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Autore: Daughter of the Lake    07/09/2012    1 recensioni
Susan, derelitta, sola, ma determinata a sopravvivere, deve adesso fare i conti con la perdita di tutta la sua famiglia. Che cosa ha in serbo il destino per lei? Riuscirà a permettere al suo cuore di riaprirsi a nuove possibilità?
E in più, perché smise di credere in Narnia?
Lo scoprirete solo leggendo...
Dal Prologo
Doveva provarci, doveva riuscire a tornare indietro.
Fece qualche passo, fino a ritrovarsi di fronte ad esso, quel portale per un altro mondo.
Ci entrò, stando attenta a non chiudersi a chiave. Con lo sguardo fisso sulle porte, indietreggiò, come, ricordò, aveva fatto Lucy la prima volta.
Sbatté contro la parete di fondo.
Ci sbatté di nuovo.
E di nuovo.
Poi si girò e ci ribatté ancora, con la fronte.
Poi la prese a pugni.
Picchiò, picchiò e picchiò, ma la parete era sempre lì.
Infine si lasciò cadere a terra, sul pavimento dell'armadio, con la testa appoggiata alla maledetta parete che non voleva sparire. Sentì qualcosa scivolarle da sotto il pullover, che ancora non si era tolta da quando erano tornati indietro, tutte quelle ore fa.
[...] facendo luce sul foglietto di carta che le era caduto per terra.
[...] Sembrava pergamena di Narnia.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Susan Pevensie
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 5

 

Ricordi di una vita passata

o

Maledetta Narnia

 

(Destino)

Il destino opera in modi misteriosi, a volte, tanto da stupirci.

Susan, in seguito, ripensando a quel periodo della sua vita successivo alla morte della sua famiglia, si chiese spesso se tutta la sofferenza, tutte le difficoltà attraverso le quali dovette passare, non fossero già state scritte.

Non fossero altro che il frutto di un disegno più grande.

Destino, appunto.

Perché con la consapevolezza di poi non poté più pensare che il suo incontro con Jane fosse stato dettato soltanto dal caso.

Perché quell'incontro, fu fondamentale per la sua vita.

Ma ci arriveremo.

(Carpe Diem)

Susan, nel gennaio del 1955, non aveva nessuna fede nel destino.

Quest'ultimo le aveva lanciato troppi brutti. Era stanca, di fidarsi.

A quel tempo era grata, sì, di aver incontrato Jane, perché era una cara ragazza, simpatica, volenterosa di aiutarla e le aveva risparmiato la fatica di cercarsi da sé un appartamento e un lavoro, ma non pensava che ciò avrebbe portata a molto altro, in futuro.

Aveva imparato ad accontentarsi di quello che aveva, a migliorarlo col duro lavoro, ma mai sperare di più. Non più.

Vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Carpe Diem. Cogli l'Attimo.

Aveva ormai imparato che la vita è imprevedibile e che non bisogna mai dare nulla per scontato.

(Fantasmi)

La porta fu aperta: Jane la precedette e, in pochi lunghi passi, si posizionò in mezzo alla stanza a braccia spalancate, esclamando: << Benvenuta a casa!>> con un enorme sorriso in volto.

Susan le sorrise a sua volta, timidamente, esitante; fece appena qualche passo e quindi si ritrovò all'interno.

Casa. Questa è la mia nuova casa. Negli ultimi mesi aveva vissuto in uno strano rapporto con la sua vecchia casa. Qui sarà diverso. Niente fantasmi a New York.

(Ricominciare)

L'appartamento era spazioso, arioso, composto da una sala principale, una cucina, un tavolo da pranzo in quercia posto tra queste due, due camere da letto, un bagno e una sala che Jane chiamava “ricreativa” (comprendeva un pianoforte a coda, un cavalletto da disegno, un giradischi, scaffali pieni di libri e una poltrona in cui leggerli). L'insieme era armonioso, una compenetrazione perfetta di bianco (delle pareti, delle tende, del divano) e di marrone (dei mobili, del tavolo da pranzo, del banco da cucina), reso frizzante da alcuni miglioramenti indubbiamente a opera di Jane, quali i numerosi vasi di fiori, i quadri alle pareti e le foto, tante foto.

Susan si sentì immediatamente a proprio agio, se non contiamo le sue innate paure.

Questo è il posto adatto per ricominciare, pensò. Lo sperava.

<< Ti piace? >> le chiese Jane, speranzosa, guardandola di sottecchi.

Lei annuì.

Ciò non fece altro che allargare di più il sorriso della sua amica, che la strinse in un abbraccio.

<< Vedrai, staremo bene qui. >> le disse, sottovoce, all'orecchio.

Susan annuì di nuovo. (Di poche parole, la nostra Susan.)

<< Dai, che ti faccio vedere il resto. >>

La trascinò, stavolta metaforicamente, in un piccolo tour di tutta la casa. Le mostrò prima il salotto, poi la cucina e infine le stanze. Della stanza “ricreativa” Jane le disse che poteva usufruirne quando voleva, ma che se leggeva un libro, doveva stare attenta a non rovinarlo << Se no a chi lo sente, lo zio! >>, mentre in bagno commentò << Lo so che è un po' piccolo (era il doppio del suo bagno inglese), ma vedrai che ci abitueremo a dividerlo (a casa l'aveva sempre diviso con i suoi tre fratelli) >>.

Le mostrò anche la sua - di Jane - camera, che era color pesca e molto carina, << e troppo ordinata! >>, disse la proprietaria, << lo so, che è opera della governate di mia zia! Sono assente per un mese, e guarda che cosa mi combinano! >>

Infine arrivarono alla camera che sarebbe stata di Susan, l'ultima del corridoio.

Appena entrati dalla porta si poggiava i piedi su un bellissimo tappeto persiano. Il letto era a due piazze; la toeletta e l'armadio, l'una di fronte e l'altro al lato del letto, erano dello stesso legno del tavolo da pranzo; la finestra era sulla parete di fronte alla porta. C'era anche una lampada a fianco del letto. Molto carina. Susan accennò un sorriso e un cenno di approvazione allo sguardo interrogativo di Jane.

<< Sistemati e riposati quanto vuoi, io farò lo stesso, ok? >> le disse allora, soddisfatta.

<< Si, va bene>> ma prima che si potesse allontanare aggiunse <<...e grazie. >> Riversò in quella parola tutta la gratitudine che aveva, non solo per averle mostrato la casa, ma per tutto, per non aver esitato un momento nell'ospitarla, lei, un'estranea, per esserle amica, quando non si conoscevano che da poche ore.

<< Non c'è di che.>> Aveva capito, a giudicare dal sorriso e dallo sguardo che le rivolse, annuendo leggermente con il capo.

Quindi si allontanò, e Susan chiuse la porta dietro di sé.

(Maledetta Narnia)

Le sue valigie erano ai piedi del letto e così, senza neanche pensarci, cominciò a sistemare le sue cose: il riposo non faceva proprio per lei, ultimamente.

Mise la biancheria nei cassetti dei comodini e i vestiti nell'armadio, poi prese il bagaglio contenente i vecchi ricordi e lo trascinò vicino alla toeletta, proponendosi di porre lì tutte le fotografie. Proponendosi.

Magari è meglio lasciarle qui dentro, o magari dentro le profondità dell'armadio...

Arrivò lo stesso di fronte al mobile, alzò lo sguardo e si ritrovò riflessa in uno specchio. E notò, probabilmente per la prima volta in quattro mesi, il suo aspetto.

Ciò che vide avrebbe sconvolto la se stessa del prima: la giovane donna di fronte a lei non era più la stessa di un tempo. I suoi occhi erano freddi, vuoti, il suo viso troppo magro e pallido, i capelli spenti; le venne in mente dell'ultima volta che si era guardata allo specchio prima dell'incidente, una sera in cui doveva andare a una festa: aveva i capelli lucenti, pettinati a boccoli, che le ricadevano dolcemente ai lati delle guance, i contorni degli occhi erano scuri e le ciglia lunghe e nere, le labbra rosse come il sangue, che facevano risaltare la sua carnagione pallida, ma luminosa e sana, tutto secondo la moda del tempo.

Lì, a New York, si chiedeva dove fosse, quella persona: le sembrava così lontana da lei, nella sponda opposta al mare di dolore che l'aveva travolta, da stentare a credere che la fosse mai stata.

E capì, quanto fosse stato un errore diventarla in primo luogo, nell'illusione di poter in quel modo dimenticare...

Ma spieghiamo meglio.

Per tutti, prima, sembrava felice, allegra, spensierata, una ragazza che si godeva la vita (contrasto, rispetto a quel momento, di cui, per non piangere, era meglio ridere); c'era anche chi, come i suoi fratelli, avrebbe potuto considerarla sciocca e presuntuosa - ma la realtà era un altra.

Lei soffriva, soffriva anche allora, di un dolore così acuto e intenso che, a differenza di quest'altro, che non aveva fatto che svuotarla dall'interno, pulsava, pulsava sempre, all'altezza del suo cuore, provocandole fitte continue e pressanti, impossibili da eliminare. Non lo sopportava, non ci riusciva, era troppo, non sarebbe sopravvissuta se non avesse fatto quello che ha fatto, diventare una ragazza sciocca e presuntuosa annegando il suo dolore nell'oblio del divertimento sfrenato; in questo modo è riuscita a nasconderlo, mascherandolo, sotterrandolo nei meandri del suo essere, riuscendo a non farlo notare a nessuno, la sua famiglia in primis.

<< Ormai t'interessano solo vestiti, creme, rossetti e gran feste! Non ti riconosciamo più!! >>

Le accuse di suo fratello risuonavano ancora nella sua mente, così vivide che, se chiudeva gli occhi, quasi riusciva a immaginare di essere di nuovo nella sua camera a Londra, seduta di fronte a una toeletta simile a quella davanti alla quale si trovava in quel momento, con Peter in piedi dietro di lei, che le rimproverava il suo non voler far parte di quella specie di “Club di Narnia” che lui, Edmund, Lucy e tutti gli altri avevano creato per poter parlare liberamente di quel mondo ogni volta che ne avevano voglia.

Quel giorno stesso morì. Quelle furono le ultime parole che le disse.

Non voleva piangere, non di nuovo. Si concentrò sulla rabbia che la stava invadendo in quel momento...

Loro non hanno mai capito nulla, né a Narnia, né in Inghilterra!

...la verità era che loro non avrebbero mai potuto capire, perché fino al giorno della loro morte, non furono altro che dei bambini. Bambini troppo cresciuti, ancorati a quella vita che era più una favola - piuttosto che vita vera, dura, del tipo che stava sperimentando lei in quel momento - senza la capacità di andare avanti, in modo tale da capire che esiste altro, oltre quel mondo fatato, perfetto, dove non si ha un problema al mondo, ma che è anche dannatamente irreale.

La vera vita non è così, io lo so.

Ha cercato di farglielo capire, che dovevano fare come aveva detto Aslan, di vivere appieno nel nostro mondo ormai che il loro tempo a Narnia era finito, ma invece tutti quanti erano ossessionati. Costantemente, durante la giornata, il loro unico argomento di conversazione era sempre quello.

Narnia, Narnia e Narnia, sempre e solo Narnia.

Non avevano amici, non uscivano, non facevano nulla all'infuori di andare a scuola, e poi accusavano me di tentare di vivere la mia vita, di andare avanti e così lasciarmi alle spalle tutto quello che era successo lì!

Lei era stata felice a Narnia, forse più di tutti loro, ma poi quella felicità le era stata tolta, e adesso non avrebbe mai potuto riaverla indietro. (O si imponeva di pensare che mai l'avrebbe riavuta indietro, nonostante certe cose che sapeva di cui parleremo in seguito, perché se si fosse permessa di credere il contrario anche solo per un momento, e poi non fosse successo nulla...non voleva pensarci.)

Non capiva come loro potessero parlare, anche solo pensare!, a Narnia, continuamente, senza soffrire nella consapevolezza che non sarebbero più tornati.

A lei faceva troppo male.

Dimenticare era stato il suo scopo: per questo si era allontanata dai suoi fratelli e dalla loro ossessione per il passato, ed aveva abbracciato la filosofia del divertissement*.

Ci era quasi riuscita. Quasi. (Per niente.)

All'apparenza, sicuramente.

Ma fino all'incidente: quello ha cambiato tutto.

Non ha più potuto farlo; niente, da allora, ha avuto più senso, che ormai era impossibile alcun tentativo di oblio; ogni giorno, la stessa immagine era sul retro della sua mente, quell'immagine dei corpi martoriati e coperti di sangue dei suoi genitori, dei suoi fratelli, dei suoi amici, riversi a terra sulla banchina della stazione, coperti da lenzuoli bianchi, circondati da agenti di polizia, giornalisti e curiosi, tutti lì ad assistere alle urla disperate di una giovane donna che aveva improvvisamente e tragicamente perso tutta la sua famiglia... Sapeva che niente avrebbe mai potuto cancellare tutto questo, che non l'avrebbe mai dimenticato, come, in effetti, non aveva mai dimenticato il resto, nonostante tutti i suoi sforzi.

E' tutto inutile. Aveva capito anche questo; avrebbe dovuto convivere con il dolore per tutta la vita, con un dolore che era parte di lei, come un braccio o una gamba. Per quanto cercasse di infondersi speranza, per quanto si ripetesse dentro di lei, che lì, in America, sarebbe andata meglio, sarebbe stato diverso, che l'avrebbe superato, che avrebbe imparato a conviverci serenamente, col tempo - in fondo al cuore era fortemente convinta che mai sarebbe stata più felice, a nessun livello, e soprattutto mai più come lo era stata un tempo, a Narnia.

Ma mille e mille volte avrebbe preferito che mai ci fossero andati, lì, se pur ci fosse stata bene.

Perché se non fossero mai andati a Narnia, lei non avrebbe avuto il cuore spezzato dall'età di dodici anni, i suoi fratelli non sarebbero stati ossessionati da una vita passata e, di conseguenza, non si sarebbero mai trovati su quel treno che li avrebbe portati alla morte.

Perché sapeva - li aveva sentiti parlare - che quel giorno si trovavano tutti alla stazione per poter salvare non sapeva quale re, in pericolo per non sapeva quale cosa.

Narnia, la odiava.

Tutto, era colpa sua!

<< Maledetta Narnia!! >> si ritrovò a urlare, colpendo il ripiano della toeletta con tutti e due i pugni, facendosi male. Lacrime salate, di rabbia e dolore, le sgorgarono dagli occhi senza che potesse fermarle; appoggiò la testa sul duro legno, cercando di soffocare i singhiozzi che la scuotevano dall'interno.

<< Maledetta Narnia. >> ripeté ancora, questa volta in un sussurro.

Odi et amo**. Quanto era vero.

Perché Susan sapeva soprattutto che, se avesse potuto tornare indietro e se si fosse ritrovata di nuovo davanti a quell'armadio da cui tutto ebbe inizio, ci sarebbe entrata un'altra volta, e di corsa, anche, perché quello era stato il periodo più bello della sua vita, nonostante quello che poteva desiderava in quel momento (non esserci mai andata - perché non era del tutto vero.)

Quello che desiderava davvero era non essersene mai andata da lì.

Se avesse potuto tornare indietro e se avesse potuto scegliere in quale momento, avrebbe scelto il giorno della caccia al cervo e l'avrebbe impedita.

Ah, che prospettiva meravigliosa! Con quanta forza lo desiderava!

Ma era impossibile. E questo era altra fonte di dolore.

Chiuse gli occhi.

Chi potrebbe avere emozioni più ingarbugliate delle sue?

Amava Narnia, desiderava tornarci, e poi di non esserci mai andata, e poi di non essersene mai andata da lì, ma allo stesso tempo non avrebbe voluto essere lontana dai suoi genitori per sempre, e infine la odiava, perché aveva ucciso la sua famiglia.

Voleva dimenticarsene, ma non ci riusciva e non lo voleva davvero...

Susan era stanca. Ormai era stanca di lottare, di costringersi a dimenticare e di impedire ai ricordi di affiorarle nella mente. Era anche stanca di soffrire, ma questo non poteva essere cambiato.

Tutto quello che desiderava in quel momento era perdersi all'interno di quella valle incantata, anche se soltanto con la mente.

Si lasciò andare.
















Note dell'autrice

Ecco il capitolo cinque, che è uno dei miei preferiti. Molto importante per capire Susan (o almeno, la mia versione di lei).

Ringrazio di cuore le sei persone che mi seguono! (ma se magari vi fate sentire un po' di più, non mi offendo! :P)

Sono in una fase buona di ispirazione, quindi sono pronti anche i prossimi due capitoli, ma magari aspetterò un po' per metterli perché devo revisionarli – e saranno ambientati a Narnia, come moolti altri a venire, non so quanto ci vorrà per raccontare tutto quello che c'è da raccontare e quindi tornare poi a questo presente, ma alla fine ci si ritornerà perché qui c'è tuuutta un'altra storia...(ovviamente, se no a che scopo iniziare da qui?)

Intanto a presto,

le recensioni sono fatte di zucchero, quindi se non volete che svenga...

Daughter of the Lake

   
 
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