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Autore: _Pulse_    10/09/2012    5 recensioni
«Helen! Helen, aspetta!».
Tom l’afferrò per un polso e Grace si voltò di scatto, fissando gli occhi nei suoi. Il chitarrista ebbe l’istinto di tirarsi indietro, perché oltre che arrabbiata sembrava davvero ferita, il verde che tanto gli piaceva lacerato da artigli che lui stesso aveva maneggiato.
«Come… come puoi pensare di usarmi dopo quello che c’è stato ieri notte?!», gli urlò in viso, furente.
Al ricordo di quello che avevano passato insieme sentì il suo stomaco contorcersi, ma presto quelle immagini furono sommerse da altre, forse ancora più scottanti nel suo cuore, che lo fecero imbestialire.
«Sbaglio o sei stata tu a dire che quello che è successo l’altra notte non doveva succedere e che non dovrà più ripetersi?! Se hai paura di mettere in gioco i tuoi sentimenti, allora non li metterò in gioco nemmeno io! Ma se metti in bella mostra tutta la tua mercanzia, in questo modo, permetti che io –».
Lo scoppio di uno sparo lo interruppe e senza nemmeno sapere come si trovò a terra, con il viso di Helen ad un centimetro dal suo.
Genere: Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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PARTE I

 

Capitolo 1

 

Volteggiò sulla sua poltrona di pelle nera e si picchiettò delicatamente la matita sulle labbra rosate.

Del tutto all’improvviso si alzò e chiuse le veneziane tirando la cordicella con uno scatto brusco. Nell’oscurità del suo ufficio abbassò lo schermo del suo laptop, che infilò nella sua borsa a tracolla, e poi uscì sbattendosi la porta alle spalle. La chiuse con una mandata di chiave e rimase per un secondo di troppo ad osservare ciò che c’era scritto sul vetro zigrinato incastonato nel legno: Mitch Schneider Investigations.

Fu solo un attimo, ma abbastanza per farle ricordare suo padre, ciò che era diventata per lui e il motivo per cui faceva il suo lavoro. Ovviamente, come ormai accadeva da due mesi a quella parte, un nodo le strinse la gola pensando all’ultimo “caso” che aveva accettato.

Scacciò quei pensieri dalla mente e trotterellò giù dalle scale dell’edificio, tenendosi saldamente al corrimano di legno con una mano. Salutò il portinaio con un cenno del capo, senza sbottonare nemmeno un sorriso, quindi saltò sul suo fuoristrada grigio gettando la tracolla sul sedile del passeggero.

Stare alla guida la rilassò, tanto che le venne anche un certo languorino. Si fermò al solito Starbucks e prese due caffè, il suo con un pizzico di vaniglia, e un paio di brioches. Tornò in auto e guidò ancora per una decina di minuti, poi parcheggiò nei pressi degli studi di registrazione della Cherry Tree Records.

Si tolse la cintura di sicurezza e tirò un po’ indietro il sedile per poter posare i piedi ai lati del volante, poi prese il suo caffè ancora caldo e ne bevve un sorso, sentendosi immediatamente più rilassata. Il caffè per lei era come una droga e non era l’unica ad avere quella strana patologia, a quanto aveva scoperto.

Accese il suo laptop, intercettò il segnale delle microspie audio e video che aveva piazzato nell’edificio qualche mese prima e sullo schermo apparvero quattro riquadri che le mostrarono in simultanea tutto ciò che stava avvenendo nello studio di registrazione, nella sala mixer, nella sala riunioni e per concludere nelle vicinanze della macchinetta del caffè, il posto più ingegnoso in cui si potesse mettere una cimice. Luogo perfetto per fare due chiacchiere e lasciarsi andare, no? Grazie a questo piccolo espediente aveva raccolto molte informazioni interessanti.

Mentre guardava ed ascoltava tramite un auricolare, sperando che dicessero qualcosa di succulento, mangiò la sua brioche immergendola ogni tanto nel caffè. Una volta finita, non resistette e sbocconcellò anche un angolo dell’altra.

Non era il suo giorno fortunato: quella era proprio una di quelle mattinate piatte in cui quei quattro non facevano altro che dondolarsi sulle sedie e sbadigliare, a corto di ispirazione; per cui si concesse di distrarsi e si perse ancora una volta nei suoi pensieri: perché aveva accettato quel caso? Un caso che in fondo non poteva essere definito tale, perché lei non era pagata per indagare, o meglio… sì, però non era appagante come lo era per esempio confutare od accertare un tradimento. Lei era pagata per seguire ed osservare un’unica persona, tutto il santo giorno, e per riferire ogni cosa che vedeva e sentiva alla sua cliente – persino quante volte l’aveva visto fumare le sue amate sigarette. Che poi… facesse qualcosa di davvero interessante, quel benedetto Tom Kaulitz!

Ridacchiò mentre si puliva la bocca con un tovagliolo di carta. Stava proprio iniziando a credere che avesse dei superpoteri: ogni volta che pensava il suo nome lui aveva la straordinaria capacità di percepirlo.

Lo vide alzarsi dalla sua sedia di pelle nera, stiracchiarsi e dire al fratello gemello e ai suoi due amici: «Vado a fare due passi», per poi uscire dalla stanza.

Spostò lo sguardo sul riquadro che mostrava i dintorni della macchinetta del caffè e lo vide passare per il corridoio, con le mani in tasca. Dopo qualche minuto alzò lo sguardo dal laptop e lo vide uscire dall’edificio spingendo in avanti la porta a spinta, lasciarsela alle spalle e, adocchiando il suo fuoristrada, andarle incontro.

La ragazza non riuscì a ricacciare indietro un’altra risatina, perché notò che aveva ancora la stupida fissa di guardarsi le spalle per essere certo che nessuno lo seguisse, quella che gli aveva inculcato lei quando aveva fatto lo stupido errore di farsi scoprire proprio da lui, colui che non avrebbe dovuto nemmeno accorgersi della sua presenza.

Ricordava ancora perfettamente la prima volta in cui si erano parlati.

Si era appisolata un momento, uno soltanto, e proprio allora Tom e compagni erano usciti in giardino per una pausa sigaretta. Aveva la bruttissima abitudine di dormire spesso e volentieri a bocca aperta e anche quella volta non era stata da meno, tanto che i Tokio Hotel – così si chiamava la loro band – si erano chiesti se stesse semplicemente dormendo o se fosse morta.

Tom successivamente le aveva raccontato che avevano fatto la conta per decidere a chi toccasse scoprirlo e lo sfigato di turno era stato lui. Così si era avvicinato al fuoristrada e con un po’ di reticenza le aveva bussato al finestrino, facendola svegliare di colpo.

Appena lei lo aveva visto così da vicino aveva pensato che era davvero carino, poi si era ricordata del fatto che sarebbe dovuta rimanere un fantasma nella sua vita e allora tutti i suoi progetti erano andati in fumo, poiché la sua copertura era saltata: se l’avessero vista un’altra volta nei paraggi si sarebbero insospettiti e addio caso, anche se dopotutto non le sarebbe dispiaciuto così tanto, se solo non fosse stato per i soldi che quella ragazzina milionaria le dava ogni settimana per abitare nel suo fuoristrada, praticamente.

I soldi… era per quello che aveva accettato quell’incarico; se suo padre l’avesse vista sarebbe stato profondamente deluso, ma suo padre non aveva mai capito che i soldi, almeno un pochino, facevano la felicità.

Comunque, non era andata come aveva previsto, perché alla ragazzina non importava che l’avesse scoperta. Anzi, ancora meglio se aveva un contatto diretto con lui! Voleva assolutamente sapere in tempo reale che cosa facesse il suo idolo, il suo amore platonico.

Così era tornata ancora a spiarlo, anche se scettica, e si era messa apposta in una posizione in cui l’avrebbe facilmente notata, per accontentare quella ragazzina viziata.

Il chitarrista, come previsto, era andato da lei a chiederle che cosa volesse e perché continuasse ad appostarsi lì fuori. Alla domanda: «Sei una stalker?», lei aveva detto di sì, troppo legata alla segretezza professionale.

Tom aveva fatto solo finta di crederci: insomma, non somigliava affatto ad una stalker! Ma non le aveva più fatto domande, non sembrava nemmeno che gli importasse, fino a quando, appunto, non gli aveva sbattuto in faccia che se quel giorno non si fosse addormentata lui non si sarebbe accorto di lei e chissà per quanto tempo avrebbe vissuto nella beata ignoranza.

Da quel giorno Tom aveva iniziato a guardarsi le spalle, quasi in maniera ossessiva, tanto che non se ne rendeva nemmeno più conto, e nonostante fossero passate settimane, non si era ancora liberato da quella fissa.

Chiuse il laptop e lo mise di nuovo nella sua borsa a tracolla, che sistemò sui sedili posteriori; impostò su REC il suo piccolissimo registratore professionale, poi lo cacciò con nonchalance sotto il sedile del passeggero, come sempre. Per finire si portò sulle gambe la confezione di cartone in cui era infilato l’altro bicchiere di caffè.

Tom aprì la portiera e salì sul fuoristrada, si mise seduto comodo sul sedile accanto a quello della ragazza e le fregò subito il bicchiere di caffè dalle mani.

«Buongiorno anche a te», lo salutò lei aggrottando le sopracciglia: odiava i maleducati.

«Ciao Brooklyn», Tom ricambiò distrattamente il saluto ed aprì il sacchetto con la sua brioche, la tirò fuori e corrugò la fronte notando un angolo sbocconcellato. «Hai i ratti in questa carretta?».

«Primo, questo Mr. Fuoristrada non è una carretta. Secondo, non ci sono ratti; sono stata io».

Tom la osservò e scrollò le spalle prima di addentare la sua brioche.

«Vi tengono a digiuno là dentro?», gli domandò dopo qualche minuto di silenzio, nel quale l’aveva ascoltato masticare e bere.

«Hai smesso di farci le foto?».

La ragazza roteò gli occhi al cielo: lo odiava anche quando cambiava in quel modo argomento.

«Siete monotoni, dopo un po’. Quando cambierete pettinatura, allora può darsi che tornerò a farvi le foto. Ora dimmi se state lavorando a qualcosa di nuovo, rintanati là dentro».

«Mi ricordi perché sto dietro ad una come te?».

Si trattenne nello scaraventargli la fronte contro il portaoggetti. «Perché ti porto il caffè e la brioche tutte le sante mattine e perché ti do’ il permesso di chiamarmi Brooklyn – sai quanto odio questo soprannome».

Tom scrollò di nuovo le spalle e finì di bere il suo caffè. «Il tuo cognome è simile», disse.

Bröker. Per lui era Helen Bröker, non Grace Schneider. 

Quindi si voltò verso di lei con un sorriso raggiante. «Ora devo tornare al lavoro se non ti dispiace».

«Oh sì che mi dispiace», lo trattenne per un braccio e si portò un ciuffo di capelli neri dietro l’orecchio con fare sensuale, si avvicinò a lui e soffiò: «Avrai pure qualcosa che non so da svelarmi…».

Tom si leccò le labbra, guardando quelle di Grace, poi posò gli occhi nei suoi verdi. «Che cosa sai tu di me?».

«Non puoi nemmeno immaginare…», gli fece camminare due dita sul petto, «non puoi nemmeno immaginare quante cose io sappia di te».

Tom aprì la bocca per parlare, ma all’ultimo la richiuse e sogghignò. «Non mi conosci affatto».

Aprì la portiera ed uscì dal veicolo, lasciandola con un palmo di naso.

Grace lo guardò allontanarsi e quando si fu ripresa del tutto scese anche lei dal fuoristrada e gridò nella sua direzione: «E dai, Tom!».

Lui si voltò e la guardò con lo stesso sorriso beffardo. «Vedi, sei anche come quelle gomme da masticare: appiccicosa».

«Eppure continui a starmi dietro», lo rimbeccò con una punta di arroganza nella voce.

Tom tornò da lei e le sistemò dietro l’orecchio lo stesso ciuffo di capelli che era sfuggito alla coda scomposta che aveva sulla nuca, si piegò e con la bocca vicina al suo orecchio sussurrò: «Detto fra noi, Brooklyn… devi fare molto di più per conquistare uno come me. Da quanto tempo non fai sesso?».

Grace lo spintonò con forza e tornò a passo di marcia al suo fuoristrada, coi pugni stretti lungo i fianchi e ogni muscolo facciale contratto in un’espressione furiosa.

«Ehi, non te la prendere!», gridò Tom, con una leggera risata nella voce. Poi tornò serio: «È davvero da così tanto tempo che non scopi?».

Grace sbatté la portiera con forza e premette sull’acceleratore senza curarsi di Tom che era ancora in mezzo alla strada deserta. Frenò appena in tempo, a pochi centimetri da lui, e lo guardò truce, mentre lui aveva come minimo perso dieci anni di vita. Non doveva scherzare con lei, perché aveva già ucciso prima e non avrebbe esitato se gliene fosse capitata l’occasione.

Lui si spostò spaventato e lei sgommò via senza curarsi di quello che considerava un idiota ogni giorno di più.

 

***

 

Era certo che Helen non fosse né una stalker né tantomeno una groupie. La seconda ipotesi era assolutamente da escludere, non sapeva nemmeno perché l’avesse presa in considerazione!

Forse era così tanto attratto da lei proprio perché non sapeva chi era e cosa voleva da loro. Anche fisicamente non era male e il suo viso spruzzato di efelidi sembrava così delicato che anche la carezza di una piuma avrebbe potuto creparlo, per non parlare dei suoi occhi verdi che erano in grado di graffiare se la si faceva arrabbiare. Ma la sua identità e il motivo che la portava a trovarsi sempre dove c’erano loro erano qualcosa che l’attiravano ancora di più. Voleva scoprire tutto, ma… come?

Ormai aveva capito abbastanza bene che non era una ragazza facile, che se faceva una cosa era perché le faceva da tornaconto, che era più furba di quello che credeva. Helen era ancora una sconosciuta per lui, nonostante si vedessero quasi tutti i giorni da quasi due mesi. Non gli aveva mai parlato di sé e non sembrava nemmeno intenzionata a farlo. Chi era quella ragazza? Che cosa voleva da lui?

«Tom? Uh-uh? Ci sei?». Bill gli sventolò una mano di fronte al viso e si dimenticò per un istante tutte quelle domande che gli vorticavano in testa.

«Sì, scusami, mi sono distratto. Stavamo dicendo?».

Sulle labbra di suo fratello si disegnò un sorrisetto furbo.

«Stavi pensando ad Helen?», gli domandò, più interessato a quello piuttosto che al loro lavoro.

Tom si portò le mani sulla testa, puntando i gomiti sul tavolo, e sbuffò. «Che cosa vuole da me, Bill? Perché le sto dietro, invece di andare da un giudice ad accusarla di stalking? Perché alla fine è quello che sta facendo…».

«Nah», schioccò la lingua contro il palato. «Lei non è una stalker. Casualmente ovunque andiamo noi c’è anche lei, però non si comporta come una stalker: fino ad adesso non ci ha mai dato fastidio più di tanto».

«A me dà fastidio!», sbottò, arrossendo sul collo. «Mi dà fastidio che se ne stia tutto il giorno in auto ad aspettarci, mi dà fastidio che mi porti la colazione alla mattina, che cerchi di strapparmi di bocca qualche anteprima sul nostro nuovo album… Mi dà fastidio non trovare una motivazione per ciò che fa!».

Il frontman dei Tokio Hotel scrollò le spalle ed allungò le braccia sul tavolo lucido della sala riunioni, in cui si erano isolati per parlare un po’. Si guardò le unghie corte e scrollò di nuovo le spalle sospirando.

«Sta diventando un’ossessione, Tom».

«Sì, lo so», mugugnò ed abbassò lo sguardo. «E la cosa che mi dà più fastidio sai qual è?».

«Che lei sa moltissime cose su di noi, mentre noi non conosciamo praticamente nulla di lei», rispose come se fosse una filastrocca imparata a memoria, continuando ad ammirarsi le unghie.

«Esatto». Si appoggiò allo schienale e stirò le gambe sotto al tavolo, portandosi le mani sulla nuca.

«Forse dovrei fare come fa lei: seguirla e vedere dove abita, cosa fa…».

L’aveva buttata lì come un’idea sciocca, ma appena realizzò che poteva non essere del tutto una cavolata si tirò su con gli occhi spalancati e guardò il gemello, il quale aveva già capito tutto e aveva lo stesso sguardo incredulo.

«Vuoi farlo davvero?», gli chiese.

Tom sogghignò. «Perché no?».

 

***

 

Non si era laureata in giurisprudenza né aveva ottenuto la licenza di investigatrice privata per stare dietro ad uno come Tom Kaulitz. Proprio no.

Dopo quello che aveva osato dire quella mattina – la verità, perché era davvero una vita che non faceva del sano sesso – si era rifiutata di stare ancora lì, non le importava di quella ragazzina che avrebbe sicuramente fatto i capricci. L’aveva persino chiamata quel pomeriggio, seduta sotto l’ombra degli alberi del parchetto in cui suo padre la portava sempre a giocare.

«Non ne posso più di quel tizio», le aveva detto subito, senza nemmeno salutarla.

La ragazzina aveva riso di gusto, come se avesse detto la barzelletta più divertente del mondo.

«Non sto scherzando», aveva precisato allora, scocciata.

«Hai registrato tutto quello che vi siete detti?».

«Sì, in un modo o nell’altro sì», si era sfiorata la spilla d’argento che aveva attaccata alla maglietta: c’era una piccolissima microspia video e audio anche in quella; era il regalo che suo padre le aveva fatto quando aveva compiuto diciassette anni. L’ultimo regalo che le aveva fatto.

«Bene! Non vedo l’ora di vedere tutto!».

«Molly, davvero, io non voglio più continuare. Non mi sento appagata, io… non è per questo che sono diventata un’investigatrice privata».

La ragazzina finalmente sembrava aver compreso le sue ragioni e aveva sospirato.

«Okay, senti… mio padre oggi mi ha sequestrato la carta di credito perché ho speso troppo l’ultima volta che sono andata a fare shopping. Riesco a pagarti questa settimana di lavoro, ma non la prossima. Facciamo che te ne vai in vacanza, okay? Vedrai che ne sentirai la mancanza».

«Ne dubito. Ne dubito davvero».

Comunque, da brava ed onesta lavoratrice qual’era, poco dopo era tornata a seguire gli spostamenti dei quattro. Non che ne avessero fatti, di spostamenti: per carità, stavano tutto il giorno chiusi in quello studio di registrazione!

Aveva cambiato postazione, aveva nascosto il fuoristrada dietro i cassonetti dell’immondizia sul retro dell’edificio: l’odore non era ottimo, ma aveva una visuale perfetta della sala riunioni, la quale aveva delle ampie vetrate sulla facciata che dava sul giardino.

Aveva ascoltato un pezzo della conversazione intrattenuta dal management dei Tokio Hotel, Benjamin Ebel, col loro produttore più famoso, David Jost, e la loro promotion manager, Dunja Pechner.

Era stato interessante e a tratti divertente, soprattutto sentire i commenti e le battutine su quei quattro ragazzi che non avrebbero mai immaginato di essere soggetti così buffi, tanto da far scompisciare dal ridere. Adesso Grace avrebbe potuto prendere per il culo a vita quel simpaticone di Tom, ma facendolo avrebbe commesso un altro errore.

Peccato, aveva pensato schioccando la lingua contro il palato.

Aveva atteso pazientemente che i Tokio Hotel finissero di “lavorare” e quando erano usciti dall’edificio aveva tratto un respiro di sollievo: quella sera non dovevano andare da nessuna parte, a meno che i ragazzi non decidessero di fare qualcosa all’ultimo momento. Era quasi escluso, poiché il giorno seguente Gustav e Georg avrebbero dovuto prendere un aereo che li avrebbe riportati in Germania dalle loro fidanzate, come avevano concordato con i gemelli.

Appena vide Tom fiutò che aveva qualcosa in mente, perché non cercò il suo fuoristrada con lo sguardo, né fece salire suo fratello gemello sulla sua Audi. Che cosa aveva intenzione di fare?

Aspettò che si allontanasse, per ultimo dietro le auto dei suoi amici, poi Grace mise in moto a sua volta e lo seguì.

Tom fece la solita strada verso casa, ma del tutto all’improvviso svoltò a destra e Grace non riuscì ad essere tanto rapida; o meglio, avrebbe anche potuto, ma avrebbe sicuramente dato troppo nell’occhio. Così tamburellò le dita sul volante e si disse che l’avrebbe sicuramente recuperato se avesse svoltato alla prossima e poi fosse sbucata nella stessa via.

Si attenne al piano, ma quando si immise nella via che aveva preso il chitarrista non lo vide davanti a sé, bensì dietro. Lui l’aveva aspettata, sapeva che si sarebbe comportata così ed ora la guardava con un sorriso beffardo sulle labbra: ora era lui a seguire lei.

A che gioco stai giocando, Kaulitz?

Incrociò ancora il suo sguardo e sorrise nello stesso modo, forse anche un pelino più arrogantemente. In fondo le erano sempre piaciuti i giochi e quello che Tom le stava proponendo non era tanto male; peccato che lui fosse un poppante in quel campo, che stesse soltanto giocando a fare il piccolo investigatore, e sarebbe stato fin troppo facile vincere.

Non voleva umiliarlo, non amava mostrare troppo la propria bravura, e allo stesso tempo non voleva dargli troppa corda, anche se sarebbe stato divertente farlo uscire di testa girando sempre intorno allo stesso isolato. Così decise che la cosa migliore da fare era chiamare un amico che sicuramente l’avrebbe aiutata a levarsi dai piedi quel rompiscatole.

«Guarda, guarda! Che onore!».

«Ciao Dylan», ridacchiò. «Come te la passi?».

«Tutto nella norma. Tu? Non hai fatto altri danni, vero?».

«No, stai tranquillo. Sei in servizio ora, vero?».

«Certo. Stesso posto, come sempre».

«Giornata tranquilla?», gli domandò per precauzione: voleva far conoscere a Tom alcuni aspetti della sua vita – ovviamente senza farglielo sapere, – non traumatizzarlo.

«Nella norma. Vuoi venire a fare un giretto nell’Inferno della Città degli Angeli?», ridacchiò divertito.

«In realtà dovresti farmi un favore», sorrise.

«Qualsiasi cosa, tesoro».

 

Tom si guardò intorno e capì di essere nell’Eastside di Los Angeles. Non era un posto esattamente consigliato, perché Helen si era spinta fino a lì?

Si guardò intorno con un certo sospetto, notando gli occhi luminosi e allo stesso tempo affamati di alcuni ragazzini ispanici sulle loro biciclette sgangherate, i quali non perdevano nemmeno un dettaglio della carrozzeria e dei cerchioni scintillanti della sua Audi.

Perché si era messo in testa di seguirla?

Appena superò una vettura della polizia parcheggiata sul ciglio della strada, questa diede gas e lo seguì accendendo anche le luci blu e rosse sopra il tettuccio. Si spaventò immediatamente, credendo di aver fatto qualcosa di male, ma quando notò il sorrisetto più che divertito che aleggiava sulle labbra di Helen capì che lei c’entrava qualcosa. Le rivolse un’occhiata fulminante e la vide alzare una mano in segno di saluto, mentre si fermava ad un semaforo rosso, proprio come se volesse farlo soffrire di più. Si affacciò pure dal finestrino per godersi la scena, quella sfrontata!

Parcheggiò sul ciglio della strada ed aspettò che l’agente, sceso dal suo vecchio modello di Ford Crown Victoria, lo raggiungesse. Il poliziotto si chinò verso di lui per vedere gli interni dell’auto e gli rivolse un sorriso solare. Anche lui aveva origini ispaniche, doveva proprio essere messicano, considerato anche il suo particolare accento.

«Bell’auto! L’ha comprata qui o se l’è fatta arrivare dalla Germania? Perché le Audi sono tedesche, vero? Del ramo Volkswagen, no?».

«Sì», rispose Tom, attonito.

«Sì che cosa?», domandò l’agente, arricciando il naso e cercando di nascondere un sorriso divertito, mentre lanciava un’occhiatina a Grace, ferma ancora al semaforo.

Tom non si accorse di nulla e rispose: «… Le Audi sono tedesche e sono della Volkswagen».

«Oh! Oh, sì, lo sapevo. E se l’è fatta arrivare da là o l’ha comprata qui?».

«Beh… Ma questo cosa c’entra? Non mi avrà fatto fermare solo per chiedermi questo!».

Dylan parve pensarci su, passandosi le dita sul pizzetto nero. «E anche se fosse?».

«Mi scusi, ma io ho davvero molto da fare e se non c’è nulla che non va…», gettò una rapida occhiata verso il fuoristrada di Helen, «io andrei».

L’agente rimase a fissare la mora dagli occhi verdi mentre rientrava del tutto nell’abitacolo ed alzava un po’ il volume della radio. Riusciva a sentire la musica persino da lì.

«Oh, ho capito», mormorò.

«Grazie», sospirò Tom. «Posso andare?».

«Ho capito! Lei sta inseguendo quella ragazza!», lo accusò puntandogli un dito contro, facendolo sbiancare. «Lo sa che lo stalking è un reato?».

Tom sbarrò gli occhi. «Certo che lo so! E se vuole la verità è lei che…».

Il poliziotto lo interruppe e con tono serio disse: «Patente e libretto».

«Che cosa?», squittì Tom, sempre più sconvolto.

«Ho detto patente e libretto», rimarcò il concetto, sollevando le sopracciglia. «Non vorrà mica essere accusato di resistenza a Pubblico Ufficiale, vero?».

«No», mugugnò.

Tirò fuori il libretto e la patente e li porse all’agente, poi si girò a guardare se quel maledetto semaforo fosse ancora rosso e anche Dylan lo fece, sorridendo di sfuggita alla ragazza alla guida.

Quando finalmente scattò il verde, Grace svoltò a sinistra e salutò con un cenno del capo il chitarrista, il quale digrignò i denti e si rivolse all’agente con tono brusco: «Ha finito?».

«Sì», esclamò il poliziotto. «È tutto in regola, nemmeno una virgola fuori posto. Ma senta, per caso lei è tedesco? Perché sa, si dice che i tedeschi sono sempre precisi in tutto… E lei ha anche l’accento da straniero!».

Tom si trattenne dallo sbuffargli in faccia, infastidito, e mise a posto i documenti. Tanto ormai Helen l’aveva persa!

«Posso andare?», domandò con tono lamentoso.

«Certo! Anzi, è meglio che se ne torni a casa – scommetto che abita dalle parti di Hollywood, oppure di Beverly Hills – sta iniziando a fare buio e non è consigliato andarsene in giro di notte da queste parti».

Tom si limitò a ringraziare con stizza, certo che quell’agente l’avesse preso per il culo per tutto quel tempo.

Stava per fare manovra per uscire dal suo parcheggio di fortuna, quando l’agente lo richiamò:  «Alla fine non mi ha detto se si è fatto arrivare l’auto dalla Germania!».

Il chitarrista roteò gli occhi al cielo, salutò il poliziotto con un gesto distratto della mano e sgommò via.

Dylan lo guardò allontanarsi e una volta perso di vista non riuscì a trattenere una grassa risata. Si portò il cellulare all’orecchio, ancora con le lacrime agli occhi, e quando Grace gli rispose, disse: «Tesoro, non mi sono mai divertito tanto!».

«Mi fa piacere, davvero».

«Però un giro me lo offri comunque uno di questi giorni, eh».

Grace ridacchiò. «Andata».


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Non so quale cavolata abbia fatto, ma avevo cancellato questo capitolo per sbaglio. Lo riposto così com'è, poi quando avrò tempo lo sistemerò a dovere.
Abbiate pazienza e scusatemi.

I Tokio Hotel non mi appartengono e questa storia non è scritta a scopo di lucro.
   
 
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