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Autore: Brin    10/09/2012    6 recensioni
“Cosa faresti se non potessi morire?” è un problema che Gemma non si pone, non quando il cancro si sta portando via il suo ragazzo. L'unica soluzione che riesce a vedere è rappresentata dal Vitotal, una medicina che tutti hanno imparato a conoscere come “il farmaco dell'immortalità”. Un miracolo realizzato che ha privato il mondo della propria umanità. Per averlo Gemma è disposta a tutto, persino a gettarsi tra le braccia di quelli che dal Vitotal si sono fatti corrompere fino al midollo. Persino ad appartenere ad “Hannibal”. Così infatti è conosciuto Dante, uno che dal Vitotal è stato compromesso talmente a fondo da portare gli effetti nel corpo e nella mente.
In un mondo che assieme alla morte ha perso anche la sua umanità, come può ancora esistere l'amore?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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ATTENZIONE!
Vitotal NON È una storia per stomaci delicati. E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno, diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona lettura.








CAPITOLO 2


La vita e la morte al tempo del Vitotal



*


I sobbalzi del furgone non sembravano abbastanza forti per spezzare l’apatia che chiudeva quelle donne nel loro stesso mutismo: erano leggeri, appena molesti, e costringevano i passeggeri a seguirne il ritmo mollemente, inermi nel corpo allo stesso modo in cui lo erano nello spirito.
Era una di loro, Gemma. Lo era per scelta del destino, di quegli eventi disperati che l’avevano portata a scegliere l’unica strada che nessuna persona sana di mente avrebbe mai deciso di percorrere. Si trovava tra quelle donne spente nello sguardo, silenziose, morte dentro, eppure era profondamente diversa da loro.
Non condivideva la muta rassegnazione con cui si chiudevano nel buio di quel furgone, tanto per cominciare. Nei loro occhi rivolti al terreno non c’era riflessa alcuna speranza, nessun tormento per cui lottare, nessuna vita a cui aggrapparsi. Erano una cupa, disperata rinuncia che in Gemma non esisteva: lei era andata in cerca di quelli laddove sapeva che li avrebbe trovati, ovunque fosse il buio. In qualunque angolo di Londra in cui il coprifuoco non arrivasse a spargere la propria, insignificante protezione.
Lo sentiva cantare la propria beffa persino in quel momento, mentre studiava i volti delle donne con la schiena appoggiata contro la lamiera del furgone e le mani ammanettate. Lo sentiva perfino lì, nella fredda pancia di un camion che trasportava il suo carico notturno di vite umane: il lamento prolungato e altalenante della sirena era un canto inquietante che prometteva incubi e morte a chi non avesse rispettato l’avvertimento che portava con sé, un boato straziante che segnava l’inizio di un coprifuoco necessario. Un boato che aveva costellato le giornate di Gemma da tanto, troppo tempo.
Lacerava il silenzio della sera con la forza di un pugnale conficcato nella carne, uno strazio che squarciava l’anima e scatenava brividi fastidiosi nello stomaco.
Era l’agonia di una città morente costretta a metter sotto chiave la propria vita, un suono che suscitava in Gemma le stesse sensazioni di sempre - inquietudine, ansia, attesa - e che ora, al centro esatto dell’incubo che quei lamenti portavano con sé, sentiva rinnovate.
Ricordava quando ogni notte, alla stessa ora, quel boato rimbombava in ogni fibra del suo corpo. Ogni volta le lasciava addosso un viscido senso di impotenza che non riusciva a cancellare perché, sera dopo sera, la consapevolezza che quelle persone penetrassero in città era una certezza che non lasciava scampo, nemmeno ai malcapitati che si trovavano a incrociarli durante il coprifuoco. E lei non poteva fare altro che rimanere chiusa tra le mura di casa, l’unica precaria barriera che la riparava dai crimini invisibili di una sporca guerra civile in cui ogni cosa era concessa.
Rintanata in una città rimasta orfana della propria umanità, almeno fino a quando la guerra non era penetrata con i propri significati tra le mura del suo piccolo mondo, lasciandola innamorata, disperata e pronta a vendere l’anima.
La gente spariva, inghiottita dal buio delle strade di Londra. Rapita da loro, portata chissà dove. Dio solo sapeva per quale scopo.
Nessuno riusciva a spiegarlo, nessuno intendeva scoprirlo: meno ci si mischiava con quelli, più si guadagnava sotto ogni punto di vista.
Prima della Cura la situazione non era stata così esasperata, Gemma lo ricordava perfettamente: non c’era motivo per il coprifuoco, non c’erano rapimenti, non esisteva paura. Erano solamente ricordi di bambina, sfuocati e idealizzati, eppure ne era così certa che avrebbe potuto scommettere sulla loro veridicità in qualunque momento, a cuor leggero. Era stato il Vitotal a rovinare ogni cosa.
A togliere l’umanità alle persone.
Poche pillole bianche assunte con regolarità erano bastate a trasformare Londra e il mondo, a scoperchiare l’avidità senza fine degli uomini, brulicante come un ammasso di vermi nascosto in una carcassa marcia. E da allora tutto era cambiato.
La città, le persone… Loro… Erano stati consumati dalla stessa cupidigia che lacerava la loro anima e che li aveva portati ad affidare la loro vita a una promessa di immortalità, segnati per l’eternità nel corpo senza possibilità di ritorno. Un cancro che aveva diviso la città, che l’aveva smembrata e sporcata di marcio, di invidia, di paura, di ribrezzo. Persino di morte, nonostante loro non potessero smettere di vivere. Perché Londra aveva allontanato quelli, relegandoli ai suoi piedi immacolati per proteggersi dalla loro disperazione e da quell’odio rancoroso che li aveva portati ad alzare le mani contro i fratelli che non si erano fidati del Vitotal, contro coloro che avevano rifiutato la Cura.
Il risultato era stato una rappresaglia violenta; incursioni affamate, disperate. Persone morte, persone scomparse, persone trucidate con l’accusa di aver rifiutato l’immortalità e i suoi devastanti effetti collaterali. Fenomeni straordinari consumatisi all’ordine del giorno, per anni. In breve tempo, per Londra il caos e la guerra civile erano diventati la normalità.
Per Gemma, invece, le cose stavano diversamente: crescendo aveva capito che il Vitotal era stato la tomba dell’umanità. Un vaso di Pandora che aveva legittimato ogni più cupa ossessione delle persone, una miccia che aveva rotto gli argini e aveva fatto uscire i demoni peggiori nascosti nel fondo inaccessibile dell’animo umano.
Non era rimasto più nulla, dopo la Cura: l’amore, l’empatia, il sacrificio… Ogni cosa era stata seppellita dal Vitotal in un cumulo dimenticato, calpestato e lasciato a marcire nell’odio reciproco e nella paura.
E, come ogni altro libero cittadino di Londra, anche lei era stata educata a odiare loro: persone corrotte nell’anima e nel corpo, persone che non potevano morire. Persone lacerate dall’invidia e dalla rabbia, consumate dal desiderio di tornare indietro e di disfare i propri sbagli. Era stato relativamente semplice lasciarsi plagiare dalla collera per ciò che quelli stavano facendo alla sua gente: abbandonarsi alle voci che abbaiavano la propria indignazione ai telegiornali per la notizia dell’ennesima scomparsa in Trafalgar Square era facile e fin troppo veloce.
Un’istigazione ammaliante che non lasciava scampo.
Probabilmente si era crogiolata troppo a lungo in quello stato di coscienza passiva, quello era il suo peccato, perché non riusciva a pensare a nessun’altra colpa sufficiente a giustificare il contrappasso che si era abbattuto sulla sua testa.
Per un tremendo scherzo del destino, infatti, Gemma si era ritrovata gettata nello sconforto più nero da un giorno all’altro, disperata all’idea di perdere una delle persone più care che avesse. All’improvviso, il Vitotal – quelle pastigliette piccole e bianche, che segnavano in maniera irrimediabile l’esistenza di una persona - le erano sembrate l’unica via di uscita da quell’incubo che non aveva il coraggio di affrontare.
Lasciare andare il suo ragazzo nel letto di morte non era un’opzione.
Lui che era vittima del male che lo stava consumando, lui che si stava spegnendo sotto l’avanzata inarrestabile del tumore… Lui che era stanco, malato, divorato nel corpo e nello spirito da un nemico troppo grande… Gemma era troppo codarda, per lasciarlo andare.
Troppo egoista.
Troppo ignorante.
Troppo innamorata.
Non aveva visto abbastanza. Il Vitotal, i suoi effetti irreversibili, l’inferno perpetuo a cui il farmaco condannava… Gemma non aveva visto niente di tutto questo, e quando si era trovata davanti a quegli uomini incappucciati, tutto quello che aveva provato era stato sollievo.
Mentre la circondavano, mentre le premevano le mani protette dai guanti sulla bocca, mentre la immobilizzavano e le strappavano ogni forma di libertà… Avrebbe dovuto farsi travolgere dall’orrore per quello che le stava succedendo. Avrebbe dovuto agitarsi e gridare, avrebbe dovuto lottare per riconquistare il diritto a difendere la propria vita perché, Dio, quelli facevano sparire per sempre le persone.
Eppure, mentre le mettevano le mani addosso e la caricavano sul furgone che le aveva precluso la strada, tutto quello che aveva provato era stato un sollievo profondo che non conosceva logica, una condanna al massacro che lei aveva accolto con gioia.
Era stata la morte dell’istinto di sopravvivenza.
Era stata la perdita di ogni coerenza, di ogni logica, di tutto quello che ruotava attorno all’umanità, e lei l’aveva abbracciata con una gioia disperata.
Tutto, pur di salvare il suo ragazzo.
Così eccola lì, in quel furgone, diretta verso luoghi da cui Dio aveva distolto lo sguardo.
Non parlò mai, per tutta la durata del viaggio. Nessuno lo fece, a dire la verità: tutte le persone che viaggiavano assieme a lei su quel furgone restavano chiuse nel loro mutismo, un silenzio affollato da pensieri fin troppo pesanti per riuscire a vincerlo.
Gemma ascoltò ogni singolo sobbalzo. Restò con la mente protesa verso i rumori del motore, verso quel ritmo dinamico che descriveva un percorso che lei poteva solamente immaginare. Eppure, per quanto tentasse di capire dove fossero diretti, tutto quello che riuscì a raffigurare nella propria mente erano un mucchio di punti senza capo né coda, vie che avevano inizio ma che si disperdevano dopo i primi metri di tragitto.
Era smarrita, Gemma, e quella stessa dispersione che l’attanagliava alla gola al suo primo fallimento era la stessa che riconosceva negli sguardi delle persone che condividevano con lei l’abitacolo e la sorte.
Perché forse, dopo tutto, quelle donne non erano poi così diverse da lei.



*


Arrivarono a destinazione dopo minuti interminabili, una tortura che avrebbe condotto facilmente all’isteria chiunque non avesse avuto un obiettivo abbastanza saldo a cui aggrapparsi per non affondare.
Quando aprirono le porte del furgone – quando si spalancarono le porte della prova più difficile che avesse mai affrontato -, Gemma era aggrappata nel cuore all’uomo che l’aspettava a casa, in quel capezzale di morte e condanna che non gli avrebbe lasciato scampo alcuno, a meno che
«Scendere!» un omaccione dai modi bruschi la trascinò fuori, una spinta poco paziente che la fece caracollare al contatto con il terreno. «Veloci, scendere!»
Non riservarono loro buone maniere naturalmente, né Gemma le concesse: strappò il braccio dalla presa dell'uomo, un bisonte nella stazza e un cinghiale nello sguardo, con quegli occhietti cisposi che la guardavano come se fosse l'ennesimo pezzo di carne destinato al macello.
«Faccio da sola!» si difese da quei modi racimolando ogni spicchio di autonomia che ancora le era consentita, ma dal modo in cui lui la guardò... Beh, da quello non ci fu difesa: le entrò dentro strisciando, come un presentimento disgustoso e tremendo, e rimase lì, sotto la pelle, a pungolarla con il suo respiro viscido. Non riuscì a scrollarselo di dosso quando si unì alla fila di donne e uomini scesi dai furgoni - uno, due, cinque furgoni, che vomitavano un carico di vite esagerato -; non riuscì a disfarsene neppure quando alzò lo sguardo sull'immenso edificio che le svettava davanti, un albergo di mille e mille piani proteso ad arrampicarsi verso il cielo. La sensazione di essere un numero era lì, in pieno petto, tra il cuore e lo stomaco.
Pensa a Curtis. Pensa disperatamente a lui, finché non avrai neppure il tempo per provare paura.
E lo fece, Gemma. Pensò a lui, alla luce che aveva portato nel periodo più buio della sua vita; alla dolcezza che le aveva asciugato le lacrime, al vuoto che aveva colmato. Le aveva ricordato come fare per sorridere, Curtis, e da quando l'aveva conosciuto tra i banchi di scuola molti anni prima, quei sorrisi sul volto di Gemma erano diventati sempre più frequenti.
Le aveva fatto dimenticare. L'aveva indotta ad andare avanti, a non pensare a ciò che aveva riempito la sua vita fino a quel momento - fino alla notizia che aveva fatto precipitare il suo sorriso nel buio più denso.
Lasciarlo andare non era un'opzione possibile. A costo di scendere a patti con quelli che avrebbe dovuto odiare - Dio, era pronta a stringere qualunque genere di patti, senza riuscire a mettere a tacere la disperazione abbastanza da provare ribrezzo -, avrebbe portato Curtis indietro. Da lei.
Alla vita.



*


La costrinsero a restare nel gruppo ormai avviato verso l'entrata, e quando oltrepassò le porte - occhi degni di quell'albergo opulento e bocca di un inferno di cui non si potevano ancora distinguere i contorni -, Gemma si ritrovò catapultata in una hall che richiamava a sé tutto il lusso del mondo, come se quella ricchezza di qualità dovesse coprire il marcio che brulicava oltre le apparenze.
E scommetto che di marcio qui ce n'è eccome.
Di persone, invece, quasi non ce n'erano: erano poche quelle sedute sui divani, intente a parlottare; vestite di tutto punto come uomini d'affari con le mani sporcate dalla stessa sporcizia che imbrattava la loro vita. E la musica... Il suo rimbombo nasceva nel piano inferiore e risaliva attraverso il pavimento, su quel marmo che sembrava tremare sotto i piedi di Gemma.
Riuscì a sbirciare poco della hall, un paio di occhiate lanciate senza attenzione. Nulla più di questo, prima che l'ascensore si aprisse sul piano: ne uscì una donna giovane e bella, i capelli rossi - certamente tinti - che le cadevano sulle spalle lasciate scoperte, il corpo fasciato in un tubino nero che le disegnava le curve alla perfezione.
Era sbucata assieme all'odore di tabacco che scivolava dalla sua pelle, in mano un calice vuoto, usato; sul volto un sorriso calibrato con attenzione nel giusto mix di femminilità e seduzione.
«Che avete portato?»
«Quello che vedi, Agatha» uno degli uomini che li avevano fatti scendere dai furgoni si fece avanti, indicandoli con un cenno della mano. Era piuttosto giovane, non più ragazzo ma neppure uomo fatto e finito, ma nonostante questo i suoi occhi contenevano una maturità strappata con i denti al futuro. «Maschi, femmine... Il solito.»
Il solito? Dio, è come se questa gente vivesse d'orrore.
Lei si prese il suo tempo per studiare i prigionieri, le mani che giocavano con il bicchiere, le unghie ingellate che battevano sul vetro. Camminò davanti a loro lentamente, valutando chissà cosa sui loro volti. Sui loro corpi.
Gemma la guardò avvicinarsi con l'ansia che le divorava lo stomaco, il pensiero di Curtis che tentennava davanti a quell'esame, a quelle parole, alla familiarità che quelli dimostravano davanti a una simile situazione. Poi la donna le fu davanti: la squadrò partendo dai piedi e salì, salì, salì fino all'altezza del seno. E lì si fermò.
«Che cos'è quello?» domandò indicando la collana che campeggiava sopra il maglione. Gemma non ebbe neppure bisogno di calare lo sguardo, per capire: si riferiva al pendente infilato in un semplice cavo di caucciù, l'unico pezzo che rendesse quella collana effettivamente tale. Un medaglione che era stemma del suo passato, e che uno stemma in fin dei conti lo portava per davvero. Non se ne separava mai.
Fece spallucce. «... Una collana?»
«Geniale. Pensavo fosse una sciarpa» la donna la guardò annoiata, il sarcasmo che filtrava goccia dopo goccia dalle sue parole. «Intendevo la medaglietta. Da dove arriva?»
«Mi è stata regalata molto tempo fa.»
«Capisco.» Il suo sguardo si fece meno ostile, quasi premuroso mentre prendeva la collana tra le mani e gliela faceva scivolare sotto il maglione. «Questa però è meglio se la tieni nascosta. Il marchio che porta non è molto apprezzato da queste parti.»
Poi riprese il suo esame, superando Gemma e continuando a soppesare il resto dell'umanità che aveva davanti. Quando fu abbastanza soddisfatta di ciò che aveva potuto vedere, si voltò verso il ragazzo.
«Va bene, Allen. Le donne vengono con me. Degli uomini invece sai cosa farne.»



*


Stiparsi dentro quell'ascensore fu come ammassarsi in un carro bestiame destinato all'inferno. Scese senza fare rumore, soltanto un leggero salto prima di muoversi: le porte si chiusero davanti a loro portando via qualunque possibilità di fuga, incastrandole sempre più a fondo nella pancia dell'Overlook Hotel e di quell'incubo che ancora non aveva una faccia. Via, oltre il piano terra, ad affogare lentamente e senza possibilità di ritorno. Quando arrivarono, il display sopra le loro teste indicava -1.
«Vi faccio fare il giro lungo» Agatha annunciò non appena le porte si aprirono, e in quell'istante furono due le cose che colpirono i sensi di Gemma: il corridoio sul quale l'ascensore si era aperto – quasi del tutto buio, ad eccezione di una fila di piccoli led posti come punti luce sul pavimento – e la musica che proveniva dal fondo del corridoio, laddove due porte antipanico si aprivano su un salone avvolto da luci soffuse.
«Che cosa avete? La discoteca?» le venne quasi naturale fare dell'ironia su quella cosa che le si prospettava davanti, quasi fosse una piccola, ignobile vendetta di cui accontentarsi per qualunque merda le avrebbero tirato addosso da lì a breve tempo, ma Agatha si voltò a guardarla proprio davanti all'imboccatura della sala. Lì, ferma davanti alle luci che stavano per inghiottirle – e attraverso cui Gemma poteva distinguere contorni di tavoli, divani, banconi, pali e palchi da vetrina – aveva il sorriso sbilenco di chi sta per venderti salvezza e dannazione in una comoda formula tutto incluso.
«Non fare la spavalda. Non qui, non con me. Se vuoi durare devi imparare a farti degli amici, e che siano giusti, o non uscirai viva da questo posto. Nessuna di voi lo farà.»
Farsi degli amici. Era indubbio che gli amici, lì, avrebbero dovuto essere persone di una certa importanza, con tutte le agghiaccianti implicazioni del caso.
Cioè dovremmo essere accomodanti, e possibilmente offrirci a novanta gradi?
Le venne un moto di nausea soltanto a pensarci. Il disgusto le si appiccicò alla gola, il pensiero di Curtis che lo rendeva appena un po' più liquido, un po' più facile da spingere giù, laddove era in qualche modo controllabile. Le parole però le si inchiodarono sulla lingua e non ne vollero sapere di scollarsi da lì neppure quando Gemma entrò nel locale.
L'aria era irrespirabile.
Fumo, musica, sballo, carne in abiti succinti mostrata senza ritegno, sbattuta in faccia a chiunque passasse come se fosse una merce senza importanza. Era tutto lì, nello spazio di quella sala enorme adibita a night club, sospeso sopra le teste di donne e clienti come monito e promessa: questo è il vostro posto, diceva alle prime; qui è dove passerete le serate migliori della vostra vita, assicurava ai secondi.
E Gemma capì con un moto di orrore.
«Rapite le donne per farle prostituire!»
«Che ti aspettavi, che le portassero qui per cucinare il pranzo?» Agatha ribatté sarcastica, un'indelicatezza che in quel frangente, con quella realtà tremenda davanti agli occhi, urtò Gemma più di ogni altra cosa. Fu sul punto di ribattere, ma quell'altra la precedette.
«E comunque non finirete tutte a lavorare in questo piano dell'Overlook. Tra gli affari del Benedict Group non c'è soltanto la prostituzione.»
Questo sì che è confortante.
Nessuna di loro parlò mentre attraversavano il locale. Nessuna osò guardarsi troppo in giro, perché se l'avessero fatto probabilmente avrebbero perso persino la speranza più disperata, l'ultima, quella in grado di salvare molto più che la vita nei momenti d'impotenza. Nessuna osò respirare mentre passavano lì, sotto ai palchi, sotto ai pali a cui erano agganciate donne uguali a loro; madri, sorelle, amiche, amanti che si erano viste rubare l'esistenza. Nessuna riuscì a guardare quelle puttane in faccia, perché il timore di scorgere nei loro occhi qualunque forma di pietoso benvenuto le avrebbe certamente uccise. Nessuna, tranne Gemma.
Lei rubò momenti di miseria a quelle donne che le guardavano dall'alto del loro tacco dodici, pochi attimi soltanto, quanto bastava per non farsi travolgere completamente dalle circostanze. Guardare in faccia il nemico – che in quel frangente era impersonificato da una situazione ostile e ignota – era tutto ciò che poteva avere: un magro contentino naturalmente, ma, Dio, Gemma aveva disperatamente bisogno di avere qualcosa tra le mani che potesse impegnarle la mente e i pensieri.
«In questo piano riceviamo le visite dei clienti, che provengono dalle estrazioni sociali più diverse: alcuni cercano semplicemente due chiacchiere per ingannare il tempo, ma molti vogliono un altro tipo di compagnia. Andare con persone vive, che non hanno mai preso il Vitotal, è un feticismo molto diffuso tra quelli come loro.» Agatha spiegò con naturalezza inquietante, come se fosse una cosa normale.
Come se l'avesse ripetuto tante, troppe volte.
«Loro? Perché, tu non sei una di loro?» Gemma la guardò diffidente, lo squallore di quella situazione che le si stringeva sempre di più alla gola. Il sorriso spezzato che Agatha le restituì - come se volesse dirle povera stupida, tu che non sai cosa succede qua dentro a quelle come noi -, fece il resto.
«No, gioia, e non sono la persona più conveniente con cui fare amicizia. Perciò risparmia il fiato per quello che arriva adesso, perché scendiamo al secondo piano sotto terra.»
Parole inquietanti.
Parole che lasciavano aperti significati infiniti e tremendi.
Parole che rendevano chiaro quanto ciò che accadeva lì dentro andasse ben oltre i novanta gradi di un corpo costretto ad offrirsi.
La domanda le scappò di bocca prima che Gemma potesse fermarla, la voce spezzata da un'emozione angosciosa che avrebbe desiderato sussurrarle che no, non era il caso di saperlo davvero. «Se qui c'è una discoteca, lì cosa c'è?»
Perché, Cristo, era fin troppo chiaro.
Era scritto ovunque.
Lì dentro si andava verso il sangue.
«Un'arena.»



*


Scesero di un piano ancora, il frastuono che si spargeva ovunque attorno a loro per ogni passo che le portava sempre più vicine alla meta. Agatha le fermò davanti all'entrata.
«Quello che state per vedere è un altro business del Benedict Group. I combattimenti tra gladiatori fruttano un bel giro di scommesse, il che a sua volta frutta collaborazioni importanti con le persone giuste» poi guardò Gemma, il riferimento agli amici di cui le aveva parlato che brillava nei suoi occhi furbi. «Tra l'altro sono uno spettacolo molto seguito dalla gente.»
«Gladiatori?»
«Ovviamente non si ammazzano l'uno con l'altro, ma non si fanno nemmeno le carezze.»
Entrarono una dietro l'altra, in fila, come schiave obbligate a leccare il pavimento; i pensieri lasciati muti, senza voce che potesse dare colore alla paura.
Quando Agatha aveva nominato l'arena, Gemma aveva pensato subito a un sotterraneo umido e ammuffito, qualcosa in stile Fight Club che con un po' di fantasia – molta fantasia, in effetti – si trasformasse all'occorrenza in un raffazzonato contorno per duelli e violenza. La realtà però era ben lontana da ciò che lei si era immaginata: non c'era umidità né muffa lì dentro, non c'erano neppure i contorni di un locale destinato a ben altro uso. Ogni cosa sembrava costruita apposta per rendere l'arena un luogo nascosto, introvabile, seppellito sottoterra e oltre la coscienza; per farlo diventare un luogo in cui consumare fino all'osso le peggiori brutture che le persone si portavano dietro.
Oh mio Dio.
Stare lì dentro le faceva venire la nausea.
Affacciare lo sguardo sugli spalti che correvano giù, verso il centro, nel cuore pulsante dell'arena... Farsi riempire la testa dalle grida concitate degli spettatori che si spingevano a vicenda pur di conquistarsi un centimetro di spazio da cui poter vedere... E, per l'amor del cielo, quello che due uomini, lì al centro, si facevano l'un l'altro, accerchiati dalle facce di quella gente che chiedeva le loro teste...
Come se non poter morire sia una scusante per tutta questa violenza.
Sopprimere un conato non fu semplice. Prima di riuscire a parlare, Gemma fu costretta a deglutire più di una volta per riempire lo stomaco di qualcosa che fosse diverso dallo squallore che le si stava attorcigliando in pancia.
«Perché siamo qua? Cosa centriamo con questo posto?»
L'occhiata che Agatha le lanciò non le piacque affatto: aveva il sentore dell'amarezza derisoria di chi nell'orrore c'è già sguazzato da tempo, talmente a lungo da esserselo fatto amico. «Come sarebbe a dire? Gioia, non dirmi che ancora non l'hai capito!»
Non è che non l'abbia capito, è che ho paura di capirlo.
«Il vincitore di ogni combattimento ha diritto a un premio. Di solito ha due opzioni: o può scegliere la morfina, che è un bene fin troppo desiderato da queste parti, oppure...»
Il senso di quella frase era lì, sospeso nell'aria, come un testamento ingombrante e indesiderato. E Gemma capì, raggelata, l'orrore stampato nella voce che gli diede forma.
«Oppure donne.»
«Brava, gioia. Donne. Voi siete il trofeo.»

*


NOTE DELL'AUTRICE



Non so come ringraziarvi! Avete accolto Vitotal con un entusiasmo che non mi aspettavo! *__* Spero davvero di riuscire a rendere la storia com'è nelle mie intenzioni, anche perché mi pare di capire che le vostre aspettative per Vitotal non sono niente male :P
Venendo al capitolo, spero non sia risultato troppo noioso o troppo lento: purtroppo siamo all'inizio della storia, bisogna introdurre il mondo in cui la vicenda è ambientata, e questo basta già per scatenare le mie paturnie XD Nel prossimo capitolo le cose si faranno più interessanti, ve lo prometto: anche perché arriverà Hannibal, un personaggio che personalmente adoro e che credo sarà quello più difficile di sempre da gestire. Che volete farci, mi piacciono le sfide! :P
L'Overlook Hotel ovviamente è un omaggio a Shining, di Kubrik.

Vi ricordo che potete trovarmi su facebook o nel gruppo facebook dedicato alle mie storie: per le mie lettrici le mie porte sono sempre aperte, quindi non fatevi problemi! Vi chiedo solamente di dirmi che mi leggete se mi chiedete l'amicizia perché altrimenti rischio di non accettarvi :P
A presto con il prossimo capitolo,

Brin
   
 
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