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Autore: DarkPenn    25/03/2007    4 recensioni
Nello scenario di Neo Tokyo-3, tra intrighi, sotterfugi, combattimenti e lacrime, potrà mai l'Amore sciogliere il ghiaccio del suo cuore? E forse anche pacificare l'animo tormentato di una donna? Oppure la soluzione sarà solo nel Progetto di Perfezionamento dell'uomo? [Attenzione: Prossimamente vi saranno delle scene contenenti spoiler per chi non ha visto il film 'The End Of Evangelion'.]
Genere: Romantico, Azione, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 24

CAPITOLO 24

 

Padri

 

 

 

 

Quando Kernberg riprese conoscenza si rese conto di avere un tremendo mal di testa, e di non trovarsi più nel deserto. L’ultima cosa che si ricordava era il sedicente professor Takazumi che lo colpiva con un taser, sotto gli occhi del Recuperatore Delta. Poi doveva aver perso i sensi e doveva essere trasportato altrove, poiché l’ambiente in cui si trovava era completamente diverso dalla Palestina. Sebbene avesse ancora indosso i suoi abiti, era stato accuratamente ripulito dalla polvere del deserto e giaceva su un letto a una piazza, dalle coperte linde che erano state insozzate dallo sporco che non era stato possibile rimuovere dal suo corpo. Il letto si trovava lungo una parete di una stanza cubica e nera, priva di qualsiasi caratteristica tranne una porta di metallo con una minuscola feritoia in alto, da cui filtrava una debole luce, e un minuscolo WC grigio in un angolo. Le scarpe gli erano state tolte e giacevano ai piedi del letto, mentre la sua borsa non era in vista. Nell’aria aleggiava uno strano odore, come di disinfettante, ma il silenzio era così opprimente che l’uomo si sentì costretto a sollevarsi a sedere facendo frusciare volontariamente le lenzuola e gemendo, quasi per confermarsi di non essere rimasto sordo.

Fuori dalla porta si udì un brusio indistinto, segno che probabilmente quella cella (poiché Kernberg era quasi sicuro che di una cella si trattasse) era sorvegliata. Guardingo, indossò le scarpe e si alzò.

“Pretendo di parlare con qualcuno,” comandò, con tutta l’autorità che riusciva ad esprimere in quel momento, che a dire la verità non doveva essere eccessiva. Tuttavia udì dei passi sommessi allontanarsi, senza dargli una risposta.

Rimase in attesa per più di un’ora, un’ora in cui un ostinato silenzio si opponeva costantemente alle sue pressanti richieste, di qualsiasi genere esse fossero. Stava per decidersi a picchiare violentemente i pugni contro la porta, quando sentì nuovamente dei passi, questa volta in avvicinamento. Guardingo rimase in attesa. Poi una voce roca si espresse in una lingua che lo studioso dapprima non riuscì ad identificare. Quando si rese conto di che linguaggio si trattasse gli girò la testa: qualcuno si era appena espresso in aramaico antico, sebbene con un assurdo accento tedesco, ordinando a qualcun altro di aprire la porta e tenersi pronto. La serratura scattò all’improvviso ed il pannello di metallo scivolò nella parete, mostrando allo sconcertato professore un corridoio scuro fiocamente illuminato, le cui pareti, pavimento e soffitto sembravano un pezzo unico di un materiale simile alla plastica, ripiegato su se stesso fino ad assumere una forma estremamente regolare. Lui non poteva saperlo, ma sospettava che se avesse misurato le proporzioni di quell’ambiente avrebbe rilevato una concordanza quasi perfetta con qualche proporzione matematica, come la sezione aurea. Tutto ciò denotava una personalità attenta ai particolari in modo maniacale, ossessivo. Per quanto si sforzasse, il professore non notò sul pavimento lucido alcuna traccia di polvere o sporcizia. Ai lati dell’uscio si trovavano due soldati, in tutto e per tutto simili a quelli che lo avevano fermato nel deserto, impassibili nelle loro uniformi nere e lucidate, dalla visiera che ne celava le fattezze. Entrambi reggevano un fucile d’assalto dall’aspetto moderno, ma il cui modello Kernberg non riuscì ad identificare. Tra loro si trovava un uomo alto e magro, all’apparenza più anziano dello scienziato tedesco, che lo guardava con un sorriso enigmatico, a metà tra il benevolo e il derisorio. Era quasi calvo, salvo una striscia di capelli grigi lasciati piuttosto lunghi sulla nuca, ed aveva un naso molto lungo, quasi sproporzionato. Indossava una sorta di uniforme, anche se Kernberg non riuscì a capire a quale organizzazione si riferisse.

“Finalmente ci incontriamo, professore,” esordì il nuovo venuto, in un tedesco così perfetto da risultare evidentemente come la sua lingua madre. “La prego di seguirmi.”

Kernberg non si scompose. “Se lei è il capo di questa associazione criminosa che mi ha rapito, la informo che si è appena inimicato il governo tedesco. Pretendo una spiegazione a questo stato di cose.

L’altro si limitò a sorridere maggiormente. “Le assicuro che il governo tedesco non ha alcun potere su di me, semmai è vero il contrario. E mi sembra anche superfluo farle notare che lei non è nella condizione di poter pretendere alcunché. Ora, se vuole gentilmente seguirmi…”

Con un gesto cortese, l’uomo gli fece cenno di accompagnarlo verso la parte alla propria destra del corridoio. Decisamente spaventato, ma desideroso di non darlo affatto a notare, Kernberg fece un passo avanti, fuori dalla porta, che si chiuse subito alle sue spalle. Da entrambi i lati il corridoio proseguiva apparentemente all’infinito, intervallato regolararmente da fioche lampade puntate verso il soffitto, sicché l’illuminazione generale risultava scarsa. Il suo ‘ospite’ lo stava aspettando immobile, con il suo odioso sorriso sulle labbra, per cui lo studioso non poté fare a meno di avviarsi nella direzione da lui indicata. Dietro di loro, i due soldati li seguivano ad una certa distanza, muti.

Cosa volete da me?” chiese Kernberg, senza preamboli.

“Lo scoprirà presto, professore,” fu la risposta del suo interlocutore.

“Ma chi siete?” proseguì lo scienziato, desideroso di ottenere tutte le informazioni che poteva prima di pensare ad un possibile piano di fuga. L’altro esitò un po’ prima di rispondere, e quando lo fece dal suo tono traspariva una nota di ironia.

“Può considerarci un’associazione per la preservazione del sapere,” rispose. “Ovviamente, noi non siamo solo questo, ma gli altri nostri interessi non la riguardano.

Mercanti di reperti archeologici, pensò Kernberg con disprezzo. In passato aveva già avuto a che fare con simile feccia, che si accaparrava gli oggetti più antichi e preziosi per venderli al miglior offerente, che fosse un ente pubblico o un collezionista privato.

E voi preservate il sapere distruggendo reperti dal valore inestimabile?” chiese provocatoriamente, ricordando le parole di Takazumi. L’altro questa volta rise apertamente.

“Professor Kernberg, un uomo come lei dovrebbe capire l’importanza della pragmatica. Avere una copia perfettamente fedele ma più versatile dell’originale è molto meglio che detenere l’originale stesso, no?”

Lo studioso non rispose. I mercanti di reperti con cui aveva avuto a che fare fino ad allora erano più interessati ai soldi che potevano ricavare da una vendita, rispetto alle informazioni contenute in un oggetto, e d’altra parte né i collezionisti né le fondazioni più prive di scrupoli avrebbero accettato una semplice copia di un manufatto antico.

Dove siamo?” proseguì, continuando a raccogliere informazioni e accantonando per un momento i suoi dubbi.

“In un certo senso, non siamo in nessun luogo. L’uomo dal lungo naso guardò con aperto divertimento l’espressione sconcertata apparsa sul volto di Kernberg, e si godette per un momento quell’attimo di disorientamento prima di proseguire. “L’installazione in cui ci troviamo si trova alcuni chilometri sottoterra, al di fuori della legislazione di qualsiasi stato, e nessuno ne conosce l’ubicazione esatta. Nessuno tranne noi, ovviamente.”

Kernberg non aveva mai creduto alle leggende riguardanti l’Area 51, ma il ricordare tali dicerie proprio in quel momento gli fece scendere un brivido freddo lungo la schiena.

“Non vedo l’ora di sapere per quale motivo gente come voi ha bisogno di uno come me,” disse beffardo, anche se in realtà avrebbe preferito fuggire al più presto senza sapere nulla di tutto ciò. “Signor…?”

Hillmann,” si presentò il suo interlocutore, senza dubbio fornendo un nome falso. “Può chiamarmi Hillmann. Comunque, siamo quasi arrivati.”

Sul lato sinistro del corridoio si apriva un arco, che conduceva, dopo un breve tratto, ad una massiccia porta metallica, sorvegliata da due soldati, che si misero sull’attenti non appena li videro. Kernberg notò come la porta a doppio battente che sbarrava loro il passo fosse simile a quelle dei caveau delle banche: con il suo aspetto massiccio dava infatti l’impressione che custodisse una grande ricchezza. Hillmann lo toccò sulla spalla, fermamente, affinché si fermasse mentre lui proseguiva a ridosso della porta stessa. Quando si fermò e si voltò il suo sorriso era sparito, sostituito da un’espressione seria.

“Professor Kernberg,” iniziò, “centinaia di persone morirebbero, ed altre centinaia ucciderebbero per oltrepassare questa porta. A lei non verrà richiesto né l’una né l’altra cosa: si ritenga una persona fortunata.”

Lo studioso annuì, contagiato dal senso di solennità delle parole dell’altro uomo. Doveva essere stato un abile oratore in passato, sebbene, per quanto si sforzasse, Kernberg non riusciva a ricordare alcuna occasione pubblica in cui l’avesse potuto vedere.

Hillmann passò una sorta di tesserino su un rilevatore ottico, e un rumore elettronico confermò la lettura di esso. In risposta a ciò i due battenti scivolarono con un ronzio all’interno delle pareti, liberando il passaggio. Soffocando un’esclamazione, lo studioso tedesco notò che quei pannelli erano spessi almeno un metro, risultando praticamente impossibili da forzare. Con un brivido, si rese conto che quelle porte erano state costruite per resistere anche ad un attacco portato con mezzi non convenzionali. Armi nucleari, forse anche più potenti.

Hillmann varcò la soglia e fece cenno all’altro tedesco di seguirlo. Quando anch’egli ebbe superato i battenti, essi cominciarono a richiudersi, lasciando fuori i quattro soldati.

“Non porta con sé i suoi cani da guardia?” commentò, sprezzante, mentre la pesantissima porta si chiudeva con un rumore secco, isolando l’ambiente.

“Non possono entrare in questo luogo,” rispose l’altro. “Come avrà intuito, sono in pochi ad averne l’autorizzazione. D’altra parte, anche se decidesse di aggredirmi per fuggire, la informo che questa sezione è del tutto isolata dall’esterno, ed ogni tentativo di abbandonarla senza il mio permesso o quello di uno dei miei colleghi verrà punito severamente. Le consiglio di collaborare, finché tutto questo non sarà finito.”

Nella propria mente Kernberg imprecò di nuovo: forse quell’individuo aveva interpretato correttamente le sue domande, comprendendo la sua intenzione di fuggire. Se le sue parole corrispondevano a verità, tuttavia, la sua speranza di abbandonare quel luogo non appena fosse riuscito a liberarsi dell’attenzione dei suoi carcerieri si sarebbe rivelata vana.

Rifiutando di lasciarsi sormontare dallo sconforto, seguì risolutamente il suo accompagnatore scrutando l’ambiente circostante, immerso in una fastidiosa semioscurità che celava i dettagli e confondeva i contorni. A prima vista si sarebbe detta un’ampia cavità naturale, ma concentrandosi Kernberg riuscì a notare come in realtà si trattasse di una vastissima sala, il più grande ambiente chiuso che avesse mai visto. Dal bordo del pavimento pentagonale irradiava una linea di luce azzurra, che si rifletteva (oppure si trattava di un’altra fonte di luce?) sul soffitto, situato ad almeno trenta metri sopra la sua testa, rilucendo all’interno dell’ambiente e dando l’impressione che ovunque si stendesse una lieve nebbiolina. Sulla parete destra più vicina al lato dal quale Kernberg era entrato si aprivano numerose porte a vetri, che davano su ambienti meglio illuminati e ricchi di scaffali, sui quali si alternavano apparentemente senza ordine rotoli di carta o pergamena dall’aria molto antica con incunaboli[1] medievali, volumi moderni e schedari dotati di etichette che, a causa della distanza, risultavano illeggibili. Qua e là tra gli scaffali si aggiravano figure in camice bianco, prelevando con cura i documenti o riponendoli. Ognuna di quelle persone, oltre al camice integrale, indossava anche una mascherina e degli occhiali, come si muovessero in un ambiente sterile.

Sulla parete di sinistra invece dominava una balconata che correva lungo tutto il muro, sorretta da alcuni pilastri a base quadrata, di colore nero. Sotto il porticato che si veniva così a formare si apriva una porta simile a quella d’entrata, sebbene dall’aria meno massiccia. Sulla piattaforma invece spiccava una luce più adeguata al lavoro, e sembravano essere disposte numerose consolle, attorno a cui si aggiravano alcuni individui, che a causa della distanza sembravano minuscole formiche intente nelle mansioni quotidiane per soddisfare la loro regina.

La parete alle sue spalle, invece, risultava completamente spoglia ed oscura, ad eccezione della porta da cui era entrato, e sembrava incombere con una massa inconcepibilmente grande sull’ambiente, come una terribile bestia in agguato. All’incirca a metà del pavimento si aprivano due giganteschi e profondi pozzi oscuri, che si estendevano dai due lati rimanenti della sala ad uno stretto ponte dotato di corrimano che si protendeva a dividerli. Le pareti delle due cavità erano costellate di spie rosse dalla funzione sconosciuta, che però sprofondavano perdendosi in lontananza. Dai muri che costituivano le pareti più lontane dei pozzi sporgevano dei rigonfiamenti regolari, su cui scorreva la balconata di sinistra, incurvandosi e circondandoli. In questo modo la parte superiore delle sporgenze era nascosta alla vista di Kernberg, che riusciva solo a vederne la sommità: due protuberanze argentee e slanciate, dalle forme regolari, che però all’uomo che le osservava suggerirono un senso di minaccia incombente, come le garguglie sulle cattedrali francesi che un tempo aveva visitato, prima del Second Impact.

In fondo al ponte che lui e Hillmann stavano attraversando si intravedeva una porta rosso scuro le cui dimensioni ridotte apparivano quasi ridicole in mezzo a tanta vastità. Sopra ad essa, alla confluenza delle due pareti laterali e in corrispondenza del vertice del pentagono che fungeva da pianta della stanza, emergeva dal materiale plastico, che sembrava costituire l’unico tipo di superficie utilizzata in quella base sotterranea, una terza sporgenza, gemella delle due che la fiancheggiavano, che si elevava fino quasi all’alto soffitto ed ospitava un’altra struttura argentea, simile alle altre ma che le sovrastava di almeno dieci metri. Sembrava incombere sulla stanza sottostante come la scura parete posteriore, costituendo un potente contrasto.

Ma la cosa più sconvolgente che Kernberg vide in quell’ambiente fu un ciclopico disegno rappresentato sul soffitto pentagonale: iscritto in esso c’era una fascia luminosa, che a sua volta comprendeva al suo interno altre otto fasce via via più piccole e concentriche, che culminavano in un unico cerchio splendente della solita luce azzurra. Scure, all’interno di quelle aree luminose, risaltavano alcune scritte, che lo studioso, aguzzando gli occhi, identificò come parole ebraiche. Altre scritte simili, ma al contrario luminose, riempivano le aree scure del soffitto, rendendo il disegno incredibilmente complesso. Per poco l’osservatore non si accorse nemmeno che, iscritto all’interno del cerchio luminoso più piccolo, vi era una figura umana stilizzata, a braccia e gambe aperte, le cui estremità erano orientate in corrispondenza dei cinque vertici del soffitto [2].

Giunti sulla soglia dalla porta rossa, Hillmann si fermò voltandosi serio verso Kernberg, che da parte sua aveva attraversato la sala a bocca aperta per lo stupore. Ignorando completamente la sua espressione, il sedicente mercante di reperti attese immobile di riguadagnare la sua attenzione.

“Quando avrà oltrepassato questa soglia,” cominciò, quando l’altro portò su di lui i suoi occhi meravigliati, “dovrà dimenticare tutto ciò che ha imparato sulla storia dell’uomo.”

Dopo aver deglutito, Kernberg annuì, facendo capire a Hillmann che aveva ben compreso le sue parole, e quest’ultimo inserì la sua tessera in una fessura accanto alla maniglia. Quando la luce rossa che la caratterizzava divenne verde l’uomo girò il pomello e aprì il battente. Kernberg lo seguì nell’oscurità.

 

 

 

 

Al ristorante, uno stanco cameriere accolse Rei e Ritsuko, indicando uno dei pochi tavoli liberi, accanto alla vetrina. Dopo averle accompagnate, si scusò per il ritardo con cui, prevedibilmente, sarebbero state servite, vista l’ora molto tarda. La scienziata disse che non importava e che avrebbero atteso quanto si sarebbe reso necessario.

Dovettero aspettare quasi un’ora, e il locale nel frattempo si era pressoché svuotato, quando arrivarono il trancio di pescespada per Rei e la pizza margherita per Ritsuko. Erano le due di notte.

“Mi dispiace di averti trattenuto fino a quest’ora,” si scusò la donna, addentando la prima fetta di pizza. La ragazza invece scosse il capo. “Non importa. Il dovere è dovere.

“Già, ed oltretutto con il lavoro di oggi credo che non ci manchi molto.”

“Bene, così avrò più tempo da passare con Gabriel. Ultimamente ci vediamo molto poco…”

Ritsuko sorrise: non parlava così amichevolmente con qualcuno dai tempi dell’università, eccezion fatta per Misato. Il cambiamento di Rei era più che evidente: ora non sembravano più una ragazza e la sua tutrice, ma erano più simili a due vecchie amiche. A dire il vero, alla Dottoressa Akagi la cosa non dispiaceva,

“A proposito, come va tra voi?”

“Tra me e Gabriel? Beh, bene. A parte questi giorni in cui era preoccupato per le conseguenze della contaminazione stiamo bene. Ed quando finiremo il nostro lavoro alla base potremo finalmente recuperare il tempo perduto.”

“Ricordate però che avete quattordici anni, d’accordo?”

Rei la guardò interrogativa. “Cosa intende?”

“Beh… Non accelerate i tempi. Per certe cose voi non avete ancora l’età, sei d’accordo, vero?”

La ragazza arrossì all’istante. “Ma si figuri!” esclamò, scuotendo la testa, poi aggiunse “non ci abbiamo mai neanche pensato!”

Era una menzogna, ma quel che importava era che Ritsuko non sapesse cos’era accaduto alle terme.

La cena proseguì senza intoppi finché, verso le tre di notte, la scienziata e la First Children non abbandonarono il locale, dopo che la prima ebbe pagato il conto e lasciato anche una mancia al cameriere, ormai praticamente addormentato, che le aveva servite nonostante il sonno.

In auto continuarono a parlare del più e del meno, mentre Ritsuko accompagnava Rei verso casa. Ad un certo punto la ragazza si fece pensierosa, poi cambiò decisamente argomento.

“Dottoressa, per caso è ingrassata?”

Quella domanda colpì la donna come un pugno nello stomaco sferrato da Misato quando era ubriaca. L’automobile bruciò anche un semaforo rosso, tanto la guidatrice si era turbata. Certo, Rei era cambiata, ma doveva ancora imparare alcune norme di convivenza civile.

“Rei…” iniziò, mentre riprendeva il controllo del veicolo, “ci sono delle cose che devi ancora imparare…”

La ragazza la guardò non del tutto convinta. “Di cosa si tratta?”

“Generalmente, ad una donna non si fa notare che è ingrassata…”

Ma è la verità!” protestò Rei, indicando l’addome di Ritsuko. “Guardi lei stessa.”

La donna guardò, e per poco non perse di nuovo il controllo della vettura. Non ci aveva mai fatto caso in quei giorni, in cui indossava quasi sempre il camice e quando non lo faceva era troppo stremata per osservare il proprio corpo, ma effettivamente il suo addome era un po’ gonfio, abbastanza da mostrare una sottile striscia di pelle sotto la maglietta leggera che indossava.

 

No… Non è possibile… Come posso essere gonfia… Quando Misato beve birra tutti i momenti ed è ancora in forma??

 

“Che strano,” disse la donna, celando la propria preoccupazione. “Eppure ho addirittura diminuito la mia dose quotidiana di cibo, da quando abbiamo cominciato la fase finale della progettazione del Dummy System…”

Nonostante il tentativo di Ritsuko, Rei si accorse del suo turbamento, e decise di mettersi alla prova facendo una cosa che raramente aveva fatto di sua sponte: doveva cercare di tirarle su il morale. Arrovellandosi il cervello per trovare una battuta che fosse divertente, guardò la sua accompagnatrice, in cerca di ispirazione. Quest’ultima, distrattamente, si passò una mano sull’addome, come la ragazza aveva visto fare ad alcune donne incinte durante un documentario che le avevano mostrato a scuola, ed a quel punto seppe cosa dire.

“Non si crucci, Dottoressa,” iniziò, sorridendo scherzosa. “Magari non è grasso: è solo incinta!”

La scienziata rise, e stava per farle notare che non era affatto possibile, quando il suo cervello elaborò l’informazione e le fornì una possibilità che fino ad allora le era sfuggita. Istintivamente il sorriso le morì sulle labbra e bruciò quasi un secondo semaforo, tanto si era estraniata nei propri pensieri.

 

Nausea… Pancetta sporgente… Ciclo assente da un mese… no… da PRIMA!! Sono almeno tre mesi! Da quando io ed il Comandante ci eravamo ubriacati senza volerlo…

Oh mio Dio…

SONO INCINTA!!

 

“Dottoressa, ho detto qualcosa che non va?” chiese subito Rei, non appena vide l’espressione della donna passare dallo stupore all’incredulità al terrore puro. Riportata alla realtà da quelle parole, Ritsuko rallentò fino ad accostare, cercando come poteva di elaborare una risposta che non suonasse come la confessione di un serial killer.

 

Incinta… No, probabilmente mi sbaglio… Quella volta io ed il Comandante avevamo usato… NO, ERANO FINITI!!

Calma Ritsuko. Hai affrontato un Angelo, questo è niente al confronto. E’ solo la tua vita che cambia radicalmente ed inaspettatamente, senza alcuna possibilità di programmarne l’evoluzione.

Mamma, avevi ragione.

Ikari, stupido idiota…

 

“Dottoressa?” ripeté Rei, preoccupata.

“Va tutto bene, Rei,” rispose l’interpellata, sorridendo inquieta. “E’ solo che mi sono ricordata adesso che devo passare in farmacia a prendere delle pillole per il mal di testa.

 

Altro che pillole per il mal di testa… Mi serve un test di gravidanza…

 

“Ha mal di testa?” fu la domanda spontanea della ragazza.

“Un po’,” mentì Ritsuko, aprendo la portiera. “La farmacia è proprio là di fianco, faccio in un attimo.”

Rei non aveva ancora trovato una spiegazione plausibile allo strano comportamento della donna quando quest’ultima era tornata, con un pacchetto anonimo di carta bianca in mano.

 

Ora la accompagno a casa e poi di corsa da me a fare questo dannato test… E pensare che ho finito appena quattro ore fa di effettuare test su un’altra persona…

 

“Tutto bene?” chiese ancora Rei quando la sua accompagnatrice fu salita in auto.

“Sì, anche il mal di testa va meglio, forse non dovrò nemmeno prendere nessuna pillola,” la rassicurò lei, mentre rimetteva in moto il veicolo.

 

Coraggio, mantieni un’apparenza noncurante.

 

Cercando di guidare con prudenza nonostante il fuoco che le ardeva dentro, la Dottoressa Akagi proseguì verso la casa di Rei.

 

 

Con indosso solo la maglietta, le mutandine calate alle caviglie e seduta sul proprio WC, Ritsuko sembrava un’altra persona rispetto alla seria e compassata scienziata a capo del Progetto E. Fra le mani reggeva un piccolo oggetto bianco dalla forma allungata. Ad una delle due estremità, una linguetta flessibile aveva assunto una vivace colorazione blu.

 

Positivo

 

 

 

 

All’inizio non riuscì a vedere nulla, ma quando Hillmann premette un interruttore la chiara luce di tre lampade appese al soffitto investì e accecò i suoi occhi ancora abituati alla semioscurità precedente. Quando riuscì a vedere qualcosa attraverso il velo delle sue lacrime, l’altro uomo aveva già chiuso la porta alle loro spalle. L’ambiente in cui erano entrati contrastava nettamente con quello che avevano abbandonato.

Si trattava di una stanza relativamente piccola, anche se non quanto la cella in cui l’archeologo si era svegliato, e spartana, le cui pareti bianco sporco sembravano rilucere di splendore rispetto a quelle costantemente nere del resto della base. Il pavimento era coperto da una soffice moquette, mentre il soffitto bianco sembrava essere stato intonacato di fresco. Di fronte a Kernberg, sulla parte destra del muro, faceva bella mostra di sé una libreria stracolma di libri appartenenti a edizioni e periodi storici svariati, mentre al centro della stanza c’era una comoda poltrona in stile vittoriano e una scrivania su cui erano posati una voluminosa quantità di fogli bianchi, numerose penne e matite e una lampada pieghevole adatta ad illuminare specifiche aree del pianale. A completare l’arredamento c’era lo sportello di una cassaforte a muro nel lato sinistro della parete di fronte all’entrata e, con somma sorpresa da parte dello studioso, la tavola di pietra che lui stesso aveva rimosso dalla grotta di Qumran era appoggiata ad un treppiede metallico direttamente di fronte alla scrivania.

Stupefatto, Kernberg si volse verso Hillmann, che nel frattempo aveva ricominciato a sorridere in quel suo modo odioso. “Cosa significa tutto questo?” chiese l’archeologo.

“Mi sembrava evidente,” rispose l’altro, accennando alla scrivania. “Noi vogliamo che lei traduca le iscrizioni presenti su quella tavola. Ha a sua disposizione tutti i testi scelti che troverà in quella libreria, oltre a qualunque altra opera di cui riterrà di avere bisogno: sarà sufficiente farci sapere il titolo e noi gliela forniremo.”

Non riuscendo a credere alle proprie orecchie, il piccolo studioso tedesco tornò a voltarsi verso la lastra di pietra incisa. Qualcuno l’aveva ripulita dalla polvere e dalle incrostazioni calcaree sedimentatesi nel tempo, ed ora i caratteri misteriosi di cui era ricoperta risaltavano come non mai. Faceva eccezione solo un frammento, in basso a destra, che era risultato assente già quando lui e Takazumi l’avevano vista la prima volta. Nonostante le avventure che aveva subito ultimamente, la passione che l’aveva animato per anni si risvegliò, e così pure il suo occhio critico, con cui esaminò la superficie. “Avrò bisogno di molto tempo,” si sorprese a dire.

“E’ necessario che lavori il più rapidamente possibile,” rispose Hillmann alle sue spalle. “Ma al di là di questo, può prendersi tutto il tempo che le serve. Durante tutta la sua permanenza come nostro ospite non abbandonerà questa stanza. Le verranno forniti tre pasti al giorno all’ora che preferisce ed entro breve le sarà portata una branda dove potrà dormire. Purtroppo questo ambiente non è dotato di servizi igienici, ma sono sicuro che questo fatto le fungerà da incitamento a svolgere rapidamente il suo lavoro.”

Praticamente Kernberg aveva appena ascoltato le condizioni della sua prigionia. Si voltò contrariato. “Allora sono veramente vostro prigioniero!”

L’altro scosse il capo, senza perdere il suo sorriso beffardo. “Io preferirei l’espressione ‘inestimabile collaboratore’.

Il professore di Lipsia quasi scoppiò a ridere per l’assurdità di quelle parole. “Non vedo cosa cambi nella sostanza.”

“Ha la mia parola che una volta terminato il suo lavoro sarà libero di andarsene, ovviamente mantenendo il segreto su ciò che ha visto e sentito qui. Ci preoccuperemo noi a trovare una scusa plausibile alla sua prolungata assenza.

Kernberg scrutò il volto dell’altro tedesco, cercandovi le tracce dell’inganno, ma esso era impassibile nella sua espressione a metà tra la benevolenza e la derisione. “Chi mi assicura che lei manterrà la parola?”

Hillmann sospirò, apparentemente dispiaciuto della mancanza di fiducia da parte del connazionale. “Suppongo che avrà bisogno dell’ulteriore incentivo che avevamo in serbo per lei.”

Con studiata lentezza, sotto lo sguardo attento e guardingo di Kernberg, l’uomo attraversò la stanza fino alla cassaforte a muro. Dopo aver inserito la sua tessera nella solita fessura, digitò una rapida sequenza e un rumore metallico annunciò lo sblocco delle serrature. Incapace di controllare la sua curiosità, l’archeologo fece un passo avanti, mentre l’altro apriva lo sportello d’acciaio.

Al di là di esso c’era un’inferriata stretta dalle sbarre sottili, del materiale plastico nero con cui era rivestita la maggior parte della base. All’interno della piccola cassaforte c’era un involto decrepito, una sorta di libro le cui spesse pagine di pergamena spiegazzata e rovinata dal tempo erano tenute insieme da una grossolana rilegatura di cuoio. Il frontespizio recava alcune parole vergate in ebraico antico, la cui stesura rivelava ad un occhio esperto un’origine molto più tarda rispetto alla pergamena su cui erano scritte.

“‘In Principio era Dio…” compitò Kernberg senza difficoltà. “Si tratta di una versione della Bibbia?”

“Oh, no,” rispose l’altro, che ora incombeva alle sue spalle quasi come un avvoltoio. “Si tratta di qualcosa di molto più importante.

L’archeologo era confuso. Guardò di nuovo il volume arcaico di fronte a lui, poi la tavola di Qumran, poi di nuovo il libro. Qual era il collegamento? Fece per chiederlo, ma l’altro lo anticipò.

“Probabilmente avrà sentito parlare delle Pergamene del Mar Morto.

Credendo che scherzasse (qualunque archeologo sapeva di cosa si trattasse), Kernberg accennò un sorriso circospetto. “Beh… certamente. Un’antica versione della Bibbia trovata presso Qumran verso la metà del secolo scorso, recante alcuni passi del Vecchio Testamento e dei Vangeli, oltre a numerosi testi gnostici.

Il sorriso di Hillmann si allargò. “Cosa penserebbe se le dicessi che tutto ciò che lei sa riguardo quella scoperta è una frode?”

Ricordando le parole simili che Takazumi gli aveva rivolto parlandogli del sito archeologico che avevano visitato, questa volta lo studioso non rise. “Cosa intende?” chiese invece, con la bocca privata della sua saliva.

“Intendo che i documenti che lei conosce come Pergamene del Mar Morto sono dei falsi, prodotti da noi e resi di pubblico dominio per celare la scoperta delle VERE Pergamene del Mar Morto, ovvero il plico di pergamene su cui ha appena posato gli occhi.”

Kernberg non sapeva se dare al suo interlocutore del millantatore o se implorarlo di fargli visionare le pergamene: ora aveva capito in cosa consisteva il suo incentivo.

“Se collaborerò con voi per tradurre la tavola,” ragionò, “potrò avere libero accesso alle vere Pergamene del Mar Morto, non è così?”

Il sorriso di Hillmann perse la sua nota beffarda (o almeno così sembrò) e divenne generoso. “Esattamente. Là è racchiusa una versione completamente nuova del racconto della Creazione, e solo di poco posteriore alla tavola che ha appena recuperato. Il fatto che sia radicalmente differente rispetto alle versioni canoniche della Genesi può solo significare la messa in atto di un’operazione di censura senza uguali, volta a distruggere e nascondere un racconto di molto precedente e, proprio per questo, più vicino alla verità. Al momento, quella che ha visto è l’unica copia superstite del racconto della Genesi così come fu scritto all’epoca di Abramo, se non prima ancora.”

Ancora una volta, Kernberg gettò un’occhiata alle sbarre della cassaforte, sentendo potente dentro di sé l’impulso alla ricerca della conoscenza, la fame di sapere che l’aveva mosso per tutta la vita. All’improvviso, tutti i dubbi che aveva avuto riguardo quel posto e i suoi carcerieri e le speranze di fuga svanirono, lasciando il posto ad un solo pensiero.

“Posso già cominciare a lavorare?” chiese, in tono professionale. Hillmann annuì, e stranamente il suo sorriso ora sembrava meno odioso. “Certo. Le ordino la cena.

Ma, mentre il dirigente della Seele usciva dalla porta, l’archeologo non lo ascoltava già più, immerso com’era nella lettura di uno dei tomi della libreria.

 

 

 

 

Erano passati ormai alcuni giorni dal fidanzamento ufficiale tra Asuka e Shinji, e sebbene la ragazza all’inizio insistesse per non comportarsi troppo affettuosamente in pubblico, aveva imparato ad apprezzare le gentilezze che il Third Children le usava in continuazione, complice l’attesa ricomparsa del ciclo. Così si accorse subito che qualcosa non andava.

Da un paio di giorni il Third Children era diventato bruscamente cupo, sebbene tentasse di non darlo a vedere né a lei né a Misato: all’inizio la ragazza aveva lasciato perdere, poiché pensava che se lui non voleva parlargliene avrebbe avuto i suoi buoni motivi. Dopo tutto lei preferiva avere un po’ di privacy, a volte, in modo da pensare ai propri problemi, e credeva che anche per Shinji valesse la stessa cosa. Ma Asuka non aveva mai avuto molta pazienza.

Il secondo giorno di quello stato di cose, mentre Misato era via, decise di prenderlo di petto. Lui all’inizio volle deviare la sua attenzione con un bacio appassionato, ma lei lo respinse con malgarbo.

“Non provarci, Stupishinji!” lo apostrofò afferrandogli i polsi. “Non sono abbastanza ingenua da cadere in questo trucco!”

Il ragazzo si divincolò con aria offesa, per poi volgerle le spalle e allontanarsi di qualche passo. Asuka non si scompose e incrociò le braccia, in paziente attesa. Finalmente, Shinji si decise a parlare, sempre di schiena. “E’ che tra poco sarà l’anniversario della morte di mia madre…”

La ragazza restò per un attimo stupita, poi si maledisse per la sua curiosità e per averlo costretto a parlare di un argomento doloroso. Fece qualche passo in avanti. “Shinji…”

Lui però scosse la testa. “Non è solo per questo. Da quando è successo, questa è la prima volta da molto tempo che ho l’opportunità di recarmi sulla sua tomba. Ed è anche la prima volta da tanti anni che sono vicino a mio padre, durante questa ricorrenza…”

Asuka chinò il capo, ascoltando in silenzio. In effetti lui aveva tutte le ragioni per essere depresso, visto anche il padre che si ritrovava. Sebbene ultimamente le riuscisse più facile che in passato, provò una strana sensazione quando ammise a se stessa di aver avuto torto nel giudicare la situazione.

“Secondo me,” gli disse, “non dovresti sprecare quest’occasione. Dovresti andare da tua madre indipendentemente da ciò che deciderà tuo padre.”

Shinji si volse verso di lei, un’espressione triste ma grata negli occhi. “Grazie del consiglio, Asuka, ma non temo che mio padre decida di non andare al cimitero; temo proprio che ci incontriamo là…”

Finalmente la ragazza capì qual era il problema e si fece pensierosa. Solo per un attimo però, poi fece spallucce e tornò a sorridere. “E se anche vi incontrate? Hai paura di ciò che potrebbe dire, fare o non dire e non fare? Chi se ne importa? Lui è un’altra persona rispetto a te, non devi vivere con il patema d’animo solo perché tuo padre potrebbe non approvare ciò che fai e che dici.

Il ragazzo la squadrò, ragionando sulle sue parole.

 

Che stupido… Lei ha ragione, ovviamente, sono io che mi faccio troppi problemi con mio padre. Però lei non sa molte cose…

 

Contagiato dall’espressione serena di lei, anche Shinji sorrise. “Hai ragione, Asuka. Farò come dici. Grazie.”

A sottolineare le sue parole le diede un lieve bacio sulle labbra, poi tornarono a studiare. Asuka era contenta per aver aiutato il suo ragazzo a risolvere i propri problemi. Shinji però non era affatto convinto di esserci riuscito.

 

 

Tadaima!” strillò Misato quando rientrò, più tardi, quella stessa sera.

Ma che bisogno c’è di urlare!” gridò Asuka dal salotto, da cui provenne anche il timido ‘okaerinasai’ di Shinji.

“Ne ho più motivo di te, ragazzaccia!” rispose Misato, sempre ad alta voce e con tono giulivo.

“Ragazzaccia??” sbottarono entrambi i Children precipitandosi a controllare che la loro tutrice si sentisse bene. Insieme a loro, dalla soglia si affacciò anche PenPen, allarmato per tutte le urla che stavano turbando la sua quiete. “Sei sicura che vada tutto bene, Misato?” chiese Asuka, sospettosa. La donna infatti non l’aveva mai chiamata a quel modo, nemmeno quando era molto arrabbiata con lei, per cui le suonò assurdo quel nomignolo pronunciato con un tono di voce allegro.

“Certo,” fece l’interpellata sorridendo. “Ho ricevuto una splendida notizia, oggi al lavoro.

Vedendo le facce curiose dei due Children (ed in certa misura anche di PenPen) Misato non poté fare a meno che godersi la sensazione di loro due che pendevano dalle sue labbra, sicché inserì una lunga pausa studiata prima di comunicare la sua rivelazione. “Non solo Ritsuko mi ha detto che tra poco Satoshi potrà essere dimesso, ma lui stesso mi ha anche informato che proprio oggi pomeriggio è stato promosso al grado di capitano!”

A quella notizia entrambi i Children sobbalzarono. “Dici sul serio??” esplose Asuka, euforica, mentre Shinji fissava con entusiasmo la sua tutrice, come se pretendesse qualche altra conferma della veridicità delle sue parole. Misato annuì trepidante e si dispose a raccontare per filo e per segno ciò che aveva sentito dire dal suo fidanzato.

 

***

 

Qualche giorno dopo l’attacco dell’undicesimo Angelo, Ritsuko rilevò con piacere che Satoshi stava migliorando a vista d’occhio. Quel mattino, sebbene con fatica, sarebbe già stato in grado di muoversi sulla sedia a rotelle. Lo stesso Agente apprese la notizia con entusiasmo, mitigato dalla preoccupazione per l’aria affaticata della Dottoressa. Quest’ultima minimizzò, rifiutando di dare importanza ad un semplice virus intestinale, che quella mattina l’aveva fatta svegliare in preda ad una forte nausea. Ma le infezioni erano cose che capitavano, lei lo sapeva bene. Non aveva senso far preoccupare anche gli altri quando avrebbe dovuto sopportare solo alcuni giorni di spossatezza. Inoltre, dato che quel giorno Satoshi era riuscito a stare sulla sedia a rotelle e a fare un breve giro nella corsia dell’ospedale, c’erano ben altre preoccupazioni che l’affliggevano. Secondo gli ordini di Gendo, proprio quel giorno Ritsuko avrebbe dovuto comunicare all’Agente Iwanaka di recarsi da lui, ma non sapeva quanto bene avrebbe accolto quella notizia…

 

 

Quando Satoshi giunse alla porta dell’ufficio del Comandante si sentì ribollire di rabbia. L’ultima volta che era stato lì era quasi stata decretata la sua condanna a morte, per cui aveva tutte le ragioni del mondo per non essere affatto felice di essere di nuovo lì, e per giunta senza nemmeno saperne le ragioni.

Quella mattina, semplicemente, mentre effettuava i suoi esercizi di fisioterapia, Ritsuko gli aveva comunicato che il Comandante Ikari desiderava parlare con lui in privato. Era appena riuscito a sostenersi quanto bastava per stare su una sedia a rotelle, aveva pensato, e già il suo Comandante architettava qualcosa di nuovo che lo riguardava. Fu con estrema freddezza, per non lasciar trasparire i suoi sentimenti, che rispose alla Dottoressa che ci sarebbe andato quel pomeriggio stesso.

Ed infatti, faticando un po’ a compiere la strada necessaria con il solo uso delle braccia non ancora allenate allo sforzo specifico, era giunto davanti all’ufficio di Gendo. Le porte scorrevoli si aprirono, mostrandogli il vasto ambiente, caratterizzato solo dalle ampie vetrate e dalla scrivania al centro, dietro cui il Comandante Ikari lo guardava impassibile attraverso gli onnipresenti occhiali scuri. Ancora più indietro, il Vice Comandante sembrava come sempre in attesa di un ordine.

Dato che non veniva invitato dentro, Satoshi entrò, spingendo con furia sulle ruote. Avanzò lentamente fino ad arrivare a due metri circa dalla scrivania, dove di solito si fermavano le persone chiamate. Si sentiva immensamente goffo su quella sedia, più bassa di quella del suo superiore, al punto che doveva alzare leggermente gli occhi per guardarlo. Si immaginò il sorriso di scherno dietro quei guanti bianchi incrociati davanti alla bocca, e il suo corpo fremette di rabbia. Non tentò nemmeno di dissimulare quel gesto: voleva che il Comandante, prima di assegnargli qualche altra missione pericolosa, sapesse esattamente ciò che provava per lui.

“Voleva vedermi, signore?” sibilò, fissandolo direttamente negli occhi.

“Esatto,” fu la risposta. “Vedo che sta recuperando rapidamente: me ne compiaccio.

 

Solo perché così facendo mi può assegnare un’altra missione suicida, vero, Comandante?? Oppure vuole mandarmi a combattere da solo contro il prossimo Angelo, in modo da tapparmi la bocca per sempre ed evitare che il suo prezioso piano contro il governo giapponese venga alla luce??

 

L’espressione dell’Agente non fu meno ostile quando Gendo riprese a parlare.

“I risultati della sua missione sono stati più che ottimali. Dopo quanto è avvenuto, dubito che i nostri amici intraprenderanno di nuovo iniziative di questo genere.”

Satoshi non sapeva se con l’espressione ‘nostri amici’ il suo superiore si riferisse al governo giapponese o alla JNI Corp. ma la cosa non gli interessava. Avrebbe solamente voluto alzarsi in piedi e prendere a pugni quella faccia impassibile che gli aveva ordinato di andare a morire, di lasciare per sempre Misato e i ragazzi.

“Per questo motivo,” continuò Gendo, “Tenente Iwanaka, è mia intenzione promuoverla al grado di Capitano.”

Satoshi lo fissò allibito, incurante del fatto che tutto il suo stupore trasparisse dalla sua espressione.

 

Mi vuole… promuovere…?

 

“Naturalmente,” concluse l’altro, apparentemente senza badare all’aria esterrefatta del suo Agente, “se ha qualche riserva in proposito, sono pronto ad ascoltarla e a ritirare la mia offerta.”

“No…” riuscì a dire Satoshi. Pur sospettando che dietro quell’affermazione si celasse una sottile minaccia, in quel momento non fu in grado di dare un corpo ai propri sospetti, per cui poté solamente accettare. “Non ho riserve, signore.”

“Perfetto.” Gendo si alzò dalla propria sedia e prese un oggetto dalla scrivania. Lentamente, aggirò il mobile e si portò di fronte al suo dipendente. “Confido che li applicherà quanto prima sulla sua uniforme. Ad ogni modo, può considerarsi già promosso, anche se… è ancora in pigiama.

Satoshi aveva mantenuto la vestaglia da ricoverato ospedaliero volutamente, come sfida nei confronti del Comandante, ma anche vedendo i suoi nuovi gradi risaltare sulla sua mano guantata si riconfermò nella sua scelta: non sarebbe stata qualche decorazione in più cucita sull’uniforme a fargli cambiare idea sul suo superiore.

“La ringrazio, signore,” rispose, finalmente, prendendo in mano i nuovi gradi. “Provvederò appena sarò tornato in ospedale.

“D’accordo,” annuì Gendo imperturbato, voltandogli le spalle e tornando dietro la scrivania. “A nome di tutta la Nerv, la ringrazio per i suoi servigi. Può ritenersi congedato, Capitano Iwanaka,

Ancora stordito dall’inattesa promozione, Satoshi annuì, salutò il Comandante ed il suo Vice, voltò goffamente la sedia a rotelle e si avviò verso l’uscita dell’ufficio. Quando le porte scorrevoli si furono chiuse, Gendo si concesse finalmente un sorriso.

“Credi che basterà questa promozione per tenerlo sotto controllo?” chiese Fuyutsuki, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo dell’incontro.

Ikari non si voltò nemmeno per rispondergli. “La promozione se l’è guadagnata. Ad ogni modo, se non basterà, abbiamo altri mezzi di persuasione.

 

***

 

Andarono avanti a festeggiare fino a notte inoltrata, dopo aver invitato anche Hikari, Toji e Kensuke, con il solo rammarico di non poter avere anche Satoshi tra loro, poiché avrebbe dovuto passare in ospedale ancora qualche giorno. Quanto a Rei e Gabriel, invece, quella fu la prima occasione che ebbero da parecchio tempo per stare insieme e non la sprecarono: dopo le formalità dettate dalla cortesia, si chiusero in salotto dove finalmente ebbero modo di dirsi tutte le parole che non avevano potuto dirsi in quei giorni. Gabriel, dal canto suo, riuscì ad ignorare i mille dubbi che affollavano la sua mente riguardo ciò che era successo durante l’attacco dell’ultimo angelo: benché volesse veramente sapere di che si trattasse, il suo più grande desiderio in quel momento era stare bene con Rei, e non avrebbe rovinato quei pochi istanti con le sue preoccupazioni.

Ben presto la festa degenerò e per Misato fu impossibile tenere sotto controllo tutte le sue scorte di birra sicché spesso, mentre uno dei ragazzi la distraeva, un altro faceva sparire qualche lattina che sarebbe stata consumata poco dopo. Fortunatamente, i tre amici dei Children avevano lasciato detto in casa che si sarebbero fermati a dormire da lei, per cui non dovette cercare affannosamente delle scuse per spiegare il loro stato pietoso. Tutti e tre si addormentarono in salotto, una volta che Rei e Gabriel furono accompagnati via da una Ritsuko dall’aria un po’ stanca. Asuka, la più brilla di tutti, rimase a lungo a ridere a crepapelle in faccia a PenPen prima di crollare addormentata. Misato e Shinji la spostarono a braccia fino in camera sua, ed a quel punto la festa poteva dirsi finita. Diligentemente, il Third Children non aveva toccato alcol, e Misato era ancora molto al di sotto della sua soglia di saturazione, per cui erano entrambi lucidi, fatta salva la stanchezza. Fu proprio grazie a questa lucidità che la donna si accorse che Shinji era particolarmente taciturno, specialmente riguardo la sua nuova natura.

“Allora?” chiese, sorridendo. L’altro la guardò senza capire. “Allora cosa?”

Cosa ti cruccia, Shin-chan?”

“Niente di che…”

“Lo sai che non sei capace a mentirmi.”

Hmm.”

“Quella non è una risposta.”

“Già, lo so.”

Per niente infastidito, forse perché solo molto stanco, Shinji raccontò a Misato dell’anniversario della morte di sua madre e dei suoi timori a riguardo. La donna lo ascoltò comprensiva, capendo finalmente che la sua curiosità era fuori luogo.

Quando ebbe finito il ragazzo sospirò e sorrise triste. “Ecco, questa è la mia triste storia.”

Misato sorrise a sua volta e gli mise una mano sulla spalla. “Penso che Asuka ti abbia dato il consiglio giusto. In fondo, l’opinione di una persona non dovrebbe essere vincolante per noi, anche se si tratta di quella di nostro padre. Credo che il Comandante può considerarti come vuole, ma per tutti noi sei sempre il nostro caro Shin-chan.

Concluse il suo breve discorso arruffandogli i capelli con la mano libera, movimento che portò il Third Children a sorridere in modo diverso, rincuorato. “Lo terrò a mente quando mi recherò al cimitero, signorina Misato,” disse, visibilmente più sereno. La donna annuì e gli augurò la buona notte, appena in tempo prima che l’alcol che aveva in corpo si facesse sentire con veemenza. Mentre lei barcollava in cerca della porta della propria camera, Shinji la guardò allontanarsi, sorridendo stancamente.

 

Avete ragione tutte e due. E quando incontrerò mio padre, glielo farò sapere.

 

 

 

 

Shinji era solo, davanti alla tomba di sua madre, al cimitero. Aveva chiesto specificatamente a Misato di non accompagnarlo fin là, in modo che potesse affrontare la cosa contando su se stesso. Il monolito scuro che usciva dal terreno e che rappresentava la tomba priva di un corpo di Yui Ikari sembrava un’ombra stagliata nel sole del tramonto, a testimoniare con il suo vuoto tutto ciò che la morte di sua madre aveva portato via alla vita di Shinji. Ma, e questo il ragazzo lo sapeva bene, non era affatto colpa di Yui.

“E’ passato molto tempo,” disse una voce alle sue spalle. Il Third Children non si voltò, poiché sapeva fin troppo bene a chi appartenesse.

“Buongiorno, papà.”

Gendo non rispose ma rimase discostato, in silenzio. Solo dopo molti secondi trovò qualcosa da dire. “Dovremmo comportarci in modo un po’ più affettuoso in queste occasioni?”

Shinji, però, non lo ascoltava. Dentro di lui si scontravano emozioni contrastanti: la sofferenza che aveva caratterizzato tutta la prima parte della sua vita consapevole, la nuova determinazione che aveva ottenuto grazie ad Asuka e agli altri, la tristezza per la coscienza di non avere più né un padre né una madre, la rabbia furiosa che provava verso l’uomo alle sue spalle che, dal giorno in cui sua madre se n’era andata, era diventato un estraneo. Nonostante ogni momento rischiasse di essere soffocato da quella massa tumultuosa di sentimenti, Shinji riuscì a resistere con tutte le sue forze, ripetendosi nella mente che il suo valore non era determinato dal giudizio di suo padre o di chiunque altro.

“Non dici niente?” lo incalzò con discrezione ed indifferenza Gendo. Il Third Children sapeva che, se non avesse detto nulla, suo padre avrebbe posto fine alla conversazione e se ne sarebbe andato, così come aveva sempre fatto in vita sua, perciò deglutì e decise di parlare, di dire in una volta sola tutto ciò che per quegli anni si era tenuto dentro.

“Non ti è mai importato di me…” cominciò, “non ti sei mai curato di me… ci sono molte cose di me che non sai. Io…ho riflettuto molto ed ho deciso di mettertene a conoscenza. Ti metterò a conoscenza di quanto mi concerne sin dalle origini. Mi chiamo Shinji Ikari. Sono nato il 6 Giugno 2001. Sono figlio di Yui e Gendo Ikari. Mia madre morì quando io ero molto piccolo. Mio padre mi ha abbandonato. Sono rimasto orfano. Sono stato affidato in custodia ad un Tutore Legale e ad inizio anno sono stato convocato presso la Nerv e sono divenuto il Pilota dell’Unita Evangelion 01. Attualmente studio alla scuola Media Pubblica di Neo Tokyo-3 e vivo presso l’abitazione del Maggiore Misato Katsuragi insieme al Pilota dell’Unità Evangelion 02, Asuka Soryu Langley. Prima di arrivare qui, avrei dato più importanza ad un granello di polvere piuttosto che a me stesso. E la colpa di questo…la attribuivo a te, papà.

In fondo…cos’avrei mai potuto aspettarmi da me stesso? Shinji Ikari?

Shinji Ikari…additato da sempre come orfano.

Hai mai pensato che un bambino piccolo potesse attribuire a se stesso la colpa quando i suoi genitori lo abbandonano?

Che non fosse colpa mia, l’ho capito solo quando sono cresciuto. La mamma era morta in un incidente. Non fu mia la colpa. E non fu colpa mia neppure il tuo abbandono. Quale colpa poteva avere un bambino?

Avevo realizzato di essere libero da colpe. Avrei dovuto essere sollevato. La mia pena avrebbe dovuto cessare. Non è stato così. Se io non avevo colpa…per quale motivo allora mi avevi abbandonato? Mi venne in mente una sola parola per definirti: spregevole.

Ti ho odiato. Ferocemente. E ho sofferto. Avrei potuto capire se tu mi avessi abbandonato per una qualsiasi cosa che io avessi commesso… un qualunque motivo…Solo ieri mi è venuta in mente questa ipotesi: mi hai abbandonato forse perché la mia esistenza ti nausea? Mi odi perché forse non mi hai mai voluto e se esisto è solo per  volontà della mamma?”

Gendo tacque e nessuno parlò per vari minuti.

Continuando a fissare il terreno ai piedi della lapide della madre, Shinji lo incalzò con voce fredda.

“Rispondimi, papà.”

“No, Shinji. Non è così.” Rispose allora la voce dell’uomo, con lo stesso tono utilizzato dal figlio.

“Come supponevo… Abbandonato senza un motivo…  Papà…perché?”

Perché un uomo non può prendersi cura di un altro essere dato alla vita se quell’uomo stesso alla vita è inadatto, Shinji. Mentre tu, così piccolo, bramavi la vita, io ormai, da quando tua madre se n’era andata, non facevo altro che bramare la fine. Non potevo prendermi cura di te.”

Però io ho sofferto, papà. Ho sofferto in maniera inesprimibile. E di tutta quella sofferenza...ormai ero stanco. Non volevo più soffrire. Non volevo più che gli altri mi ferissero. Non volevo più cose spiacevoli. Alla fine ho capito…io stavo fuggendo. Stavo fuggendo dal dolore. Stavo fuggendo dall’amarezza. Stavo fuggendo dalla realtà. Stavo fuggendo da te. All’inizio, quando mi hai convocato per diventare un Pilota, ero venuto qui con l’intenzione di dirti solo che ti odiavo. Poi…ho scoperto che tu volevi usarmi. Ma questo me lo aspettavo. Mi avevi abbandonato e ti eri ricordato di me solo quando ti faceva comodo.

Ti ho odiato ancora di più. Eppure, quanto ti odiassi, quanto ti detestassi, non sono mai riuscito a dirtelo. Non ci riuscivo. L’unica cosa che riuscivo a fare era fuggire da te e dalla sofferenza di cui tu ormai avevi preso volto e nome. Per me.

Come te avevo iniziato a bramare la fine…convinto…che una nullità come quella che io, Shinji Ikari, rappresentavo non sarebbe mai valsa a nulla. Alla fine iniziai a voler pilotare l’Eva perché in questo modo per qualcuno ero importante. Perché ogni volta che vincevo venivo apprezzato e lodato. Se come essere umano ero inutile e nessuno si curava di me, divenendo un Pilota, sarei stato tenuto in considerazione. Ma mi sbagliavo. Io sono diverso da te. Perché ad un certo punto, io ho smesso di fuggire. Sono qui per affrontarti, papà. Perché ho capito…che io non sono quella nullità che credevo… io non sono una persona da usare solo quando se ne ha bisogno. E di questo, ringrazio le persone che me lo hanno fatto capire.

Non lo sai, papà. Ho una ragazza che amo con tutto me stesso, così come lei ama me. Ho degli amici che per me sono più preziosi dell’oro e che si preoccupano costantemente per me, chiedendomi com’è andata ad ogni battaglia. E non per opportunismo, perché se io non stessi bene, loro sarebbero condannati. Ma per il semplice fatto che io sono importante per loro. E poi c’è una donna a cui io voglio bene come una madre e  lei ne vuole a me come se fossi suo figlio. Ed oltre a queste ci sono ancora tante altre persone che mi stimano e rispettano. Attraverso gli occhi di queste persone io ho visto chi è in realtà Shinji Ikari. Shinji Ikari non è una nullità. Shinji Ikari non è solo un Pilota. Shinji Ikari esiste e per le persone che gli vogliono bene è importante. Shinji Ikari è una persona che può vivere migliorando se stessa e maturando giorno per giorno. Shinji Ikari non è odiato, non è disprezzato, non è allontanato. Shinji Ikari sono io, papà. Quando mi hai lodato dopo il combattimento con l’Angelo ho creduto che fossi importante anche per te, per un momento. Ma poi mi sono accorto che in realtà non era cambiato nulla e che forse quelle parole erano solo dovute ad un buon operato. Un buon operato svolto da un tuo Pilota. Non da tuo figlio. Però ora non mi importa. Non mi importa perché con o senza la tua approvazione, con o senza il tuo aiuto, io posso vivere. Io sono importante anche senza essere un Pilota di Eva. I miei amici, il Maggiore Katsuragi, Asuka, loro non apprezzano solo il Pilota dell’Unità 01. Loro apprezzano prima di tutto Shinji Ikari. Guardami papà. Questo è Shinji Ikari.  

Il ragazzo si volse sorridendo verso la figura immobile del padre. Ma quello di Shinji non era un sorriso di scherno, né d’odio, né di disprezzo né di qualunque altro sentimento negativo. Il sorriso del Third Children era un sorriso quieto e sereno, come nessuno ne aveva mai visti. Era il sorriso di chi era libero da una maledizione senza tempo. Gendo lo osservò: non era possibile capire se al di sotto della sua maschera impassibile e congelata avesse provato o meno qualcosa a quelle parole. 

Senza  perdere il sorriso, il ragazzo continuò con voce serena guardando suo padre negli occhi, senza più alcun timore.

“Oggi ero venuto qui per dirti che ti odiavo. Che ti odiavo per avermi abbandonato. Ma ora, sapendo come stanno le cose, non te lo dirò più. Non ti odio per questo, papà. Però c’è dell’altro che voglio dirti. Il sorriso di Shinji scemò poco a poco e la sua espressione tornò seria. Placida e ferma come una quercia secolare. “Quello che fugge sei tu, papà. In realtà sei tu il vero debole tra noi due e per questo motivo, per avermi abbandonato, io ti perdono. Perché non meriti che pietà da me.”

Il Comandante Ikari rimase immobile e così suo figlio. Per diversi secondi nessuno dei due si mosse, quindi Shinji  parlò di nuovo. “Si è fatto tardi, io devo andare. Addio, papà. Arrivederci Comandante Ikari.

Addio, Shinji. Arrivederci, Third Children. Fa un buon lavoro.”

Il ragazzo annuì con fare serio ma placido ed oltrepassò la figura dal Comandante, allontanandosi verso il sole che volgeva al tramonto.

Gendo lo seguì con lo sguardo finchè non fu scomparso all’orizzonte, quindi mormorò sottovoce “Per aver trovato la tua felicità…congratulazioni, Shinji. vivi quella vita che io non riesco più a vivere.”  L’uomo rimase in silenzio per qualche istante, quindi si rivolse verso la lapide ed alzò lo sguardo al cielo “Yui…se  c’è qualcosa di cui possa essere felice ora…è che Shinji somigli a te. E non sia un debole come suo padre. Presto, Yui. Presto Rei mi ricondurrà da te. E nessuno dovrà più soffrire come è successo a me e a nostro figlio. Presto, Yui…presto…” Terminò con voce ancora più bassa, quindi riprese a guardare il suolo ricominciando a parlare solo dopo qualche minuto.“E’ ora che le lancette dell’orologio vengano in qualche modo forzate… Rei…porta a compimento ciò per cui sei nata e conducimi in fretta da Yui.” Concluse. Dopodichè tacque e volse le spalle alla lapide per poi avviarsi verso l’elicottero che lo attendeva in lontananza.

Una volta arrivatovi, Rei lo guardò incuriosita ma discreta. Gendo salì e diede ordine al pilota di partire. La First Children rimase in silenzio, rispettosa del dolore di un uomo appena tornato dalla tomba di sua moglie. Però fu proprio il Comandante Ikari a rompere il silenzio. “Come va con Gabriel?”

Quella domanda la colse completamente di sorpresa. Gendo non era mai stato una persona molto sentimentale, né le aveva mai chiesto notizie dei suoi rapporti interpersonali. “Beh, bene,” rispose, cercando ancora di darsi una spiegazione. “Piuttosto è la Dottoressa Akagi che mi preoccupa.

Stupito, il Comandante si voltò verso di lei. “In che senso?”

“E’ un po’ di tempo che la vedo strana, ma non saprei dirle in che modo. E poi mi sembra che abbia cominciato ad ingrassare.

L’uomo si fece pensieroso e tornò a guardare di fronte a sé. “Grazie per le informazioni. Ne parlerò con lei.

Rei continuò a fissarlo ancora un po’, poi tornò a chiudersi nei propri pensieri, una volta capito che lo slancio comunicativo di Gendo era terminato.

 

 

Lui attese che il ragazzo si fosse allontanato, così come l’elicottero che trasportava il Comandante Ikari, prima di uscire dall’ombra della casa del custode del cimitero, dove si era nascosto. Nessuno doveva sapere che era lì.

Lentamente attraversò il camposanto, scrutando attentamente i nomi sulle lapidi, alla ricerca di una in particolare. Fra le sue mani c’era un unico crisantemo, acquistato poco prima. Finalmente raggiunse la sottile stele verticale recante il nome a lui sommamente caro. Come ogni anno, l’uomo si guardò attorno, in modo da controllare che non ci fossero curiosi che potessero tradirlo. Fortunatamente, le poche persone presenti sembravano tutte interessate alle lapidi dei propri cari, per preoccuparsi di un povero vecchio solitario.

Con gesti misurati pose il crisantemo alla base della lapide, consapevole che il suo gesto era vuoto di significato. Sicuramente, entro sera il custode del cimitero sarebbe passato a raccogliere i fiori abbandonati senza un apposito contrassegno, gettandoli via, ma era proprio su questo che l’uomo contava: così, la sua unica traccia, l’unica testimonianza di ciò che provava in quel momento, sarebbe stata cancellata. Triste, sorrise e si accucciò di fronte alla lapide.

“Buongiorno, Yui,” disse, poi rimase in silenzio. Ad un osservatore casuale sarebbe sembrato in attesa di una risposta che non sarebbe mai arrivata. In realtà, stava cercando qualcosa da dire, sebbene ogni anno da quel maledetto giorno, al momento di rivolgersi a Yui Ikari, le sue labbra restavano serrate, incapaci di pronunciare le numerose parole che il suo cuore avrebbe voluto rivolgerle.

“Ti sembrerà assurdo,” continuò, infine, trattenendo le lacrime. “Un vecchio scienziato come me che spreca il suo tempo parlando con una lapide puramente commemorativa come la tua. E che si commuove anche…”

Attese che il suo groppo in gola si sciogliesse, biasimandosi per la sua emotività. In genere sapeva trattenersi ed apparire quasi un’altra persona, ma quando era solo oppure con la sua Yui la sua maschera impassibile cedeva e tutte le emozioni che aveva accuratamente celato erompevano alla superficie. Quando si fu ripreso, spostò il crisantemo in modo che stesse meglio alla luce del sole al tramonto, poi tornò a sorridere.

“Ad ogni modo, io sto bene, ed anche tuo marito e tuo figlio. Anche se sembrano costantemente in guerra tra loro, credo che in fondo si vogliano bene. Forse non lo sanno, ma io penso proprio che sia così. Ah, stando a quello che dice il Maggiore Katsuragi, pare che Shinji si sia fidanzato con la Second Children, Asuka Soryu Langley. Dovresti esserne orgogliosa, sai? Non era da tutti fare breccia nel suo cuore di ghiaccio. Come non era da tutti far innamorare un uomo come Gendo Rokubungi al punto da farlo mettere contro la Seele…”

A quel punto abbassò ulteriormente la voce con circospezione, come se temesse di essere udito da qualcuno.

“A proposito di Gendo, a quanto pare il suo progetto alternativo si sta sviluppando celermente. Mancano ormai pochi Angeli, secondo le Pergamene, e per quando saranno tutti stati sconfitti credo che lui sarà pronto. Se tutto dovrebbe andare secondo i suoi piani, allora forse potremo rivederci. Ma se capiterà, non ti lascerò più andare.

L’uomo fece un’altra pausa, riflettendo sulle proprie parole. “A dire il vero,” riprese poi, “preferirei quasi venirti a trovare qui l’anno prossimo. Dopotutto noi non conosciamo veramente gli effetti del fenomeno che Ikari vuole scatenare. Per questo, ho un po’ paura, Yui.

Tornò a sorridere. “Se lo sapessi mi prenderesti in giro, non è vero? Un uomo di scienza come me che ha paura dei risultati di un esperimento? Vecchio, per giunta… Tu hai sacrificato la tua vita nel pieno della tua giovinezza, con un bambino piccolo cui badare, e poi sono io che dovrei aver paura…”

D’un tratto, l’uomo si rese conto che qualcuno si stava avvicinando. Si trattava di una coppia che cercava con lo sguardo una lapide vicino a lui, ma ai suoi occhi sembravano una minaccia.

“Ora devo andare,” disse, rivolgendosi di nuovo alla lapide di Yui Ikari. Fece per raccogliere il crisantemo, poi esitò, ed infine decise di lasciarlo lì. Non voleva privare il suo tesoro del regalo di quell’anno, anche se ciò comportava il remoto rischio di essere scoperto. Si alzò, asciugandosi completamente gli occhi. “Spero di rivederti presto, Yui. Anche se… Anche se non so se sarà qui o in un altro luogo. Arrivederci, figlia mia.”

Dopo un altro secondo, ma senza una preghiera, l’uomo si allontanò dalla lapide della sua unica figlia, per tornare a svolgere le sue regolari mansioni.

 

 

 

 

“Il soggetto non sembra propenso a tradirci,” terminò Hillmann, nella piccola stanza in cui erano raccolti gli altri suoi colleghi.

“Non possiamo correre rischi,” affermò uno di loro, un uomo piuttosto corpulento, il più giovane dei presenti, con una voce profonda dall’accento cantilenante. “Già uno dei nostri dipendenti sta seguendo i propri progetti a dispetto di questa commissione.

“Se si riferisce al Comandante Ikari,” lo interruppe un ometto sulla sessantina, che fino ad allora non aveva ancora parlato ma era rimasto curvo sulla propria sedia, come un ragno in paziente attesa che la propria preda sia del tutto invischiata nella ragnatela, “più tardi potremo discutere di alcune contromisure adeguate.”

“Esattamente,” intervenne autorevolmente un altro uomo, che scrutava gli altri attraverso un congegno cibernetico impiantato di fronte ai suoi occhi. Quella non era l’unica componente inorganica del suo corpo, che dalla vita in giù sprofondava in una sedia a rotelle robotizzata collegata direttamente al suo sistema nervoso. In realtà, non c’era più alcuna persona vivente che sapesse quali altri elementi tecnologici fossero contenuti in quel vecchio corpo. “La nostra priorità è la traduzione della tavola. In base alle informazioni in essa contenute decideremo come portare avanti la nostra strategia.”

Hillmann sorrise del suo solito sorriso enigmatico. “Per l’appunto, il professor Kernberg sta lavorando alacremente alla traduzione, e dubito che ci creerà problemi.

L’uomo massiccio alla sua destra rise. “Non credo che accetterà di buon grado la nostra presa in giro, quando scoprirà che le pergamene che ha visto sono solo un altro falso.”

L’uomo cibernetico lo interruppe: per la maggior parte della sua vita non aveva mai riso, e mal tollerava la propensione del suo collega all’eccessiva esibizione di emozioni, specialmente durante una riunione del comitato direttivo della Seele. “Le vere Pergamene del Mar Morto sono al sicuro, conservate all’interno del Moirai System: non potevamo metterle in pericolo mostrandole ad un estraneo. Ciò che importa è che Kernberg creda di poterle visionare.

“Giusto,” concluse l’uomo basso, annuendo alle parole del suo superiore. “Una volta che il suo lavoro sarà finito prenderemo provvedimenti. E’ inutile preoccuparsene anzitempo.

L’uomo corpulento prese atto dell’interruzione del suo moto di spirito con una scrollata di spalle: era ben consapevole della sua posizione in seno a quel consiglio direttivo, e non era tipo da perdersi in inutili giochi di potere. Ciononostante non perse il suo sorriso, ben diverso da quello del collega tedesco: sembrava il ghigno crudele di un predatore che attendeva impaziente di assalire la sua preda, mentre quello di Hillmann assomigliava a quello di unbenevolente’ scienziato che osserva le proprie cavie dibattersi in preda all’agonia, in attesa di sezionarle. Ad ogni modo, il cyborg, che sembrava avere l’aspetto più carismatico nonostante i suoi handicap, non mutò di espressione. “Se è così, possiamo procedere con l’ordine del giorno. Si interruppe pensieroso, poi si volse verso una figura in piedi nell’ombra, con indosso l’uniforme della Seele ma il volto coperto da un velo che ne celava le fattezze, eccezion fatta per i freddi occhi castani. Il berretto che portava calcato sul capo non riusciva a celare del tutto la fronte, la cui pelle era raggrinzita come se si fosse cicatrizzata male. Guardandolo, il cyborg dovette reprimere un moto di perfida allegria: non permetteva a nessuna emozione di trasparire dal suo volto biomeccanico, nemmeno quelle che gli provocavano piacere. Ciononostante, non riuscì ad esimersi da una frecciatina malvagia. “Ammesso che lei non abbia qualcosa da aggiungere, professor Katsuragi.

La figura nell’ombra fremette e i suoi occhi mandarono lampi d’ira, a stento trattenuta. L’unica reazione visibile che ebbe fu un vago movimento del bastone argenteo cui si appoggiava con la mano destra. Per un momento, gli altri membri della Seele si guardarono stupiti, poi l’uomo anziano e ricurvo, che evidentemente aveva capito il sottile sarcasmo del suo superiore, si lasciò andare ad un sorrisetto, mettendo maggiormente in mostra le rughe del suo volto. “Presidente Keel, le ricordo che il professor Katsuragi è morto quindici anni fa, durante il Second Impact.

Keel riportò l’attenzione su di lui, annuendo, piacevolmente sorpreso che qualcuno a parte lui notasse l’ironia delle sue parole. “Ha ragione, signor Lavoisier,” rispose. “Per un attimo me ne sono dimenticato. Dunque, se non c’è altro possiamo proseguire.

L’uomo nell’ombra fremette ancora sotto il velo che ne nascondeva le fattezze sfigurate, giurando a se stesso che l’avrebbe fatta pagare a quegli uomini senza scrupoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua….

 

 

 

 

 

[1] Un incunabolo è un libro realizzato intagliando e stampando ogni singola pagina separatamente, senza l’ausilio dei caratteri mobili, inventati successivamente da Gutemberg. Per questo motivo si tratta di volumi inestimabili e, all’epoca della creazione, costosissimi.

 

[2] Oltre alla rappresentazione dell’Albero della Vita, le dieci Sephiroth della cabala ebraica possono essere rappresentate come dieci cerchi concentrici, di cui il cerchio più esterno rappresenta la Sephirah più “terrena” (Malkuth), mentre quello più interno rappresenta la Sephirah più “divina” (Kether). Questo diagramma si chiama “emanazione divina”, ed è quello rappresentato sul soffitto della sala appena descritta. La figura umana, l’iscrizione in un pentagono e le numerose scritte in ebraico sono invece elementi d’invenzione degli autori.

 

 

 

  
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