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Autore: Viki_chan    10/09/2012    1 recensioni
"Si era preso tutto il letto, aprendo gambe e braccia.
Ogni angolo era occupato, ogni cuscino gli apparteneva.
Anche le lenzuola cremisi erano accartocciate sotto il suo corpo.
Venice si disse che trovare qualcosa di filosofico da pensare vedendo con che velocità lui si era ripreso il suo spazio era sbagliato.
Si disse che aveva dormito troppo poco e che non era una buona idea prendere decisioni affrettate con solo un paio di ore di riposo alle spalle."

Venice è una ragazza confusa.
G. ama la sua solitudine.
Eppure sono insieme, anche se per poco.
Forse per pochissimo.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi dispiace per coloro che si erano appassionati a "La Porta Rossa". Ho dovuto cancellare la storia perchè era troppo vera.
Mi dispiaceva però lasciare Venice e G. solo sui miei appunti.
Loro sono quasi carne, li sento miei.
Dedico questa storia a tutte le Venice che esistono. Ce ne sono tante, ovunque.
Buona lettura.



Era un po' come se avessimo avuto davanti a noi un piatto stra pieno e avessimo mangiato tutto in un lampo,
e non era avanzato niente.
Forse è così che le coppie resistono:
evitando di abbuffarsi.
Sanno che quello che hanno davanti deve durare a lungo,
e così lo centellinano.
Anche se spero che la ragione non sia questa.
Spero che, quando due persone stanno bene insieme,
sia come se qualcuno continuasse a riempirgli il piatto.
(N. Hornby)


 

According to G.





Luce.
Venice aprì gli occhi e si voltò verso la finestra alla sua sinistra.
Le tapparelle abbassate facevano entrare delle lame di luce.
Era mattina.
Aprì e chiuse le palpebre un paio di volte, si guardò intorno: la stanza in cui si trovava era disordinata e piena di oggetti.
E di vestiti lanciati sul pavimento, lo sapeva anche se non li poteva vedere.
Rimase a fissare il soffitto per un po’, il lampadario appeso sopra alla sua testa.
Poi dovette girarsi verso di lui.
Dormiva.
Era a pochi centimetri da lei, di spalle.
Venice si accoccolò sullo stesso lato, allungò la mano verso la sua schiena, poi si fermò.
Non voleva svegliarlo, era troppo presto.
Doveva aver dormito poche ore, troppo arrabbiata e infreddolita.
Si guardò, la sua maglietta bianca sporca di vodka alla fragola era comoda e profumata di lui.
Lui che dormiva e respirava profondamente accanto a lei.
Di nuovo, allungò la mano, inspirò rumorosamente.
Di nuovo, la ritirò e decise di alzarsi.
Appoggiò i piedi sul pavimento freddo e fu scossa da un brivido così intenso che le venne da voltarsi di nuovo verso di lui e la sua schiena nuda.
Chiuse gli occhi, sentì le ginocchia scricchiolare sotto il peso del suo corpo.
Si stiracchiò e lasciò la camera da letto.
Anche il resto della casa era già illuminato, lo trovò confortante.
Si sentì meno sola.
Entrò nel grande salotto, si affacciò alla finestra sopra al lavello della cucina, le cui tapparelle erano rimaste alzate per tutta la notte.
L’aria era frizzante, doveva essere molto presto.
Le sette e ventisei, per la precisione.
Lo scoprì voltandosi verso l’orologio appeso alla parete.
Sospirò e si appoggiò al bancone della cucina.
Si era promessa di lasciarlo dormire, ma voleva parlargli, doveva farlo.
Si rialzò di scatto, tornò in camera.
Lo vide.
Si era preso tutto il letto, aprendo gambe e braccia.
Ogni angolo era occupato, ogni cuscino gli apparteneva.
Anche le lenzuola cremisi erano accartocciate sotto il suo corpo.
Venice si disse che trovare qualcosa di filosofico da pensare vedendo con che velocità lui si era ripreso il suo spazio era sbagliato.
Si disse che aveva dormito troppo poco e che non era una buona idea prendere decisioni affrettate con solo un paio di ore di riposo alle spalle.
Fece retrofront, tornò in salotto, si sedette sul divano e strinse i pugni.
Lo odiava.
Odiava il fatto di essere incastrata in quelle quattro mura con lui, senza via d’uscita.
Strinse la maglia che aveva addosso e le venne voglia di farla in mille pezzi.
Era stata una notte spiacevole.
Io non provo niente per te.
Non stiamo insieme.
“Lo so, cazzo.”
Venice si spaventò sentendo la propria voce, arrochita dopo alcune ore di silenzio.




Poche ore prima andava tutto bene.
Lei e G. si erano visti, avevano preso la macchina e si erano fatti una passeggiata in riva al lago.
Avevano parlato e si erano seduti su una panchina.
G. era un tipo distante, Venice lo sapeva.
La sfiorava appena e per questo era lei a doversi avvicinare.
O a doversi accontentare, dipende dai punti di vista.
Anche quella sera, G. le aveva appoggiato una mano sulla coscia e le aveva dato un bacio, poi aveva voltato lo sguardo verso il panorama offerto dai paesi sulla costa e si era chiuso in silenzio denso.
Aveva messo il solito broncio.
“Andiamo?” gli aveva chiesto Venice rialzandosi.
Ebbe la solita strana sensazione di essere appena tornata alla mente di G., come se si fosse reso conto solo in quell’istante di non essere solo.
Erano entrati nel suo appartamento in silenzio, si erano diretti in camera da letto e si erano seduti.
G. aveva preso il computer e aveva controllato la posta e il meteo del giorno dopo, lei invece aveva acceso la tv e si era tolta i sandali.
Si sentiva bene.
“E’ bello.” aveva detto.
“Cosa?” aveva chiesto lui, una mano sul portatile e l’altra alla bocca. Aveva il vizio di mangiarsi le unghie.
“Questo. Noi.”
Lui a quelle parole aveva mosso la testa, come per scacciare un insetto, poi aveva chiuso il portatile e lo aveva riposto sulla scrivania.
“Ho fame.”




Il ricordo di poche ore prima la fece riscattare in piedi.
Rimase in quella posizione per qualche secondo, immobile davanti al divano, gli occhi puntati sulla foto di un G. bambino, sorridente.
Stava impazzendo.
Fece un paio di passi verso la porta che conduceva in corridoio. Si affacciò e guardò a sinistra e a destra, come se dovesse attraversare una strada pericolosa e tornò in camera.
G. era ancora lì, nella sua posizione naturale.
Comodamente straiato nella sua tana di lenzuola e cuscini.
Un raggio di sole gli sfiorava il piede destro.
Venice si avvicinò, lo guardò per qualche istante, ricordò il sesso.
La sensazione del corpo di G. sul suo, il suo respiro affannato e i brividi che lo scuotevano quando le unghie di lei si infilavano nella sua schiena.
Erano lì, i graffi.
Si erano gonfiati e arrossati.
Venice poteva rivedere le sue dita sulla schiena di G., i segni della passione.
Venne scossa dai bridivi e fece un passo indietro.





“Cosa sono per te?”
“Non sei la mia ragazza.”
G. aveva appoggiato la bocca sulla sua spalla nuda e le aveva dato un bacio.
Venice non si era mossa.
“Lo so.” e lo sapeva davvero.
Però a volte se ne dimenticava.
“L’abbiamo già fatto questo discorso. Io non sono capace di far altro se non questo.”
Forse G. aveva ragione, forse i discorsi erano sempre gli stessi, ma Venice aveva deciso di sbagliare per l’ennesima volta.
“E’ una stronzata.” aveva detto orgogliosa della sua forza, andandosi a rintanare nell’angolo del letto più lontano dal suo.
“Può darsi, ma è così.”
“Allora non vedo il senso di vederci.”
Venice si era sentita il sangue scorrere più in fretta nelle vene. Per un istante le era sembrato di stare ancora facendo l’amore.
“Va bene.”
G. l’aveva guardata sorridendo, poi si era avvicinato alla sua caviglia, l’aveva stretta e aveva trascinato Venice verso di lui.



Doveva andarsene.
Doveva restare.
A due passi dal letto di G., si coprì il volto con le mani.
Pensò al letto e ai cuscini.
Al fatto di quanto G. stesse bene da solo, senza di lei.
Al fatto di quanto lei stesse bene da sola, ma che nemmeno la presenza di G. era tanto male.
Lo odiava.
Ma voleva restare.
Si era convinta che G. fosse più di quello, più di un corpo caldo.
Magari non lo ricordava, ma G. aveva un cuore, da qualche parte.
Si sentì come l’ammaestratrice di leoni durante uno spettacolo: incastrata sulla sottile linea rossa tra l’abbraccio caldo del felino e una rapida morte per dissanguamento da artigli.
G. si mosse.
Un angolo del letto rimase scoperto.
La sottile zona di lenzuola rosse rimasta libera la attirò.
Venice si sedette, si sdraiò con cautela.
Strappò un angolo di cuscino dal braccio di G., gli si accoccolò accanto.
“Ehi.” disse lui con gli occhi ancora chiusi. “Ciao.”
Si guardarono.
G. allargò le braccia e se la portò a petto.
“Io…” esordì lei con decisione.
“Mh.”
G. aveva stretto la presa.
“G.?”
Qualcosa batteva nel petto di lui.
Un orologio.
A Venice tornò in mente un discorso fatto giorni prima, su una certa scadenza dei rapporti.
Sulla semplice constatazione che lei e G. fossero destinati a perdersi.
Sulla sua alzata di spalle, sul suo broncio impassibile.
Sul segno che la freddezza di G. aveva lasciato su di lei, tanto diverso dai suoi graffi caldi e pulsanti.
L’orologio accellerò.
Lo sentiva nel petto di G.
Il tempo rimasto doveva essere davvero poco, come quei timer da cucina che alzano la voce allo scattare dell’ultimo minuto.
Venice sentì cadere la rabbia, già provata dalla vicinanza di G.
Le sembrò di sentirla pesare all’altezza dello stomaco, come un piatto indigesto.
Morta.
“Che c’è?” chiese G. sentendola agitarsi.
Venice non rispose, alzò il braccio destro, lo portò dietro alla schiena di G. e strinse forte.
   
 
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