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Autore: UnGattoNelCappello    06/09/2012    0 recensioni
... Una pennellata di bianco spunta da un vaso di fiori secchi che sta sul mio tavolino da toeletta. Mi avvicino con passo guardingo. Lì, quasi nascosta dai cugini conservati, scorgo una rosa bianca fresca. Perfetta. ... Da "il canto della rivolta", Suzanne Collins.
Questa, è la storia di quella rosa. Raccontata da chi meno ci aspetteremmo.
" La rosa avrebbe resistito, e con essa il suo profumo.
Katniss Everdeen l'avrebbe vista, l'avrebbe odorata, e avrebbe percepito tutto il terrore dell'animale braccato, in trappola. "
Genere: Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Presidente Snow
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA ROSA

 

 

Fumo. E fuoco. Ma quello era lontano, il pericolo più attuale era il fumo. Era arrivato fin lì, anche se erano stati attenti a sganciare con estrema precisione le bombe incendiare solo sopra ai punti a loro più favorevoli, come la piazza, il mercato, le miniere. In modo da mietere più vittime possibili. Ma il fumo, strisciando come un rettile, si era insinuato nel viale, risalendolo fin ad arrivare al Villaggio dei Vincitori, invadendo le case e i giardini.

Il presidente Snow si fece passare in fretta una maschera antigas dai pacificatori che gli guardavano le spalle. Tre. Non ne aveva voluti altri, malgrado le insistenze dei suoi consiglieri. Quel lavoro andava fatto in fretta, senza farsi notare. E poi, chi avrebbe potuto attaccarlo? L'intera popolazione del distretto 12 stava bruciando. Il Villaggio dei Vincitori era vuoto, le uniche due case abitate evacuate in gran fretta. “Stupidi”, pensò il presidente, risalendo il vialetto che portava all'unica casa dov'era già stato, mesi prima. “Era l'unico posto sicuro”.

Non si erano date pena di chiudere la porta. Meglio così. Sfondarla avrebbe richiesto tempo, e lui voleva andarsene il prima possibile.

La cucina era come la ricordava, così insopportabilmente piena di quella sensazione di famiglia... si notava dalla tazze e i cereali già pronti per la colazione, preparati dalla mani di una madre premurosa. Si notava da un barattolo di marmellata lasciato aperto, forse l'ultimo pasto di una ragazzina triste in cerca di qualcosa di dolce. E da altri mille piccoli particolari, invisibili a chi non guardava con attenzione.

Tutte falsità”, pensò sprezzante Snow.

Passò davanti alla porta dello studio, che sembrava chiusa a chiave. Uno dei pacificatori la colpì con una spallata, e quella si spalancò cigolando. Il tavolo al suo interno presentava uno spesso strato di polvere. Un sorriso apparve sulle labbra da rettile del presidente. Nessuno entrava lì da molto tempo. Ci aveva visto giusto, era riuscito a spaventare quella ragazza.

Lanciò uno sguardo alle scale, e improvvisamente disse ai suoi uomini: - Fermi, da qui vado avanti da solo. - Uno dei tre fece per protestare, ma notando lo sguardo negli occhi del presidente, impallidì e chiuse la bocca, indietreggiando.

Snow iniziò a risalire i gradini scricchiolanti, evitando di toccare il corrimano. Troppe mani ci erano già passate sopra, la maggior parte delle quali appartenevano a persone ormai morte. Arrivato in cima, si guardò un po' intorno, indeciso. Alla fine si diresse verso l'unica porta chiusa. Girò la maniglia e quella si aprì. Giusto, perché avrebbero dovuto chiuderla a chiave? Ricordava quelle persone, erano sempre così piene di speranza... anche in quei momenti. E lui lo sapeva, la speranza era una delle cose più pericolose al mondo. Guardando la stanza, un nuovo sorriso tornò a balenargli sulle labbra. Il letto era in ordine e sul comodino accanto c'era solo un grosso libro rilegato in pelle e una matita. Su una sedia erano posati dei pantaloni di stoffa, e una giacca nera, di pelle. Accanto a l'armadio, uno specchio appoggiato ad un tavolino, su cui qualcuno aveva messo un vaso con dei fiori secchi, l'unico segno di riconoscimento della stanza. Dubitava che fosse stata lei, che era come quella camera, pratica, essenziale e senza emozioni. “Potrebbe essere la stanza di un soldato” pensò Snow, sempre più divertito, “ O la mia”.

Iniziava a capire quella ragazza. In un certo senso, lei era più simile a lui che a sua madre o a sua sorella. Si avvicinò lentamente allo specchio, prendendo una scatolina nera che fino a quel momento aveva tenuto in tasca. Appena l'aprì, un nauseante odore riempì la stanza, coprendo quello di fumo. Riusciva a sentirlo anche attraverso la maschera. Una rosa bianca, perfetta, senza spine. Esattamente uguale a quella che indossava il giorno dell'inizio del Tour della Vittoria. Stesso odore. Stessa forma. Continuando a sorridere, la posizionò con attenzione in mezzo agli altri fiori. Spiccava come una goccia di sangue su un manto innevato. Alzò lo sguardo, e vide il riflesso dei propri occhi che lo scrutava. All'improvviso sul volto da serpente apparve una smorfia grottesca. Una delle piaghe all'interno delle guance si era appena riaperta, riempendogli la bocca del sapore del sangue. Succedeva spesso, e con un'ultima smorfia di dolore deglutì e si avvicinò all'unica finestra della stanza. In lontananza, riusciva a vedere la luce e a sentire il rumore delle esplosioni ancora in corso.

Fumo. Fuoco. E grida, ora riusciva a percepirle. Grida di donne, uomini, una ragazza. Un pianto di bambino, appena percepibile.

Impossibile”, si rimproverò il presidente. Come si può sentire un bambino piangere da questa distanza? Doveva esserselo immaginato. Era passato anche troppo tempo, doveva tornare giù dai suoi uomini e risalire sull'hovercraft invisibile che lo aspettava sopra la strada. Ma qualcosa lo tratteneva lì, a guardare il dolore e la distruzione causate dalla semplice pressione di quel pulsante bianco, che ordinava lo sganciamento delle bombe. Causate da lui.

Scosse la testa, esterrefatto da quei pensieri che mai aveva avuto motivo di esprimere prima. “No, non colpa mia. Colpa della ragazza. Colpa del distretto 13. Questo non sarebbe mai successo se ognuno fosse restato al suo posto”. Ma ovviamente, a lui non interessava quante persone perdevano la vita o venivano distrutte, purché lui mantenesse il potere. Giusto? Lo prese una strana sensazione, in fondo allo stomaco, insopportabile. Improvvisamente quella stanza gli sembrò claustrofobica, aveva bisogno di uscire da lì. Mentre si girava in fretta per chiudere la porta alle sue spalle, lanciò un ultimo sguardo alla rosa. Era il simbolo stesso dell'innocenza, e lui era riuscito a trasformarla in qualcosa di terrificante, per quella ragazza. Probabilmente sarebbero passati mesi prima che ritornasse in quella casa, ma non aveva importanza. La rosa avrebbe resistito, e con essa il suo profumo.

Katniss Everdeen l'avrebbe vista, l'avrebbe odorata, e avrebbe percepito tutto il terrore dell'animale braccato, in trappola. E lui era il cacciatore. Non doveva dimenticarlo. Il simbolo della resistenza, la ragazza che aveva osato sfidare Capitol City, pietrificata dal terrore, dalla promessa che infine sarebbe arrivato il giorno in cui lui avrebbe ucciso la sua preda. Terrorizzata dalla promessa di morte che quella rosa significava.

Tutto qui. Una semplice, piccola, rosa bianca.

  
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