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Autore: Invader_from_Hell    08/06/2004    3 recensioni
Questo racconto segue la linea di " I fiori", narrando le vicende di un'ennesima zona dello stesos quartiere. Un Parco che vede susseguirsi le generazioni, le storie e le riflessioni. Leggete e recensite, ci tengo ^_^
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Parco

Il Parco

 

Non era né troppo vicino alla strada principale, né troppo fuori mano, cosicché non c’era davvero nessuno che non potesse raggiungerlo in tutta tranquillità e con relativa facilità. Per questo dicevano il vero quelli che affermavano che chi sosteneva di non esserci mai stato mentiva. Certo, poteva anche darsi che ci fosse stato senza però ricordarsene, probabilmente non era stata un’esperienza degna di particolare nota per un bambino, e magari i genitori non avevano particolare piacere nel sapere il proprio figlio a giocare in quel parco. Tuttavia almeno una volta aveva attraversato il cancello del Parco, se ne poteva essere sicuri. Niente e nessuno nel quartiere poteva prescindere da quel luogo.

È però necessario precisare che quanto detto valeva solo per gli abitanti del quartiere.

Se infatti si fosse interrogato riguardo l’esistenza del  Parco qualcuno che non capitava spesso da quelle parti, con tutta probabilità quello avrebbe assunto l’espressione di chi sente per la prima volta un toponimo. Avrebbe domandato di cosa si stesse parlando, perché lui di quel parco proprio non aveva mai sentito parlare. E ragionevolmente, perché raggiungere quel parco sarebbe stato difficilissimo e piuttosto laborioso per chiunque non conoscesse la zona.

Secondo molti però, era strano che molta gente non ne avesse mai neppure sentito citare il nome, difatti il  Parco costeggiava un tratto di un’importante via, molto trafficata. Non si trattava, ovviamente, di un’autostrada. Gli  abitanti di quel quartiere non avrebbero mai e poi mai permesso la devastazione della loro quiescente campagna, e un esempio ne era stata l’imponente protesta che si era levata riguardo la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità che avrebbe dovuto attraversare proprio le loro amate vie. In quell’occasione si erano creati veri e propri movimenti di protesta, secondo alcuni si arrivò alla disobbedienza pacifica. Molta gente, sentendo queste storie proprio non riusciva ad immaginarsi il fornaio o il lattaio – a seconda delle versioni narrate- distesi sull’asfalto della strada principale, coperti con cartelli recanti slogan di resistenza pacifica. C’era tuttavia chi vi riusciva benissimo, e anzi, fomentava queste versioni con proprie brillanti invenzioni. Ed ecco che apparivano dal nulla la protezione civile, la polizia di stato, strane organizzazioni no global e animaliste che prendevano parte alla protesta. Non sarebbe stato assolutamente esagerato affermare che secondo quei racconti nelle strade del piccolo quartiere aveva avuto luogo una battaglia campale di dimensioni ragguardevoli.

In ogni caso, la strada che affiancava e lambiva il parco non era affatto un’autostrada.

A dire il vero, sembrava che fosse stata costruita in tempi piuttosto antichi, pareva addirittura risalire al milleottocento, e a quanto diceva chi se ne intendeva – chi se ne intendeva?- doveva costituire il primo valico dell’Appennino veramente accessibile e praticabile. Nel racconto delle origini della strada veniva anche nominata la ferrovia Leopolda, ma non è affatto difficile comprendere come le informazioni in questo frangente fossero quanto mai sommarie e confuse.

Tutto sommato, era una strada a tratti piuttosto sconnessa, ma ancora molto praticata – anche perché l’unica- per raggiungere le immediate vicinanze del quartiere, i graziosi paesini che guaivano sulle colline limitrofe, e in ultima analisi anche lo stesso centro di Fiesole.

Per questo era abbastanza singolare che nessuno dei non abitanti nel quartiere, passando per quella strada si fosse accorto dell’esistenza di un parco. Un parco piuttosto frequentato anche, in ogni epoca. Continuavano incessantemente a ripetere che era strano, a tratti inspiegabile.

Tuttavia, la cosa che più bruciava sulla pelle degli anziani guardiani del parco era la cecità del comune della città quando si trattava di gettare gli occhi sul quartiere e sul parco.

Parlare di finanziamenti per il mantenimento delle attrezzature o semplicemente dell’erba, era qualcosa di semplicemente impensabile, a volte causa di ilarità nei più acuti.

Tuttavia l’opinione pubblica del quartiere si era dovuta ricredere quando un primo grande finanziamento fece capolino. Ma non suscitò la gioia sperata. Infatti altro non era che la contropartita per il ripristino dell’antica linea ferroviaria che tagliava originariamente a metà il parco.

C’è da dire che un tempo di trattava nel complesso di un possedimento agricolo – da qui le tracce di vitigni tra i ciuffi d’erba-. Vi era – e vi è ancora- la villa dei padroni situata in alto, nella posizione più adatta per sovrastare i campi. Trecento metri di campi più in basso, rasente ai confini ultimi del parco, vi era l’abitazione dei contadini che si occupavano del parco.

Si trattava di una casa colonica costruita con mattoni irregolari che le conferivano un indicibile fascino, accompagnato inevitabilmente da un senso di stabilità precaria.

E infatti una volta la casa – ormai trasformata in  una sorta di circolo ricreativo, noto perlopiù con il nome di “casa dei vecchietti”- ebbe un crollo. Non ricordo quale parte franò, ma so per certo che prima che iniziassero i lavori passarono un paio d’anni. Fu probabilmente ai tempi del famoso finanziamento che poterono essere avviati. Il risultato finale fu che la casa dei vecchietti cambiò aspetto, colore e nome. Diventò un centro sociale per i ragazzi del quartiere. Infatti fu nuovamente popolato dai vecchi. Questo perché nel particolarissimo equilibrio rionale erano proprio i vecchi ad essere ragazzi. Ogni volta che veniva proposta un’iniziativa per i ragazzi, ogni volta che veniva offerto uno spazio, erano i vecchi che ne prendevano invariabilmente possesso. Per i ragazzi c’era il centro, cosa volevano che fossero dieci minuti di autobus?

Io volevo che fossero tali, ma l’azienda che si occupava della mobilità cittadina non la pensava come me.

In fondo nessuno si lamentò mai, però.

Tra vecchi, finanziamenti, gente che non conosceva il parco e stranezze, gli anni passavano puntuali. Non si poteva neppure dire che il tempo fosse crudele, a conti fatti non ci stava rubando nulla. Ogni anno si prendeva ciò che gli spettava. E poteva essere un vecchio che moriva, un albero che veniva stroncato dal vento… ma anche una generazione che non usciva definitivamente dal cancello del Parco, per poi farvi ritorno dopo qualche anno, per scherzo.

 

 

Difficile dire da chi fosse frequentato quel luogo, per diverse ragioni.

La prima e più evidente, è il fatto che l’utenza fosse invero variegata.

La seconda, è che negli anni la tipologia degli avventori del parco andò modificandosi, rivoluzionando i precedenti canoni.

Credo che in ogni caso esistesse un equilibrio, un tempo.

Quando ci andavo anche io, ricordo che noi bambini sentivamo tutti l’influenza dei mondiali di calcio che bussavano alla porta. Vidi un’intera generazione di padri e figli dedicare le domeniche a partite infurianti, vestendo per un attimo le vesti di calciatori esperti o di allenatori che hanno visto i sette mari del pallone.

Fu proprio in quel parco che molti bambini si resero conto di essere nella stessa classe, li potevi vedere scrutarsi con occhi increduli e erompere in striduli “ Ehi, ma tu sei nella mia classe!”. Da lì iniziavano a rendersi conto di come non fossero semplici nomi su un registro, iniziavano a ottenere il controllo della propria volontà sociale, cominciavano a scegliere con chi giocare, senza curarsi – sulle prime- di eventuali invidie e gelosie che si potevano venire a creare.

Quel Parco vide quella generazione gioire e piangere di fronte ai trionfi e alle disfatte della nazionale italiana, un centinaio di bambini si sentì totalmente dipendente da un goal, come se la vittoria del campionato del mondo rappresentasse l’unico modo per raggiungere la salvezza. Ma come potevamo essere biasimati? Non eravamo forse di fronte al primo grande obbiettivo della nostra vita? Non era forse un modo come un altro per iniziare a mostrare le nostre mire? Forse sognavamo e basta, ma sono convinto che ci abbia fatto bene.

Se foste andati a chiedere ad uno qualunque di noi cosa avesse voluto fare da grande, vi sareste resi conto che i modelli eroici dei bambini stavano cambiando. Volevamo tutti diventare calciatori.

E oggi la stessa idea di deprime.

Ricordo che quella generazione non si preoccupava assolutamente degli alberi e dell’erba, non ci chiedevamo quale tipo di albero fosse quello sulla destra, e quale quello dritto davanti a noi. Se aveva un altro albero vicino abbastanza da poter costituire una porta da calcio, allora andava benissimo e tentavamo ad ogni costo di difenderlo. Sono sicuro che molti ancora si ricordano di quelle corse folli alla conquista dell’albero più adatto, che si trovava poco prima della zona dedicata ai cani.

Molti di noi avevano una paura pazzesca di quella zona, poiché all’epoca non era separata dalla nostra tramite la ferrovia, bensì era direttamente contigua, comunicante.

Nessuno si sarebbe mai sognato di andare a recuperare un pallone finito tra le grinfie dei cani e dei loro padroni. Ridendo e scherzando, qualcuno talvolta finì per essere morso da uno di quegli animali.

Il Parco era anche molto gettonato per lo svolgimento delle feste di compleanno, specialmente nel periodo estivo. Questa preferenza era dovuta al fatto che proprio in quel periodo dell’anno ci si poteva schizzare tranquillamente senza rischiare di esporsi troppo al freddo.

Il tutto avveniva sotto gli occhi furibondi dei vecchietti, i guardiani. Ce n’erano un paio che tuttavia ci incutevano davvero paura, soprattutto a causa delle innumerabili leggende che giravano sul loro conto. Non ne ricordo neanche una.

 

 

Si dice che i luoghi cambiano, e che le persone finiscano per non sentirsi a loro agio neppure a casa propria.

Ce ne andammo. Un bel giorno fu l’ultimo pomeriggio che passammo giocando a pallone nel giardino. Non ci pensai sul momento, mi sembrava di non averne più il tempo.  Ci sembrava di non averne più il tempo.

Ma non ci tornammo.

Ma vidi tanti ragazzini entrarci per la prima volta, in età sempre più avanzata.

L’ultima volta che ci andai ci vidi solamente ragazzini delle scuole medie. Piccoli, molto piccoli, tanto che se non mi avessero detto altrimenti, avrei pensato fossero stati bambini delle scuole elementari.

Mi ricordai improvvisamente delle feste di fine anno delle elementari, che avevano spesso celebrato proprio lì. Ricordai l’eccitazione, che da allora abbino inconsapevolmente con i tramonti estivi, per l’appunto visibili nell’ora in cui la festa era solita iniziare. Il riso freddo, ognuno che portava qualcosa da mangiare o da bere. Ma in fondo noi non mangiavamo affatto, dopo un paio di patatine ce ne andavamo a giocare a pallone, mentre le mamme ci urlavano di prendere le felpe. Credo che solo gli alberi le sentissero.

 

Adesso per fare le porte da calcio usano bidoni della spazzatura.

 

Ma non credo che i luoghi siano davvero cambiati.

Segno che in fondo, qualche volta, siamo stati noi che – lasciato qualcosa di nostro- ci siamo lentamente evoluti.

 

E sbaglia chi rinnega quei giorni, sbaglia di grosso.

Se non avessimo imparato a correre più veloci che potevamo alla conquista di quell’albero, non so se saremmo dove siamo adesso.

Ma come sempre, queste sono precisazioni che ci piace dare alla storia di ogni cosa.

 

  
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