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Autore: Leyla_    06/09/2012    3 recensioni
Esme rimase in silenzio per alcuni istanti “Di cosa hai paura, MiriMiri?” chiese.
“Di cosa hai paura.” ripetei, piano.
“Ho paura che mia mamma muoia. Lei ha il cancro. Papà dice che è una cosa brutta.”
“Io ho paura delle persone. Tu sei una persona.” Dissi, per farle capire che temevo anche di lei.
Sentii Esme che picchiettava le unghie sulla porta. “Allora fa finta che sia un fiore.”
“Un fiore?” domandai confusa.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Titolo: Social Phobia
Sottotitolo: L’innocente Margherita solitaria.
Genere: Malinconico, triste.
Avvertimenti: Incompiuta.
Pairing: NoPairings
Note: ho scritto questa fic circa due anni fa, molto prima di iscrivermi ad EFP. L’ho ritrovata per caso su una chiavetta USB e l’ho riletta, modificata in alcuni punti ed ho aggiunto un capitolo. È l’unica cosa che ho iniziato a scrivere e terminato. Forse perché parla di me, e quindi sapevo già cosa raccontare. Nonostante questo non so se aggiornerò velocemente. Perchè ho paura anche di questo. Quanto sono stupida.
Dal momento che si tratta di fatti realmente accaduti (quindi più o meno è un autobiografia, anche se non è il termine più appropriato) ... se avete qualcosa da criticare a livello di trama, fatelo tramite messaggio privato, per favore.




 

 





 

La socio fobia o disturbo di ansia sociale, è la paura di trovarsi in una particolare situazione, in cui si può subire un giudizio da parte di altre persone. Si tratta di uno stato ansioso nel quale il contatto con gli altri è segnato dalla paura di essere malgiudicati e dalla paura di comportarsi in maniera imbarazzante ed umiliante. [1]

 

Social Phobia.
[L’innocente Margherita solitaria.]

 

La prima volta che avevo sentito quella definizione, era stato nello studio di un uomo vestito in giacca e cravatta rossa, con i capelli bianchi e ricci e la r moscia. Avevo tre anni, e quel vecchietto che assomigliava in maniera inquietante al mio anziano vicino mi faceva paura.
Era normale, però. Io avevo paura di tutti. Ma avevo più paura delle parole. Di ciò che dicevano di me le persone.
E quell’uomo, vestito così bene, seduto alla grande scrivania in legno davanti ai miei genitori, parlava di me, e io non capivo bene alcune parole che usava. Ed ebbi paura.
“È una specie di malattia?” aveva detto mia madre, con un tono più spazientito, che preoccupato.
Mio padre l’aveva guardata in modo strano. Almeno, strano per me che avevo tre anni. Ero una bambina, andavo all’asilo e non li capivo, i grandi.
Nemmeno i miei amici. Anche se non erano miei amici. Me ne stavo sempre in disparte, in classe. E se qualcuno parlava di me io mi coprivo le orecchie con le mani e cercavo di parlare ad altro. Però sentivo le loro voci comunque.
 

“L’hai vista?”
“Chi? Miranda?”
“Sì, lei. Non parla quasi mai. Chissà cos’ha.”
“Non lo so. A me non piace. È strana. Anche la mia mamma dice che è strana.”
“Andiamo a giocare in cortile.”
“Sì, però se giochiamo a nascondino questa volta conti tu!”

 
“Posso dirle con certezza che non si tratta di autismo, come vi è stato detto in passato. Nonostante la bambina non risponda quando la si chiama, si comporti in modo strano o utilizzi spesso l’ecolalia[2] per comunicare e far capire che ascolta, non è affetta dalla sindrome di Kanner[3]. La socio fobia tuttavia non è semplice timidezza.” Ripeteva quello sulla grande poltrona in pelle nera.
“Questo l’ha già detto.” Borbottò mio padre frustrato. “Si può fare qualcosa?”
“Negli anni questa fobia può attenuarsi, ma … per ora, considerata la sua età, sarebbe meglio non farle più frequentare l’asilo e per le elementari … farla studiare da privatista.”
“Da privatista?” sbottò mia madre “Ma significherebbe pagarle un insegnante per seguirla, dal momento che io e mio marito lavoriamo fino a tardi!”
Il dottore crucciò la fronte per qualche istante, e a me venne da ridere, ma non lo feci “Signora … i bambini a questa età sono molto più sensibili, ed è difficile far capire loro qualcosa di così complicato. I suoi compagni potrebbero non capire. Potrebbero isolarla e questo potrebbe peggiorare la situazione.”
Mia mamma sbuffò, poi si alzò, salutò l’uomo con la cravatta rossa e uscì dalla stanza senza chiudere la porta. Il papà mi prese per mano, salutò anche lui il vecchietto e uscì con me, richiudendo la porta in legno alle sue spalle.
“Papi, perché l’uomo con la r strana non vuole che torni a scuola?” mormorai.
Lui mi guardò “Perché … è difficile da spiegare, principessa. Ma tu sei paziente, vero? Quando sarai pronta, lo saprai. Capito, principessa?”
Annuii, ma continuai a parlare “Quando mi chiami principessa significa che è successo qualcosa di brutto.”
“Non è così.” Assicurò facendomi salire in macchina.
Non è così.” Ripetei io, e udii mia madre sbuffare di nuovo.
Mio padre mise in moto l’auto e guardò sua moglie “Marta, ti prego.” supplicò, e lei rispose con un semplice “Mh.”
Nessuno parlò più fino all’ora di cena.
 
Le lezioni da privatista all’inizio erano noiose e difficili. E il mio maestro era severo e mi faceva paura. Non era dolce come papà. Si arrabbiava se non gli rispondevo o gli facevo il verso, e diceva che dovevo impegnarmi di più. Era alto, come uno spaventapasseri, con i capelli biondi e i capelli neri, la voce profonda. Aveva trentacinque anni, disse mio padre una volta.
In quinta elementare, il vecchietto con la cravatta rossa e la r strana –che scoprii, quando imparai a leggere la targa sulla scrivania del suo studio, si chiamava “Dottor. Abatelli”-  riferì ai miei genitori che potevo tornare a scuola. E che forse non avrei più dovuto abbandonarla.
Era la soluzione giusta, dal momento che ero cresciuta e avevo bisogno di stringere amicizia con qualcuno.
Io però non volevo.
Avevo paura.
Ma loro non capivano.
 
La scuola era strana. Non era colorata come l’asilo. Ed era più grande. E non c’era un parco giochi nel cortile, non c’era nemmeno il prato con l’erba sempre bruciata dal sole. E c’erano più persone.
E a me le persone continuavano a non piacere. Non uscivo mai troppo spesso, quando ero privatista. Solo nel week end, ogni tanto. Mio padre mi portava al luna park ogni tanto, anche se mia madre non voleva. Mi portava in biblioteca, a prendere il gelato, a fare i giri in bicicletta, in chiesa, anche se mia madre non voleva nemmeno tutto quello.
La mia classe aveva le pareti rosa confetto. Eravamo tredici femmine e nove maschi.
“È brutta.” Disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai, lentamente, e vidi una ragazza con un grembiule completamente nero e i capelli legati in uno chignon ricoperto da margherite di uno strano colore che fissava i muri della stanza disgustata.
“La classe è brutta. Ha un colore orribile. Bleah.” Poi posò lo sguardo verso di me “Esmeralda. Chiamami Esme.” Si presentò, sorridendo lievemente.
“Miranda.” Borbottai, tornando a guardare le pareti.
“Quanti anni hai?”
Quanti anni hai?” ripetei, nervosa.
“Io ne ho nove, perché sono andata a scuola un anno prima. Tu ne hai nove? Dieci? Undici?”
Appoggiai la cartella vicino ad un banco e mi sedetti “Undici.” Sussurrai.
Mia madre non mi credeva pronta per le medie, perciò aveva deciso mi mandarmi in quinta elementare. E l’anno dopo avrei dovuto fare due anni in uno.
Non le parlai più per tutta la giornata.
Mi rivolse un “Ciao, a domani!” prima di correre verso sua madre, e io le risposi urlando le stesse parole.
Per un mese continuò così. Non parlavo con nessuno, e mi limitavo a studiare e ottenere buoni voti. Era l’unica cosa che riuscivo a fare. Esme mi parlava raramente.
Pensai che mi credesse strana anche lei. Se ne stava quasi sempre da sola. Raramente con le altre bambine. Mi salutava quando entravamo a scuola e quando uscivamo, e io rispondevo attraverso l’ecolalia. Non riuscivo a parlarle. Avevo paura di dire cose fuori posto. Non volevo che mi giudicasse, anche se forse lo stava già facendo. E anche questo mi terrorizzava.
Mi faceva così paura, che non riuscivo a pensare ad altro. Paura, paura, paura.
Era un parola onnipresente in ogni cosa che facevo, perché le persone erano onnipresenti in ogni cosa che facevo.
Perché io non ero sola, sulla Terra. C’era tanta, troppa gente.
Dopo due settimane di scuola, non riuscii più a continuare. Mi sentivo stupida. Sapevo che la mia paura era irrazionale, ma non riuscivo a gestirla.
Mi sentivo male. E mia madre quando facevo così si metteva ad urlare.
Poi, smisi di andare a scuola per una settimana intera. Mia mamma si rifiutava di parlarmi o guardarmi. Diceva a mio padre che ero strana e anormale.
Che avrebbe desiderato tanto un’altra figlia. E allora loro due litigavano. E se litigavano, gridava mia madre, era colpa mia.
Penso avesse ragione.
 
Un giorno la mamma, mentre ero ancora a casa da scuola, entrò in camera con un sorriso.
“Miranda! C’è una tua amica sulla porta, ha detto che è venuta a portarti i compiti! Perché non ci hai detto che hai un’amica?” esclamò, entusiasta, per poi sparire verso la cucina.
Ma io un’amica non ce l’avevo. Quando sentii dei passi avvicinarsi alla mia stanza, chiusi la porta a chiave.
“Miranda, sono Esme.”
Esme.”
“Miri, aprimi.”
“No.”
“Mi machi a scuola, Miranda …”
Mi morsi il labbro “Non siamo amiche. Non hai il motivo di sentire la mia mancanza.” Presi un respiro, e iniziai a spostare lo sguardo da una parte all’altra della stanza disordinata. “Vai via. Non ti voglio qui. Ti odio!” Sibilai, parlando ad alta voce, troppo alta, e anche troppo velocemente.
Esme rimase in silenzio per alcuni istanti “Di cosa hai paura, MiriMiri?” chiese.
 

“Aspettami qui, principessa, io vado a parlare con la tua maestra un’ultima volta, per assicurarmi che sia tutto okay. Capito?.”
“Per assicurarmi che sia tutto okay.”
“Sì, principessa.”
Vidi mio padre scomparire oltre una porta gialla come il sole.
Una bambina si avvicinò a me.
“MiriMiri, perché te ne vai?” chiese.
La guardai. Aveva i capelli corvini scompigliati dal vento e due grandi occhioni verdi come smeraldi.
Aveva delle bellissime margherite intrecciate tra i capelli.
L’avevo vista solo una volta, quando lei era caduta dall’altalena e si era sbucciata il ginocchio.
E io avevo chiamato la maestra perché vedendo il sangue e avevo avuto paura.
“Non lo so.” Dissi, e iniziai a torturarmi le mani.
Chi era quella ragazzina? Cosa voleva? Si era avvicinata perché mi credeva strana anche lei?
“A me mancherai MiriMiri.” Sussurrò calma, e mi appoggiò una margherita in grembo.
La fissai, confusa, e lei senza dire una parola se ne andò.
Scomparve tra gli altri bambini, nel nulla.
La margherita dopo un po’ appassì.
E non la vidi più.

 
Di cosa hai paura.” ripetei, piano.
“Ho paura che mia mamma muoia. Lei ha il cancro. Papà dice che è una cosa brutta.”
“Io ho paura delle persone. Tu sei una persona.” Dissi, per farle capire che temevo anche di lei.
Sentii Esme che picchiettava le unghie sulla porta. “Allora fa finta che sia un fiore.”
Un fiore?” domandai confusa.
“I fiori sono esseri viventi, però non parlano e non credo nemmeno che pensino. O almeno, parlano ma siamo noi a farli parlare.”
Girai la chiave ed aprii la porta “In che senso.” Feci, fissandole i fiori che aveva tra i capelli “Le margherite che hai in testa puoi farle parlare?”
“No.” Replicò lei seria “E non sono margherite, ma settembrini.”
Sentii le guance andarmi in fiamme “Sembrano margherite.” Mi giustificai e iniziai a battere velocemente le palpebre.
“Anche io pensavo che fossero margherite. Però le margherite significano innocenza, mentre i settembrini pensieri profondi.”
“Eh?”
“Si chiama linguaggio dei fiori. Me l’ha insegnato mia madre. Ti va di impararlo?”
Non risposi.
“I fiori non giudicano, MiriMiri.” Mi teste la mano, un po’ insicura. “E nemmeno io. È una promessa.”
Spostai lo sguardo sul soffitto “Ho paura delle persone.” Dissi ancora.
“Allora io sono un fiore.” Ripeté nuovamente “Allora sono … una margherita.”
“Sei un’innocente margherita a cui piace stare sola?” chiesi, e non riuscii a trattenere una risata.
 
Da quel giorno anche in classe tutti iniziarono a chiamare Esme “l’innocente Margherita solitaria”.
A lei sembrava dare un po’ fastidio, ma sopportava.
Ma la mia fobia non era svanita. E mia madre ripeteva che nonostante tutto ero strana. Mi faceva stare male. Però non lo dicevo a nessuno.
“Perché stai male MiriMiri?” mi domandò Esme a scuola, durante un intervallo.
“Stai male.” Mormorai.
“Io sto male perché tu stai male.” Spiegò lei “È questo che significa essere empatici.”
“Empatici? [4]
“Mia madre me l’ha spiegato una volta. Viene da una parola greca.”
“Tu senti quello che provo io?”
“Sì.” Spostò lo sguardo verso gli altri bambini che correvano nel cortile. “Perché stai male MiriMiri?”
Male.
“Non lo sai?”
“Non lo so. Penso sia sempre per lo stesso motivo.”
 
Un giorno i miei genitori litigarono. Li sentii gridare, ma non capivo di cosa parlassero. Era una serata di Maggio.
La porta d’ingresso si aprì e si richiuse con un colpo secco. Sentii dei passi pesanti provenienti dalla sala. Entrai. Mio padre camminava avanti e indietro, con lo sguardo fisso a terra.
“Papà.”
Lui mi guardò e mi abbracciò.
“Va tutto bene, principessa.”
“Quando mi chiami principessa significa che è successo qualcosa di brutto.”





 


[1] La definizione è più o meno la stessa che si trova su Wikipedia. Non ricordo esattamente le parole del "vecchietto con la cravatta rossa", perciò ho cercato una definizione.
[2] L'ecolalia è un disturbo del linguaggio che consiste nel ripetere parole o anche intere frasi pronunciate da altri, proprio come un'eco. É pricipalmente una caratteristica delle persone autistiche.
[3] La "Sindrome di Kanner" è il nome che in origine aveva l'autismo.
[4] Empatia devira dalla parola greca "εμπαθεία" (empatéia). La parola è composta da "en", ovvero "dentro", e "pathos", "sofferenza o sentimento". Consiste, come ho spiegato a grandi linee nel capitolo, nella capacità di comprendere e condividere gli stati d'animo delle altre persone (che si tratti di gioia, dolore o altro).



  
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