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Autore: Lusio    05/09/2012    4 recensioni
A diciannove anni Quinn Lucy Fabray continuava a credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.
Noah Puckerman (ma preferiva essere chiamato Puck) voleva dare a sua figlia la vita migliore che potesse offrirle.
I Fabray volevano il loro posto nel mondo.
Gli Hummel-Hudson volevano scoprire il mondo.
Sue Sylvester voleva cambiare il mondo.
Dave Karofsky voleva una vita che fosse solo sua.
Rachel, Mercedes e Sugar avevano i loro sogni e le loro aspirazioni.
Mike e Tina volevano sposarsi nella terra delle grandi opportunità.
Blaine voleva raggiungere suo fratello.
Beth voleva stare in braccio a mamma Shelby.
Vite diverse che si incontrano in un unico destino. Un passato che ritorna. Una splendida nave che solca l'oceano. Un enorme blocco di ghiaccio alla deriva. Una data fatale.
14 Aprile 1912
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quinn Fabray, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Verso una nuova vita

 

Quel mattino, quando del sole c’era solo una tenue e bianca luce e si poteva ancora scorgere in lontananza la velata immagine della luna, Dave si era alzato già senza più traccia di sonno, come era ormai sua abitudine; si alzò e si preparò velocemente e senza far rumore.

Fece per uscire subito dalla stanza ma non poté impedire ai suoi occhi di posarsi su suo padre ancora addormentato; erano anni che non aveva un’espressione serena mentre dormiva e anche questa era una delle tante cose che il ragazzo non riusciva a sopportare. Ma, almeno, appena varcata quella soglia avrebbe potuto lasciarsi tutto, anche quell’espressione alle spalle.

Questo non gli impedì di provare una dolorosa fitta allo stomaco quando distolse lo sguardo ed uscì; solo quando la porta era ormai chiusa si pentì di non avergli nemmeno sfiorato la mano come ultimo saluto. No, non doveva più essere il tempo dei rimpianti; non era più un bambino. Era un uomo.

Mentre scendeva dalle scale incrociò la vedova Bertha, che andava da suo padre ogni giorno, e la salutò con un breve cenno del capo. Si era ripromesso di non lasciarsi più andare ai sentimentalismi ma avvertì ugualmente il sollievo che gli sciolse quel nodo allo stomaco. Suo padre non sarebbe rimasto da solo. Con quella certezza e mille altre aspettative, Dave Karofsky si gettò nel mezzo della strada semideserta, arrivando di gran carriera al porto.

Nonostante la sua mole, non degnò di uno sguardo attento la nave, ma si concentrò solo sulla passerella che conduceva ad uno degli ingressi inferiori; lì c’era un ufficiale tutto impettito nella sua divisa nera con un registro in mano. Gli si avvicinò, raddrizzando la schiena e puntando il petto in fuori.

- Sono qui per il posto di marinaio – disse, mordendosi la lingua subito dopo, per aver lasciato trasparire il suo accento straniero.

- Il suo nome? – si informò l’ufficiale scorgendo il registro, inarcando un sopracciglio.

- Karofsky.

- Ah, sì – fece l’uomo con voce priva d’espressione – Polacco?

- Russo – replicò Dave con un moto d’orgoglio e guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’ufficiale.

- Bene, buono a sapersi – fece quest’ultimo dandogli un tesserino – Andate nella cabina contrassegnata da questo numero, troverete una divisa nell’armadietto, indossatela e presentatevi al ponte di comando. Lì vi diranno cosa fare.

Cercando di ignorare il tono fastidioso del suo superiore, visto che ormai lo era, prese il tesserino e, dandogli un’occhiata per memorizzarne il numero, trovò la cabina nella zona riservata ai membra dell’equipaggio; dentro vi erano già altri tre uomini con indosso delle divise da marinai nere bordate di bianco e con la sigla “White Satr Line” sul retro degli ampi colletti.

Qualcuno faceva roteare il berretto sulla punta dell’indice con fare annoiato; quello doveva essere l’unico inglese mentre gli altri due sembravano irlandesi.

Rispose ai loro saluti con un filo di voce, l’eterno timore di essere giudicato perché straniero nuovamente vivo. La risatina strozzata dell’inglese gli rimbombò crudelmente in testa facendolo sentire ancora più vulnerabile di quanto già non si sentisse mentre si cambiava davanti a loro. La divisa non era fatta su misura ma veniva fornita una taglia unica per tutti e quella gli stava stretta, mettendo maggiormente in risalto il suo fisico robusto ma scoprendogli le braccia; per fortuna, i pantaloni erano della misura giusta.

Aveva appena finito di sistemarsi che qualcuno diede due colpi secchi alla porta ed una voce ordinava in modo monocorde: “Tutti sul ponte di comando”.

I tre marinai saltarono giù dalle loro cuccette ed uscirono fuori dalla cabina infilandosi i berretti; Dave li seguì  e raggiunsero il ponte, dove si stavano radunando altri membri dell’equipaggio. Da quanto vide il ragazzo, non era l’unico a trovarsi in difficoltà: c’era un buon gruppo di stranieri a giudicare dalla fisionomia e l’occhio gli cadde anche su un ragazzetto biondo che aveva il problema inverso al suo riguardo la divisa visto che portava le maniche e gli orli dei calzoni rivoltati più e più volte affinché gli lasciassero scoperti le mani e i piedi. Non doveva avere più di quattordici anni.

C’era chi se la passava peggio di lui.

Dovette rimandare la sua “ispezione” per ascoltare gli ordini e le direttive di un altro ufficiale, sicuramente di grado superiore a quell’altro. Si impresse nella mente ogni cosa, sperando di ricordarseli tutti e sperando solo che quella nave partisse subito. Iniziava già a sentire la testa che gli girava.

Cosa aveva detto? Ah, sì. Dovevano occuparsi dei passeggeri all’imbarco.

Dave venne assegnato all’ingresso di terza classe assieme agli altri marinai “non inglesi”.

“Ma guarda un po’” pensò sarcasticamente.

 

* * *

 

L’aria che si respirava nel porto poteva dare fastidio a chi non era abituato ma i più esposti, ovvero quelli che dovevano imbarcarsi in terza classe erano quelli che meno ne risentivano, salvo alcune eccezioni. Almeno i passeggeri di prima e seconda classe potevano salire tranquillamente sulla nave, mentre quelli di terza dovevano prima essere “esaminati” da medici e marinai per evitare che sul transatlantico si imbarcassero persone che avrebbero potuto diffondere malattie e pidocchi. Più che fastidioso, quel passaggio era umiliante per chi sbirciava un po’ più in alto a vedere i “privilegiati” che non abbassavano nemmeno lo sguardo per ricambiare il gesto. Quelli che notavano questa disparità erano per la maggior parte socialisti e simpatizzanti che viaggiavano con volantini e opuscoli che li avrebbero sicuramente condannati a mesi di carcere per possesso di materiale dissidente e per tentato disordine; per paura che rovistassero nelle valige, li portavano legati al petto con lo spago.

Ma la maggior parte di loro erano semplicemente famiglie umili, non per forza poveri, ma bloccati in una situazione economica o famigliare che li spingeva a fuggire dal loro paese d’origine per trovare un completo benessere. Erano operai, disoccupati, stranieri, anche qualche fuorilegge e qualche ladro o imbroglione. Gomito contro gomito, schiena contro petto, tutti accomunati da un solo biglietto per uno dei transatlantici più grandi e più lussuosi del mondo.

- Spero che le cabine di terza classe siano belle come quelle di prima – disse Tina mentre camminavano su una delle passerelle di terza, aggrappata al braccio di Mike, emozionata sia al pensiero di mettere piede sul Titanic sia per il fatto di star camminando ad una bella altezza sul mare.

- Di certo avranno più topi – rispose Puck, tenendo a bada Beth per evitare che si sporgesse.

- Ho sentito dire che, in confronto alle cabine di terza classe di altre navi, queste del Titanic sono molto più pulite e ben attrezzate – disse Blaine per placare i lamenti delle donne, sconvolte dalla parola “topi”.

Appoggiare il piede sulla nave fu una sensazione strana; pensavano che un solo, singolo passo avrebbe smosso l’imbarcazione facendola ondeggiare come un amo da pesca, invece era tutto troppo statico ed immobile come se non avessero nemmeno lasciato la terra ferma. Quella sensazione di vuoto che avvertirono poteva forse annunciare un futuro mal di mare? Chi lo sa.

I passeggeri di prima classe lo notarono un po’ di meno visto che ad attirare la loro attenzione erano gli interni sofisticati con mobili che andavano da uno stile più sorpassato a quello più moderno, sui quali passavano le mani coperte di guanti con l’aria di voler cercare uno strato di polvere inesistente, desiderosi invece di saggiare la qualità di quegli arredi nuovi di zecca e mai toccati da nessuno, esclusi operai e marinai ovviamente.

Si può dire che il Titanic fosse come un Grand Hotel posto sopra un hotel a quattro stelle, a sua volta posto su un albergo di provincia. Per i passeggeri, anche i più esigenti, non poteva esserci di meglio; forse solo ritrovarsi subito in America, magari con qualche giornalista pronto ad intervistarli per conoscere nei dettagli le sensazioni provate nell’aver partecipato al viaggio inaugurale del transatlantico più bello del mondo.

Tralasciando quei pensieri, i passeggeri delle varie classi, alcuni portandosi dietro i bagagli che non avevano avuto il tempo di posare nelle loro cabine, si affacciarono ai ponti delle loro classi per salutare quella terra del Vecchio Continente e i suoi abitanti che, a loro volta, li salutavano dal porto.

Era mezzogiorno in punto quando la nave si staccò dal porto, riempiendo l’aria col fumo di tre dei quattro fumaioli e col potente suono della sirena. Le urla di entusiasmo dei protagonisti di quell’evento storico per la nautica non riuscirono a superare quel fracasso, unito all’enorme massa di ferro che smuoveva l’acqua. Ma si poteva ugualmente vedere l’entusiasmo sui loro visi, più composto e formale in una buona parti di quelli di prima classe e in una piccola porzione di quelli di seconda, e più acceso e infuocato nella gioventù di tutti gli strati sociali e della terza classe al completo.

Rimasero a godersi quella lieve anticipazione di brezza marina fino a quando il porto e chi vi era rimasto non si ridusse ad un’immagine che fluì verso la sinistra dello sguardo dei passeggeri lasciando sempre più spazio all’impressionante scenario del mare aperto; e avrebbero raggiunto l’oceano solo l’indomani. Gli spiriti più liberi e sognatori avrebbero preferito rimanere sul ponte a godersi quello scenario così nuovo e affascinante ma la sistemazione dei loro effetti personali in cabina richiedeva la loro attenzione e questo a molti non dispiaceva, come al signor Fabray e consorte.

- Santo Dio! Che rumore fastidioso fanno quegli stupidi… cosi – borbottò riferendosi ai fumaioli, trascinandosi dietro la moglie e la figlia mentre un facchino li seguiva con i bagagli – Sei riuscita a notare qualcuno di importante? – domandò alla moglie.

- Credo di aver intravisto la contessa di Rothes ma non ne sono sicura. Ah! E sono sicura di aver visto i coniugi Straus che entravano nel salone; credo che la signora Straus abbia avuto un mancamento per la folla…    

- Lasciamo perdere quei due vecchi montoni. Sono ebrei; meglio non farsi vedere con loro – replicò il signor Fabray – Hai visto qualcun altro?

- Non so; c’è troppa gente. Però sono riuscita a procurarmi una lista dei passeggeri – rispose sua moglie tirando fuori dalla borsa un volantino della White Star Line ed esaminando i nomi che vi erano riportati – Sembra che sia salito a bordo anche il tenente Archibald Butt, il braccio destro del presidente Roosevelt! – esclamò emozionata.

- Che sicuramente si sarà portato dietro quell’invertito del suo amico pittore – Fabray smorzò sul nascere l’entusiasmo della moglie – C’è qualcun altro?

- Sembra che altri saliranno durante lo scalo a Cherbourg. J.J. Astor  con sua moglie, i Widener.

- Ecco! Dobbiamo cercare di intrattenerci con loro, specialmente con Astor. Sarà di sicuro l’uomo più ricco presente su questa nave.

- Ci sarà, poi, anche Benjamin Guggenheim ma sarà meglio evitarlo; viaggia con la sua nuova amante e non credo sia il caso che…

- Che assurdità! Non lo eviteremo per questa stupidaggine.

- Papà, lo sai che anche lui è ebreo? – si intromise Quinn con una punta di malignità.

- Sì, ma lui è “uno che conta” – le rispose tranquillamente il padre – Impara, figliola.

Erano intanto arrivati alla loro cabina, dove il facchino posò i loro bagagli; era una doppia con un letto matrimoniale in una stanza e un letto singolo in un’altra, una toilette completa di ogni confort ed un salottino di ricevimento.

- Quindi, piuttosto che socializzare con una rispettabile coppia di coniugi ebrei, dovremmo sederci allo stesso tavolo con un ricco fedifrago con la sua puttana?

- Modera il linguaggio! – saltò su Fabray, liquidando il facchino con una misera mancia – Cerca di non mostrare agli altri quali sono state le tue ultime “amicizie”.

A quelle parole, Quinn lanciò uno sguardo di pura rabbia e frustrazione in direzione del padre e lanciò il suo cappellino su un divano lì vicino. Sapevano benissimo in quali punti ferirla, ma avrebbe preferito mille volte morire piuttosto che mostrare al padre le sue lacrime.

- Stai tranquillo, non mostrerò proprio niente – disse, alzando il tono di voce – Non ho intenzione di prestarmi a questi tuoi patetici giochetti da arrivista, quindi non contare su di me.

- Non azzardarti a parlarmi in questo modo! – replicò il padre, avanzando contro la ragazza con aria minacciosa – Tu farai quello che voglio io, è chiaro? Finché vivrai sotto il mio stesso tetto mi obbedirai senza fare storie. Quindi levati quell’aria ribelle dalla faccia e cerca almeno di sembrare una ragazza perbene.

- Sono stufa! Stufa di sentirmi dire cosa devo fare! – si lasciò andare Quinn, mentre una lacrima fuggiasca le scivolò, suo malgrado, lungo il naso per perdersi poi tra le sue labbra semiaperte – Voglio essere lasciata in pace, per una volta!

Sentendo che altre lacrime stavano facendo forza per uscire, la ragazza si voltò ed uscì a passo veloce dalla cabina; lì fuori si ritrovò a scansare le molte persone, passeggeri ed inservienti, che camminavano per il corridoio, premendo l’indice e il pollice sulle palpebre per frenare il pianto. Non sentì, dietro sé, la voce imperiosa del padre che la richiamava né si sarebbe aspettata di sentirla; suo padre non era tipo da dare spettacolo in pubblico. Tanto meglio per lei! Sentiva il bisogno di uscire, di prendere aria; il pensiero di essere su una nave in mezzo al mare la faceva sentire ancora più prigioniera di quanto non si fosse mai sentita a casa sua, senza una via d’uscita.

Fu proprio all’uscita su uno dei ponti, non avrebbe saputo dire quale, che si scontrò inevitabilmente con una persona che invece stava rientrando; fu uno scontro abbastanza violento da spezzarle il fiato in gola e farla arretrare di qualche passo, era certa di cadere e, in quel momento, la vergogna di ritrovarsi sul pavimento sotto gli occhi di tutti avrebbe voluto evitarla ma, subito, due mani decise la afferrarono per le spalle salvandola.

- Scusatemi, signorina – disse la persona; dal tono di voce, in un primo momento, Quinn pensò di essersi scontrata con una sua coetanea ma le mani, il gilet a fiori rossi arabescati, sebbene vistoso, erano senza dubbio maschili. Alzando gli occhi non più appannati dalle lacrime e dalla pressione delle dita, vide un ragazzo dall’aria sofisticata priva però di quella freddezza che le si accompagnava nei giovani dell’alta società; quel piccolo dettaglio le avrebbe fatto credere che lui appartenesse alla schiera dei “nuovi ricchi” eppure il portamento sembrava dire il contrario.

- No, scusatemi voi, non dovevo correre così – rispose lei, risistemandosi compostamente.

- State male? Avete bisogno d’aiuto? – si informò il ragazzo.

- No, vi ringrazio; ho solo bisogno di un po’ d’aria. Con permesso – e così dicendo superò il ragazzo, che la tenne d’occhio per scrupolo fino a quando non la perse di vista, ed uscì finalmente sul ponte.

Avrebbe tanto voluto vederlo libero ma ad occuparlo c’erano molti passeggeri, desiderosi di godersi quella fresca brezza marittima, che si erano impossessati di sedie a sdraio e di spazi sulla ringhiera; c’era aria anche per lei ma quel muro di spalle e cappelli lungo la balaustra non le permetteva un’ampia vista sul mare. A quanto sembrava, anche fuori dalla cabina, lontana da suo padre non c’era modo di ritagliarsi uno spazio aperto.

“Meglio di niente” pensò, rassegnata, incamminandosi lungo il ponte.

 

* * *

 

In terza classe, a meno che non si trattasse di famiglie, e anche in quel caso era difficile restare uniti, gli uomini e le donne erano messi in cabine separate. Con i soldi che avevano messi insieme, Puck ed il suo gruppo avevano acquistato biglietti per due cabine: in una si sistemarono lui con Blaine e Mike, mentre le donne nella seconda; visto che i letti per dormire erano solo quattro, si decise che Rachel e Sugar ne avrebbero condiviso uno mentre Beth avrebbe dormito con Shelby; poi, per il resto, c’erano la sala comune e la sala di ritrovo e il ponte di terza dove stare tutti insieme a godersi il viaggio prima di arrivare in America anzi, Mike stava già cercando di corrompere i suoi due compagni di stanza affinché gli lasciassero la cabina libera per una notte e, al tempo stesso, Tina stava pensando di cedere a Rachel il suo letto.

- Voglio andare sopra a vedere il mare – fece Beth dibattendosi sul letto dove Shelby la teneva distesa nell’arduo tentativo di infilarle una sottanina pulita.

- Non prima di esserti coperta bene; sopra fa freschetto e non devi ammalarti – disse Shelby, pazientemente – Cosa pensi che direbbe “Mamma Stella” se ti prendessi un raffreddore?

- “Mamma Stella Mamma Stella Mamma Stella” – si mise a cantare la bimba, mangiandosi le parole o pronunciandole in modo buffo a causa dei denti storti.

- Ho capito – riprese Shelby – Se ti racconto di nuovo la storia di “mamma Stella” mi prometti di stare buona fino a quando non avrò finito di cambiarti?

Beth rispose con un cenno del capo, nascondendo un sorriso emozionato tra le manine.

- Allora – incominciò la donna – “Una volta, alcuni anni fa, dal cielo cadde una piccola stellina luminosa; man mano che la stellina si avvicinava alla terra, diventava sempre più grande fino a diventare una bellissima fanciulla, una principessa del cielo. E sai chi era quella principessa?

- Mamma Stella.

- Un contadino, passando di lì, la vide e subito se ne innamorò. Anche lui era giovane e bello e anche Mamma Stella si innamorò di lui. E sai chi era quel contadino?

- Papà Puck.

- Quella stessa notte Mamma Stella e Papà Puck si giurarono eterno amore e da quell’amore nacque una bellissima bambina. E sai chi era quella bambina?

- Io – rispose entusiasta Beth.

- Ma il cattivissimo Re delle Nubi Temporalesche, invidioso della loro felicità, sollevò un vento fortissimo che spazzò via ogni cosa che incontrava e che portò via Mamma Stella, trascinandola via in cielo. Disperata per essere stata separata dalla sua bambina, la principessa da lassù pregò una donna senza figli di prendersi cura di sua figlia. E sai chi era quella donna?

- Mamma Shelby – rispose ancora Beth, indicando la donna davanti a sé.

- Rassicurata di sapere sua figlia in buone mani, Mamma Stella accettò la sua reclusione nel cielo, assieme alle altre sue sorelle stelle, dove avrebbe potuto vegliare sui sogni della sua bambina fino al giorno in cui avrebbe potuto incontrarla di nuovo.

Nel mentre che aveva raccontato quella fiaba, Shelby riuscì a sistemare la sottanina addosso a Beth, che l’aveva ascoltata rapita come ogni volta; adesso, tranquilla e soddisfatta, era la perfetta riproduzione di una di quelle bambole di porcellana che i giocattolai esibivano nelle vetrine dei loro negozi, con giusto una macchiolina di grasso sull’orlo della vesticciola che non erano riusciti a togliere ad indicare la loro realtà.

- Adesso, sei veramente la bella e brava bambina che sei – disse Shelby mettendola in piedi sul letto e baciandole le guance – Su, usciamo e facciamoci vedere da tutti.

- Anche da Mamma Stella? – chiese la bambina.

- A quest’ora Mamma Stella sta dormendo assieme a tutte le sue sorelle stelline; ma stanotte verrà lei a vederti, mentre dormi.

- Allora la vedrò in sogno?

- Sì, tesoro mio – le rispose teneramente la donna prendendole la mano e accompagnandola fuori dalla cabina.

 

* * *

 

Alle sei e mezzo di sera di quello stesso giorno, il Titanic attraccò nei pressi di Cherbourg, in Francia, dove salirono altri 274 passeggeri, e riprese il viaggio alle otto. Il giorno successivo, alle undici e mezzo di mattina sostò a Queenstown, sulla costa irlandese, dove si imbarcarono altre 120 persone. All’una e mezzo ripartì, stavolta puntando verso l’oceano. A bordo c’erano 2.223 passeggeri.

 

 

 

Nota dell’autore:

Qui ho citato un bel po’ di personaggi realmente esistiti. I più noti sono sicuramente J.J Astor, l’uomo più ricco a bordo del Titanic, assieme a sua moglie Madeleine, Benjamin Guggenheim altro noto industriale dell’epoca, i coniugi Straus, proprietari dei grandi magazzini Macy’s; altri meno noti sono la contessa di Rothes che dopo il naufragio si occupò delle vedove e degli orfani della tragedia assieme ad altre donne, Archibald Butt, persona molto in vista alla Casa Bianca, che viaggiava assieme al suo migliore amico (e forse amante) il pittore Francis Millet.

Loro furono tra le persone che più si distinsero durante il naufragio, nel bene e nel male, tra i sopravvissuti come la contessa di Rothes e la giovane moglie di Astor e tra i morti come tutti gli altri.

Purtroppo, non tutti mostrarono il loro coraggio e il loro senso del sacrificio.

Una cosa su cui ho puntato l’attenzione, e che ritornerà più volte perché è parte integrante della tragedia del Titanic, è la xenofobia e la relegazione dei poveri sul gradino più basso della scala sociale. Per quanto ingiusto, all’epoca tutto ciò era nella norma e nemmeno dopo i fatti del 1912 le cose sembrarono cambiare; infatti, nelle inchieste che seguirono non venne mai ascoltato nessuno dei sopravvissuti della terza classe e solo in tempi più recenti si è portata l’attenzione su questo aspetto dell’epoca. Se ci sono delle vere vittime, sono loro. I ricchi hanno avuto la loro possibilità di salvarsi, che poi l’abbiano colta o meno è stata una loro decisione; i poveri, invece, non hanno avuto nemmeno questa possibilità perché considerati senza importanza e chiusi nella loro “zona” come topi e liberati solo quando era ormai troppo tardi.

Finita la parentesi storico-sociale, passiamo al capitolo.

Ammetto che non mi convince assolutamente il litigio tra Quinn e suo padre ma non ho saputo fare di meglio. Questo capitolo è di passaggio; la storia vera e propria inizierà col prossimo quindi se, come penso, questo capitolo vi ha annoiati, vi chiedo di resistere ancora un po’. E, come ho già segnato nella mia pagina su fb (che potete trovare qui http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483) aggiornerò questa mini-long ogni mercoledì, salvo imprevisti o ritardi.

Ringrazio tutte le persone che mi hanno recensito, che seguono la mia storia e che leggono solo. A tutti quanti, un bacio.

 

Lusio

  
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