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Autore: Sarck    07/09/2012    1 recensioni
[Storia scritta sulle note di "How to save a life" dei The Fray]
Quel giorno non si era ancora fatto. Si sentiva dalle urla mute e strazianti che abbandonavano il suo corpo stanco, infrangendosi sulle pareti di quella casa troppo sporca e trascurata.
Non riuscii a mantenere per troppo tempo l’attenzione sui tratti del suo volto distrutto, così guardai fuori dalla finestra.
Il paesaggio si presentò con tutti i sui colori allegri davanti alla mia vista. Come a ricordarmi che se non c’è qui la felicità, là fuori, da qualche parte, si è ancora in tempo per trovarla.
Mi passai le dita sugli occhi, sfregandoli leggermente e finalmente parlai.
“Ho chiamato una comunità di recupero. Ti aiuterà a disintossicarti da questo schifo. Vengono a prenderti domani mattina”
Genere: Drammatico, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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How to save a life



C’è confusione tra queste mura color panna.
Erano sempre state rassicuranti quelle pareti dai toni chiari. Anni prima mi piaceva rimanere a fissarle spensierato, in uno di quei pomeriggio di nulla assoluto. Ma in questo momento il colore della vernice è impregnato dalla puzza di una storia finita male.
Una signora dagli occhi verdi si trova in mezzo alla sala e parla velocemente a un commissario con la mano che stringe convulsamente il lembo ormai sgualcito della sua camicetta a fiori.
I medici, stretti nei lori abiti ben stirati e dal forte odore di disinfettante, si spostano freneticamente per tutta la casa urlando qualcosa ai colleghi.
Due poliziotti sono fermi fuori dalla camera e tengono sotto controllo l’intera situazione oltre le lenti scure dei loro occhiali da sole.
Fuori dalla porta la gente curiosa si sta radunando. Sento il loro parlare, i loro commenti e il loro pianto.
È tutto un mescolarsi di voci, singhiozzi, piedi che si spostano e lacrime.
Forse i singhiozzi sono i miei. Forse sono io questo ragazzo accovacciato a terra che quattro sconosciuti cercano di calmare.
Posso essere io, posso non esserlo. Ha importanza?
Nel momento in cui il tuo migliore amico è steso a terra, sulle piastrelle sporche e fredde del suo stesso appartamento, col cuore fermo, qual cos’altro ha importanza?
Vorrei che le persone si allontanassero. Che quegli estranei la smettessero di mettere a soqquadro l’appartamento del mio amico. Vorrei che la confusione scendesse di volume, che si spegnesse.
Magari, col silenzio assoluto, riuscirei a sentire il lieve battito del suo cuore.
Ma non è possibile. Riccardo si è suicidato.
 
 

Tirai su la lampo della felpa, riparando il petto dal lieve vento primaverile.
Iridi fisse sul pulsante argento del citofono, mani bloccate nelle tasche dei pantaloni e scarpe sporche di fango inchiodate alle mattonelle dei gradini.
Così mi presentati per l’ultima volta davanti alla casa del mio più grande amico.
“Max! Ti apro, entra pure” la voce uscì gracchiante dall’apparecchio appeso al muro e fu seguita da un '
biip',segno che il cancello si era aperto.
Attraversai la sottile striscia di giardino, da un paio d’anni ormai incolto e rovinato, che circondava la casa.
Appena fui davanti alla porta di legno mi aprì Riccardo. Indossava dei jeans scoloriti e una maglietta blu che gli ricadeva troppo larga sul busto.
Si sporse un po’ per abbracciarmi fraterno, con qualche pacca sulla schiena. Un forte odore di chiuso, alcol e fumo mi pizzicò le narici. Sentii gli occhi pungermi ma non capii se fosse per il mescolarsi di odori troppo forti o per il fatto che ciò testimoniasse solo quanto lui in realtà stesse male. Probabilmente entrambe le cose.
“Dai vieni, vuoi qualcosa da bere?” Si richiuse la porta dietro le spalle e tornò a guardarmi.
Non lo vedevo da tre giorni, possibile che mi sembrasse ancora più dimagrito?
Scossi la testa rispondendo con un “No, grazie”, facendo finta di non notare i segni violacei che gli contornavano gli occhi.
Ero ancora in piedi al centro del salotto, con le unghie di una mano che grattavano distrattamente le dita dell’altra e la testa che già iniziava a vorticare per l’odore troppo intenso di erba fumata e panni sporchi sparsi per casa.
C’era stano un periodo in cui quell’appartamento era sempre avvolto dalla fragranza accogliente di quei deodoranti per ambienti. Erano periodi felici. Rallegrati da pomeriggi passati davanti alla console e bottiglie di birra sul tavolino.
Schiusi le labbra e le parole fecero fatica ad uscire, si intrappolavano tra i denti come insetti nella tela di un ragno.
“Abbiamo bisogno di parlare”  e probabilmente era anche la prima frase completa che gli rivolgevo.
Lui spostò con un piede una maglietta nera che occupava le mattonelle del pavimento.
“Puoi aspettare un attimo? Devo solo andare di sopra e prendere della roba…” Le sue gambe già si stavano muovendo, scavalcando i cocci di una bottiglia rotta – che prima doveva aver contenuto chissà quale super alcolico. Mi protesi verso di lui, evitando un vetro, e gli afferrai un braccio facendolo girare verso di me. Non lo guardai negli occhi, mantenni l’attenzione sul mio palmo che circondava quasi completamente il suo braccio olivastro.
“Puoi farlo dopo. Ora siediti, è solo una chiacchierata”

 
 

Step one you say we need to talk 
He walks you say sit down it's just a talk 


 

Non obbiettò, non fece scenate. Qualcosa nel mio sguardo gli aveva forse suggerito di obbedire.
Si abbandonò con un tonfo sul divano bordò e una nuvoletta di polvere si alzò dal punto in cui era seduto. Mi guardò dal basso, con un lieve sorriso a incurvargli le labbra secche e quasi violacee.
Nonostante tutti i problemi che gli crollavano addosso come pioggia di mattoni riusciva ancora a trovare uno spiraglio, sotto le macerie, per sorridermi.
Eravamo affezionali l’uno all’altro, come avrei potuto voltargli le spalle nel momento più buio della sua vita? C’ero sempre stato per lui. Ma evidentemente aveva sentito il bisogno di rifugiarsi anche in qual cos’altro, aggiungendo mattoni su mattoni.
Osservai i suoi occhi: familiari, amichevoli, complici. Quelle iridi azzurre le avevo sempre definite bellissime. Ma ora erano contornate da un reticolato di fili sottilissimi e rossi. La purezza del bianco era stata sporcata, creando un contrasto di colori talmente forte, da far provare dolore al petto di chi lo guardava e sapeva che era a causa della droga.
Quel giorno non si era ancora fatto. Si sentiva dalle urla mute e strazianti che abbandonavano il suo corpo stanco, infrangendosi sulle pareti di quella casa troppo sporca e trascurata.
Non riuscii a mantenere per troppo tempo l’attenzione sui tratti del suo volto distrutto, così guardai fuori dalla finestra.
 Il paesaggio si presentò con tutti i sui colori allegri davanti alla mia vista. Come a ricordarmi che se non c’è qui la felicità, là fuori, da qualche parte, si è ancora in tempo per trovarla.
Mi passai le dita sugli occhi, sfregandoli leggermente e finalmente parlai.
“Ho chiamato una comunità di recupero. Ti aiuterà a disintossicarti da questo schifo. Vengono a prenderti domani mattina”

 
 

He smiles politely back at you 
You stare politely right on through 
Some sort of window to your right 
As he goes left and you stay right 

 
 
Quel silenzio era forza di gravità che mi piombava addosso e mi schiacciava sotto al suo peso.
Il mio respiro era l’unica cosa che si sentiva, oltre ai rumori provenienti  fuori dalla finestra. Stava trattenendo il fiato?
Non volli vedere la sua reazione. Continuai a tenere le dita premute sulle palpebre serrate, sperando che una volta sollevate la situazione davanti a me fosse cambiata.
Se mi impegnavo, riuscivo ancora a ricordarmi i pomeriggi tranquilli di due anni fa passati con Riccardo. Bastava concentrarsi un poco e avrei sentito il suono della sua risata, il tintinnio dei cucchiaini dentro alle nostre mattiniere tazze di caffè.
Erano quelli i momenti a cui mi ero aggrappato quando avevo fatto quella telefonata. Volevo che lui tornasse come prima. Volevo che stesse bene come prima.
Dovetti riaprire gli occhi quando sentii uno sfruscio, mentre le braccia mi ricadevano molli lungo i fianchi.
Si era alzato dal divano, con le gambe leggermente tremanti che lo tenevano su a fatica. Cercai con disperazione il suo sguardo, alla ricerca di una qualche reazione. Ma quando alzò di scatto la testa per guardarmi dritto negli occhi, non volli vederla.
Il suo volto era una maschera. Così fermo da sembrare finto. Se lo avessi anche solo sfiorato con un polpastrello di sarebbe sgretolato sotto al mio tocco, come un terreno friabile soggetto a frane.
Probabilmente non mossi un muscolo proprio perché non sarei mai riuscito a vederlo franare sotto ai miei occhi. Nemmeno quando con voce ferma mi disse “Non dovevi farlo. Pensavo stessi dalla mia parte”.
Non avrei provato sensi di colpa.
Se lo avevo fatto era perché a lui ci tenevo. Volevo che tornasse a stare bene.
“Esci.” Mi ordinò. Le nocche strette a pugno, la voce bassa e il tono ghiacciato.
Ma io, con le stesse mani con cui avevo digitato il numero di telefono che ora prudevano, lasciate mollemente lungo i fianchi, scossi la testa.
Quello non era il mio migliore amico.
Quello era quello che ne rimaneva del mio migliore amico.
Perché ero venuto?

 
 

Between the lines of fear and blame 
You begin to wonder why you came 

 
 
Mi sollevo da terra puntellandomi sulle gambe, senza asciugare le lacrime che mi bagnano calde il viso.
I piedi si muovono da soli, raschiando contro il pavimento, incuranti del viavai di gente, dei rumori, degli ammonimenti.
Voglio solo rivederlo ancora. Rivedere il suo corpo freddo e fermo e provare a scaldarlo con le mie lacrime.
È l’unica cosa che mi rimane da fare.
 
 

Where did I go wrong, I lost a friend 
Somewhere along in the bitterness 
And I would have stayed up with you all night 
Had I known how to save a life 

 
 
No, non volevo andarmene.
“Aspetta. Non dobbiamo salutarci così”
Lo sguardo fulminante e pieno di disprezzo che mi riservò mi fece accartocciare le viscere. Ma poi, illogicamente, mi avvicinai e lo chiusi in un abbraccio che forse serviva più a me che a lui. Cercò di divincolarsi, di tirarmi pugni e di scostarsi. Ma io ero più grande di lui e lo tenni fermo, lasciando che sfogasse la rabbia, che mi insultasse e che gridasse.
Fu ciò che foce dopo, una volta che si calmò e smise di lottare, a farmi sentire il gusto amaro della tristezza sulla lingua.
Pianse.
Io allora gli sussurrai di come gli volessi bene, che era il mio migliore amico, più di un fratello. Gli dissi che sarebbe andato tutto bene. Una volta pulito e passato tutto sarebbe tornato a casa e avremmo ordinato la pizza ai fungi, la sua preferita, e noleggiato un film come ai vecchi tempi.

 
 

Let him know that you know best 
Cause after all you do know best 
Try to slip past his defense 
Without granting innocence 

 
 
“Non ce la farò” sussurrò con voce spezzata, ancora ancorato al mio petto.
“Sì invece, se vuoi farcela.”
Annuì e si staccò da me. Lo lascai andare e fissai il suo sorriso triste.
“Perché glielo hai detto e li hai chiamati. Potevamo stare zitti, continuare così. Perché?” chiese semplicemente in un filo di voce. Non mi stupii; era da un po’ che aveva smesso di pensare lucidamente. L’unica cosa lucida in quel ragazzo, erano gli occhi annegati da lacrime di follia.
Mi parve un bambino. Così piccolo e con la mente annebbiata. Non avrei lasciato che continuasse a rovinarsi.
“Non puoi, lo sai che è sbagliato”
Si lasciò cadere di nuovo sul divano, prendendosi la testa tra le mani.
“Devi finirla qui con questa cosa. Puoi farlo. Fatti aiutare.” Continuai.
Ma ormai stava scuotendo energicamente la testa, con le dita lunghe e leggermente tremanti intrecciate ai capelli biondo cenere.
Sperai che mi stesse ascoltando.
Volevo che le mie parole gli arrivassero e si marchiassero sulla sua pelle. Così ogni volte le avrebbe riviste. Perché sarebbero state lì, sotto ai suoi occhi, a ricordargli l’obbiettivo.

 
 

Lay down a list of what is wrong 
The things you've told him all along 
And pray to God he hears you 
And pray to God he hears you 

 
 
Sollevò lo sguardo e dalla sua espressione mi parve di vederlo presente e consapevole della situazione.
Così, quando mi chiese se potevo portagli la sua felpa preferita, quella verde con su disegnato un smile, acconsentii. Mi parve il minimo. Volevo che portasse qualcosa di mio nel centro di riabilitazione, lo avrebbe aiutato.
 
Ma se avessi saputo quali erano le sue intenzioni non sarei mai uscito da quella casa.
 
Occhi sulla strada, mani nelle tasche dei pantaloni, scarpe sporche sul marciapiede, sorriso sulle labbra e consapevolezza che tutto sarebbe andato bene.
Così mi allontanai dalla casa del mio migliore amico.

 
 

“Dobbiamo portare via il corpo” è la prima frase che mi rivolge il commissario.
Annuisco lasciando la mano fredda di Riccardo. Da quanto la stringevo?
Con enorme sforzo mi alzo, spostandomi di qualche metro.
Lo coprono con un telo azzurro. Loro non lo sapevano, ma a lui in era mai piaciuto l’azzurro. Adorava il verde invece.
Lo caricano su una barella e lo portano fuori dalla camera. Fuori dalla mia visuale.
Ricaccio in dentro altre lacrime e mi dirigo verso la sua scrivania, su cui studiavamo insieme. La foto è proprio lì, in evidenza. I nostri volti sorridenti radiosi immortalati e incorniciati.
La prendo e me la tengo stretta.
Poi esco dalla camera, con il sorrido di Riccardo premuto contro il petto.
 

 

 Where did I go wrong, I lost a friend 
Somewhere along in the bitterness 
And I would have stayed up with you all night 
Had I known how to save a life 


 





The End.
Ehi, spero solo che vi sia piaciuta.
Spero che in qualche modo vi abbiato toccato.
Spero vi abbia fatto riflettere.
L'ho scritta in onore a questa canzone stupenda dei The Fray. è molto famosa, probabilmente la conoscete. A me mette i brividi.
L'argomento che ho scelto, quello della droga, è molto delicato e abbastanza diffuso. Credo sia un problema molto vicino ai ragazzi d'oggi e ho voluto rappresentalo in questo racconto.
Se volete recensire, per dirmi cosa dovrei migliorare o più semplicemente cosa vi piace ne sarei felice :)
Grazie per avere letto.
Ps: se trovate errori avvertitemi ;)

Un abbraccio
da Sarck

 


 

  
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