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Autore: Hanabi Lawliet    09/09/2012    0 recensioni
“Dolore, dolore… ma poi per cosa? Cosa lo subiamo a fare? non ci sarà paradiso, non ci sarà gloria da guadagnare, niente di niente, eppure…” mi ritrovavo a pensare varcando l’aula 15 “e poi, in questa scuola, non c’è nemmeno un corso di disegno”.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Elisabeth
Entrando nell’aula 15, così familiare, notai che ogni cosa era come l’avevo lasciata, circa due mesi prima, finita la scuola. Gli stipiti della porta scrostati, le tende bucate, che non avrebbero trattenuto neanche quell’anno il caldo soffocante di fine agosto, era tutto lì, come se il tempo fosse trascorso fuori, ma avesse dimenticato dietro di sé quella minuscola stanza. Persino i granelli di polvere che aleggiavano pesantemente in aria sembravano restare sospesi più a lungo del solito.
Odiavo il primo giorno di scuola, e tutti gli abbracci che questo portava, le strette troppo enfatizzate, i baci rumorosi, quella anacronistica vitalità che percepisci nell’aria, e che di lì a pochi giorni sarebbe scemata. Ma non avrei mai immaginato che quel giorno, quel 17 settembre di circa un anno fa, mi avrebbe aperto un accesso al misterioso mondo di Rose Mary.
Quando tutti ormai avevano preso posto e il rumore si era trasformato in brusio di fondo, entrò, sbattendo la porta contro il muro. La postura era scomposta, storta, nascondeva le forme del corpo, eppure non si riusciva a non notare la straordinarietà di quei lineamenti, diversi, ma ugualmente belli. I capelli, raccolti all’indietro in una coda tirata, ti infuocavano lo sguardo, rossi, in contrasto con la pallida carnagione, così chiara che persino le labbra, appena rosate, spiccavano. Gli occhi, neri neri, erano il tratto che ti colpiva di più: per qualche momento ti fissavano, austeri, e ti entravano dentro come spilli ardenti, ma si abbassavano subito, diventando schivi, accompagnati da una contrazione dolorosa della fronte. La gonna della divisa, troppo corta, copriva a stento il sedere,  e persino la maglia, di filo sottile, lasciava intravedere sotto il tessuto leggero le coppe di un reggiseno scarlatto, come se il protocollo scolastico, che vietava categoricamente di mostrare le proprie curve, non fosse mai stato scritto.
Rose Mary
Fin da piccola, o almeno fin dove il mio ricordo di bambina arriva, ho sempre passato i miei pomeriggi insieme a mio padre. Direttore di una delle più illustri banche degli stati uniti, non che grande matematico, mi insegnò da subito i primi passi del mestiere, sfornando fogli ricchi di calcoli, che  mi metteva davanti dall’età di cinque anni.
Forse, ripensandoci, la matematica mi sarebbe potuta anche piacere.
All’inizio mi divertivo a copiare i numeri dalle varie reliquie dell’università di mio padre, preferiti i manuali di economia; ma arrivata alle medie, sognavo di poter uscire da quello studio e di correre fori all’aria aperta, giocare; mi immaginavo tutti quei numeri, naturali e non, uscirmi dall orecchie e disperdersi nell’aria, mentre mi rotolavo giù per un verdeggiante pendio. Eppure continuavo a respirare polvere e matematica, incessantemente.
Fu lì che iniziai a disegnare; imbrattavo intere schede, per ammazzare la noia, trasformando l’algebra in un paesaggio tropicale, la geometria in spiagge sconfinate, l’aritmetica in un deserto roccioso. Il passaggio dal gioco alla passione fu breve.
Ma sfortunatamente la mia bravura nel disegno era proporzionale a quella in matematica; gli insegnanti mi adoravano, dipingendomi agli occhi dei miei, ed in particolare a quelli di mio padre, come un genio . ricordo ancora le parole che sussurravano ai consigli, orgogliosamente:
<< Rose è sempre stata una brava bambina, ci sa fare, coi numeri; ha imparato a sottrarre ancor prima di saper scrivere il suo nome!>>
Quando arrivai al liceo, la mia vita cambiò radicalmente. Odiavo mio padre, così mi iscrissi al corso di disegno, uccidendo i sogni di gloria dell’uomo che mi aveva rovinato l’infanzia. Fu lì che conobbi Mattia: occhi neri, capelli neri e arruffati, sguardo cupo e tenebroso, che faceva trapelare tutta la sua passione per l’arte, un’emozione così profonda che non riuscivi, vedendolo, a non pensare “Cavolo, l’amore vero allora esiste!”. Io, come uno scoglio in mezzo a un mare di tenebre e fantasmi, venni completamente travolta da quell’ondata di sentimenti, che mi trasportò via ogni polvere di rancore depositata sul mio cuore. Quelli che seguirono furono i mesi più belli della mia vita; avvolta nell’odore di pastelli a cera, con la faccia segnata a tratti dal carboncino, passavo i miei giorni a disegnare. Le intere ore che trascorrevamo seduti su quegli scomodi sgabelli di paglia che tanto pizzicavano le cosce, ancora adesso nei momenti di depressione sono il miglior farmaco contro la malattia dell’animo che mi corrode. A volte, invece, facevamo l’amore: il mondo di Mattia era il mio, vivevo per lui, e non gli negavo nulla.
Ma poi, quasi una fiction televisiva, dalle stelle si passò alle stalle.
Non c’è niente da dire: quando mio padre scoprì che al corso di trigonometria non avevo mai messo piede, e che la sua unica figlia aveva perso la verginità a quattordici anni, non trattenne il moto di rabbia che lo investì e mi picchiò. Mia madre, al contrario, non parlava proprio; non le interessava che io girassi con un livido bluastro sullo zigomo destro, non le impressionava l’idea che la mia libertà mi fosse stata negata un’altra volta, non si curava nemmeno del fatto che fossi stata spedita in una scuola privata a tre ore da casa.
“Dolore, dolore… ma poi per cosa? Cosa lo subiamo a fare? non ci sarà paradiso, non ci sarà gloria da guadagnare, niente di niente, eppure…” mi ritrovavo a pensare varcando l’aula 15 “e poi, in questa scuola, non c’è nemmeno un corso di disegno”.
  
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