ogni singola
lacrima che mi
bagnava il viso e odiare me stessa per non essere mai riuscita a essere
la
persona che avrei voluto.
In quel momento Ryo e Taka
ritrovarono la capacità di muoversi e cercarono di fuggire
attraverso la cucina
ma ancora prima che si rendessero conto di quello che stavano facendo,
Safer
aveva lanciato loro contro una palla di fuoco che li
investì. Furono avvolti
dalle fiamme, i loro capelli avvamparono, i loro vestiti bruciarono.
Furono
morti prima ancora di cadere a terra, o almeno è
ciò che sperai e pregai, ciò
che spero ancora adesso.
Daisuke era ancora lì, non
si era mosso di un passo, nonostante le fiamme avessero cominciato a
lambire le
travi di legno del pavimento e del soffitto. Fissava Safer con
un’espressione
vuota, aveva raccolto il bastone che aveva lasciato cadere mio padre e
lo
stringeva così forte che potevo vedergli sbiancarsi le
nocche. Come Safer
spostò l’attenzione su di lui, tentò di
attaccarlo, ma non riuscì mai a
raggiungerlo. Safer si limitò ad alzare una mano verso di
lui e a stringere il
pugno, come se cercasse di afferrare l’aria. Daisuke non fu
più in grado di
muoversi.
Safer lo fissava, la testa
leggermente piegata di lato: i suoi occhi erano freddi come lame di
ghiaccio ma
la sua espressione era indagatrice, come se lo stesse analizzando.
Un sorriso spaventoso gli
comparve sulle labbra. – Inginocchiati. - Abbassò
il pugno e Daisuke fece lo
stesso, non era più padrone del proprio corpo. –
Voglio sentirti supplicare per
la tua vita.
- Ti prego – gemette
Daisuke, piangendo. – Non uccidermi, ti prego.
- Non riesco a sentirti –
strinse il pugno così forte che sentii la pelle di guanto
stridere sotto quella
morsa. Daisuke si contorse in preda alle convulsioni prima di tornare
immobile
e cadere al suolo, morto. Potevo vedere la materia cerebrale uscirgli
dagli
occhi e dalle orecchie.
Seimei si lasciò sfuggire
un
singhiozzo, solo allora Safer spostò l’attenzione
su di lui.
- Stupidi umani – lo
schernì. – Creature senza uno scopo, senza
un’utilità, di cosa dovrei essere
triste? E tu, perché soffri? Non erano forse un morsa
velenosa che continuava a
uccidervi ogni giorno un po’ di più? –
usò la parte piatta della spada per
costringerlo a guardarlo negli occhi. Si fissarono per un lungo
istante, poi
Safer sospirò e gli diede le spalle per tornare da me.
- Sephiroth… -
gracchiò
Seimei, gli occhi spalancati dall’impossibilità di
quella realizzazione. –
Sephiroth – ripeté, come per convincere se stesso.
– No…com’è possibile?
Safer volse di nuovo lo
sguardo su di lui, poi guardò verso di me e ci fissammo.
Seppi all’istante che
Seimei aveva detto la verità. Quello era Sephiroth. Il mio
Safer era Sephiroth,
il demone albino. Il distruttore del pianeta. Il mio Safer era
considerato la
peggior calamità che avesse mai colpito questa terra.
La casa ormai era avvolta
dalle fiamme, il fumo ne aveva invaso ogni angolo e i miei polmoni,
già
compromessi dalle violenze subite, avevano cominciato a cedere.
Cominciai a
tossire e ad annaspare in cerca di aria. In qualche modo riuscii a
rovesciarmi
su un fianco mentre un nuovo attacco di tosse mi percuoteva con tanta
violenza
che ogni colpo di tosse assomigliava marchiar misi a fuoco nel petto.
In quel momento, solo in
quel momento, lo vidi tornare in sé. I suoi occhi tornarono
normali mentre la
follia lo abbandonava. La sua espressione era di nuovo quella
dell’uomo che
conoscevo. Mi raggiunse e mi prese in braccio, quasi urlai dal dolore
come mi
sollevò, ma non c’era tempo per essere delicati.
Strinsi le dita intorno al
suo braccio ma era così poca la forza che mi restava che non
sono sicura che le
sentì. – Seimei – sussurrai –
no…qui… - e ricominciai a tossire sangue.
Mi portò fuori dalla casa e
mi appoggiò a terra, sull’erba. Lo guardai correre
di nuovo dentro per uscirne
un secondo dopo con Seimei tra le braccia. Lo appoggiò
accanto a me: era
cosciente.
Mi guardò, ci guardammo.
Non
so cosa lesse nel mio sguardo, ma nel suo vidi paura e tradimento.
Sa… Lui, mi riprese tra le
braccia. Sentii un fruscio alle sue spalle, dolorosamente mi costrinsi
a girare
la testa e la viti: un’ala. Un’ala nera, lucida,
immensa. La sbatté una volta
con forza e ci sollevammo da terra. Volavamo. Ci allontanammo dalla
casa in
fiamme e da Seimei. Era come se anche la mia vita fosse stata bruciata
dalle
fiamme.
L’aria fresca e pulita mi
aveva pulito la gola e i polmoni, riuscivo di nuovo a respirare
naturalmente.
- Sephiroth… - riuscii a
dire con un singhiozzo prima di svenire.
Eccolo qua…chiedo venia per il ritardo
ma…è stato un parto. Un parto
che è finito con un cesareo o una cosa del genere. Ho
cominciato a scriverlo il
10 agosto. E nel mentre ho riscritto la seconda parte almeno tre volte.
E
ancora sarebbe da riscrivere secondo me, soprattutto
l’ultimissima parte (dopo
che Seph la porta via dalla casa) ma andava a finire che non pubblicavo
più.
E insomma…che ve ne pare? Un
po’…crudetto forse. Mi dispiace :) spero
che vi sia piaciuto e spero di essere riusciva a trasmettervi tutto
quello che
volevo trasmettervi.
Ora…per il prossimo capitolo non so
quanto ci vorrà. Sono piena di
esami fino a ottobre, poi il 10 parto e vado in Irlanda per tre
settimane…quindi
ve lo dico col cuore che, salvo qualche miracolo di qualche tipo,
sarà
improbabile vedere aggiornamenti fino a novembre!
Ah, una piccola nota: a qualcuno viene in mente un
termine migliore per
definire il rumore che fa la pelle? Dopo lunga riflessione ho messo
stridere ma
non mi convince molto… grazie <3 e ora un grande
bacione! Vado a dormire
(che in tre giorni avrò dormito sì e no 8 ore
– in totale).
Aya