La lettera
di Rea
Ciao mamma,
come stai? E papà? È una domanda idiota da
fare a due persone morte, me ne rendo conto benissimo, ma non so come altro
iniziare questa lettera. Sinceramente non ho nemmeno ben capito come mai io vi
stia scrivendo, ma mi sembra l’unico modo che ho per trovare un po’ di sollievo
momentaneo.
Sai che non ho più il ricordo della vostra
voce? Ci stavo pensando proprio cinque minuti fa, mentre ero seduta sul
davanzale della finestra della stanza che una volta era degli ospiti, qui in
casa di zia e zio. Adesso è camera mia, sai? Sì, sono sicura che lo sai già,
sono convinta che per il primo periodo dopo la vostra scomparsa voi abbiate
vegliato su di me. Ormai tua sorella e tuo cognato sono diventati i miei
genitori effettivi, anche perché sono sempre stati tanto buoni con me, eppure mi
rendo conto che qualcosa che mi manca c’è. E ciò che mi fa soffrire è che non so
cosa sia.
Scrivendo questa lettera spero che io riesca
a capire cosa devo trovare per essere felice, perché mi rendo conto di non
esserlo affatto. E sai perché me ne rendo conto? Perché è Natale. Già, in questo
momento è proprio Natale, quella festa meravigliosa che tu e papà amavate con
tutto il cuore e che avete fatto adorare anche a me. Ma io non riesco ad essere
felice perché siamo ormai prossimi al venticinque e non riesco a capirne il
motivo.
So di essere stata una figlia orrenda, da
quando siete morti. Per non piangere, per evitare di ricordarmi di voi, ho
cercato di non accompagnare la zia
al cimitero ogni volta che veniva a trovarvi, così non avrei pianto. Ma, così
facendo, mi sono dimenticata tutto ciò che di importante in quei quattro anni di
vita che ho passato con voi mi avevate insegnato.
Ci sono pochissime cose che ricordo
nitidamente: una è la tua passione per il canto. Come mi piaceva ascoltarti
mentre mi cantavi la ninna nanna per farmi addormentare. Non volevo dormire solo
per sentire te che ne cominciavi un’altra e continuavi a stare con
me.
Ho continuato a cantare, sai? Lo faccio di
nascosto perché mi vergogno. Non sono brava e, anche se lo fossi, una cantante
deve essere bella ed essere una figura che sa stare sul palco, invece io sono
diventata una goffa diciottenne che a mala pena sa come si fa per non cadere
mentre cammina.
Un’altra cosa che ricordo è che papà leggeva
molto. Mi teneva sulle gambe mentre stava leggendo un libro e mi faceva vedere
le lettere, dicendomi che il modo in cui erano disposte sulla pagina era una
specie di disegno che crea un’immagine bellissima. E, infatti, io ora
scrivo.
Ma, anche se sembra che io scriva per
ricordarmi di lui, in realtà il motivo per cui lo faccio è più egoistico: lo
faccio solo perché non voglio parlare. Ok, detta così sembra che io sia una
ragazzina silenziosa che sta in disparte, e, in un certo senso, è vero, però io
sono un tipo molto logorroico. Parlo, parlo, parlo e parlo solo per non dover
dire ciò che mi fa stare male. Non saprei mai esprimere a parole il motivo per
cui ogni mattina mi alzo sempre più depressa, e non so nemmeno capirlo a pieno
pensandoci e ripensandoci, e l’unico modo che ho trovato per smorzare un po’ il
peso di non riuscire a parlarne è stato mettere su carta i miei problemi. Ma
anche questa è una cosa che nessuno sa e che nessuno deve
sapere.
Ho passato gli ultimi quattordici anni così,
sai mamma? Nascondendomi da me stessa. Almeno fino ad ora.
Da quando è finita l’estate e sono tornata a
scuola tutti quanti i miei segreti sono venuti fuori, uno dopo l’altro: prima
Emma e Laura hanno scoperto che io canto e mi hanno subissato di domande e
parole per dirmi quanto stupida io sia a nascondermi. Poi è arrivato
Fabio.
Oddio, Fabio. Solo a pensarlo mi vengono i
brividi. Lui è il classico tipo bello e impossibile. Ha quel fascino del
tenebroso, anche se poi tenebroso non è, e, da quando ci siamo conosciuti, non
ha fatto altro che entrare nella mia vita prepotentemente e dolorosamente. Prima
mi ha rubato il quaderno con gli appunti del mio romanzo, poi mi ha ricattato
per farmelo restituire, poi mi ha baciata a tradimento dopo avermi urlato contro
(sì, proprio urlato: sembrava un pazzo) e, infine, come se niente fosse
successo, l’altro giorno mi riporta a casa dopo che mi aveva trovata a giro per
le strade sotto la neve e mi bacia. Così, dal nulla, facendo discorsi insensati
sull’aspettarmi.
Mi fa imbestialire, sai? No, non lui, ma io.
Il fatto che non riesca, per qualche strana e contorta ragione, ad aprirmi e,
magari, fidarmi di lui. Io lo so che è sincero, l’ho letto nei suoi occhi mentre
batteva il pugno al muro e mi gridava implorante di dargli una possibilità.
Eppure non ce la faccio.
Cosa succederebbe se, un giorno, ci
lasciassimo? Se un giorno lui si rendesse conto che non mi sopporta più? Oddio,
è un dolore che ho già provato, che non voglio riprovare ancora. Mi ha
straziata, mi ha lacerata in due, lasciandomi a terra, senza fiato, incapace di
alzarmi ancora.
Sì, mamma, se tu te lo stessi chiedendo io
sono innamorata di Fabio. Nessuno può sapere quanto sto male a pensare che ho
una funzione nel cervello che mi impedisce di stare con lui. Eppure sono
convinta che vada meglio così, che un giorno, prima o poi, troverò la felicità.
E magari non con lui.
Emma e Laura, nel frattempo, si sono
fidanzate. Hanno trovato l’amore, quello vero e tangibile, e io sono felice per
loro. Lo sono, davvero. O forse no. Il problema è che mi sento sempre lasciata
indietro. Loro hanno quell’autostima meravigliosa che serve per essere felici.
Loro si vogliono bene. Perché io no? Perché io non riesco ad amarmi e accettarmi
senza dovermi distruggere pezzo per pezzo? Qual è il mio
problema?
Sai cosa vorrei, ora, mamma? Che tu e papà
foste qui. Per ricordarmi che, anche se ve ne siete andati, mi volete bene.
Anche se mi avete lasciata da sola, ci siete sempre con me.
Io so che zio e zia mi amano, e io amo loro
proprio come se fossero voi, ma non lo sono e mi rendo conto di questo ogni
giorno di più.
Te la ricordi la stella di diamanti che
avevate comprato per me quando sono nata? Quella bellissima, che brilla davvero
come una stella reale. Zia l’ha fatta diventare un puntale e la mettiamo ogni
anno in cima all’albero di Natale, così mi posso ricordare di voi e di quanto mi
volevate bene. E ogni anno è stato così: io la vedevo e sorridevo pensando che,
almeno in un giorno dell’anno, io potevo ricordarmi di voi ed essere felice.
Eppure quest’anno non ci riesco. Non riesco a fissarla senza sentire un
terribile vuoto nel petto, un dolore acuto che mi spezza le gambe. Come mai,
proprio adesso, io sento che voi non siete qui con me? Dove sei, mamma? Ho
bisogno di voi, ho bisogno di avervi qui, di abbracciarvi.
So che sono un’egoista e basta. Ho gli zii,
ho Emma e Laura, ho Johan, ho i nonni, ho tutti i miei amici, ma mi sembra che
mi manchi un pezzo. Tu mi raccontavi la storia della stella che riusciva a
risplendere, in un modo o nell’altro, anche attraverso l’oscurità dello spazio
infinito, eppure io non riesco a splendere. Io sono una lacrima, una piccola
goccia salata che cade dall’occhio degli dei. Sono una stella cadente che si
spegne lentamente giorno dopo giorno.
Ho paura, mamma, la verità è questa. Ed è il
motivo per cui ti sto scrivendo ora, per cui sto lanciando un grido di
disperazione a te che sei morta, che mi hai lasciata qui, su questa terra, come
un gattino dimenticato per strada. Magari viene adottato, gli viene dato amore,
una casa, del calore, ma non si fiderà mai perché sa cosa si prova a rimanere da
soli e preferisce deciderlo lui di vivere in solitudine piuttosto che
affezionarsi e essere abbandonato di nuovo.
Io ho paura, e ne ho così tanta da sentirmi
immobilizzata: ho paura dei sentimenti che provo per qualsiasi persona perché
temo che prima o poi io debba di nuovo affrontare una perdita terribile; ho
paura del fatto che non riesco ad essere felice e che è tutta colpa mia; ho
paura del fatto che sono stanca e che non c’è nessuno che mi dice che va tutto
bene, che posso farcela qualsiasi cosa capiti; ho paura di non riuscire più a
sentire il calore che tu e papà mi davate quando mi
abbracciavate.
In nottate come questa, in cui la neve cade
forte e il vento soffia creando un suono simile a un urlo di dolore, io vorrei
qualcuno a riscaldare anche me. Qualcuno il cui solo pensiero riesca a fare
l’effetto del termosifone quando rientri dopo essere stato tanto tempo al
freddo. Qualcuno che mi stringa forte e che mi rassicuri, dicendomi che non se
ne andrà, che rimarrà con me fino alla fine. È questo che vorrei, mamma. Non sai
quanto mi manchiate tu e papà, non sai quanto mi sento in colpa nei confronti di
zio, zia, Emma e Laura, che provano a darmi affetto e io lo rifiuto. Vorrei solo
riuscire ad essere una persona migliore.
Sta albeggiando, anche nella tormenta riesco a vedere che il
cielo si schiarisce. Devo andare. Tu dai un bacio a papà, ovunque voi siate, e
mi raccomando, non abbandonatemi anche voi. Con affetto,
Rea.
Fabio era rimasto un’ora a leggere quella lettera, finché la madre della ragazza non era andato a cercarlo. Per evitare di farsi vedere in camera della figlia, si era nascosto dietro la porta e aveva aspettato che se ne andasse. La donna si era avvicinata a lei, le aveva accarezzato i capelli e le aveva stampato un gigantesco bacio in fronte. “Dormi bene” le aveva augurato, poi era tornata in salotto.
In quel momento la lettera che lui aveva in mano era pesata otto quintali e non riusciva a capire come mai Rea stesse tanto male nonostante tutto l’affetto che aveva intorno.
Si avvicinò a lei e la fissò.
“Quale è il tuo problema?” le chiese piano. Come se l’avesse sentito, la ragazza aprì un occhio e lo fissò confusa, poi gli prese una mano.
“Signore, mi può proteggere lei?” lo implorò. Di nuovo. Fabio sentì i battiti del cuore accelerare mentre lei si riaddormentava e si staccò lentamente dalla sua stretta.
Andò a cercare Emma e Laura con un bisogno impellente di parlarci. Erano le uniche due che potevano farla ragionare, di questo era sicuro.
Le trovò sedute sul divano con i rispettivi ragazzi, e si avvicinò senza dire niente. Loro sobbalzarono quando lui le prese per un braccio e le trascinò via.
“Ehi, fermo!” protestò la mora.
“No, vi devo parlare” si rifiutò il ragazzo, facendole entrare in cucina.
“E non potevi chiedercelo?”
“No, non mi avreste ascoltato. Ora sedetevi” ordinò, chiudendosi la porta alle spalle. Anche se di motivi particolari per dargli ascolto non c’erano, il tono di voce di Fabio fece capire alle due che non era il caso di controbattere e si misero comode su una sedia.
“Forse è bene se leggete questa” decise lui. Passò la lettera di Rea sul tavolo e loro si misero a guardarla, prima fiduciose poi, via, via, sempre più incuriosite.
“Lei pensa questo?” esclamò Laura, incredula. Il ragazzo annuì gravemente.
“E non solo. Ha bisogno di aiuto e tramite ciò che scrive ci manda una richiesta rumorosa. Dobbiamo fare qualcosa” spiegò.
“Perché dovresti interessartene?” domandò Emma, brusca.
“Sono affari miei” rispose lui, arrabbiato.
“E’ nostra sorella, quindi sono anche affari nostri” gli fece presente. Fabio perse le staffe.
“Certo, è vostra sorella quando vi torna comodo! Dove siete quando lei piange o quando si distrugge l’autostima perché non si sente all’altezza? Non sapevate nemmeno che scrive! E dire che vivete sotto lo stesso tetto. Belle sorelle, non stento a credere che si senta sola” sbottò. Le ragazze rimasero in silenzio, colpite da ciò, e si guardarono imbarazzate.
“D’accordo, qual è il tuo piano per farla stare meglio?” domandò Laura.
“Dovete prenderle i quaderni con i romanzi che ha scritto e portarli a me. Da lì in poi studieremo un piano d’azione” le istruì.