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Autore: Dernier Orage    10/09/2012    3 recensioni
Le stanze contenevano le seduzioni e gli sfinimenti delle relazioni durature, le stesse situazioni e sensazioni – seduzione e sfinimento – che Stéphane sentiva sulla pelle, dopo diciannove anni.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Cuivre vingt-neuf





L’autunno donava pomeriggi freschi, umidi e saturi di sentori buoni, piacevoli. L’odore delle foglie arancioni, la resina profumata sui lati dei tronchi esposti a Sud, la legna bruciata nel giardino delle rade villette invisibili dietro la boscaglia, raggiungibili attraverso strade sterrate che sinuose scomparivano nella nebbia. Nell’arteria principale il leggero traffico si era diradato e diramato in vie sempre più strette, lucide di umidità, dove avevano incrociato appena un trattore ed un’utilitaria grigia.
La villa dello scrittore Calixte Aubert Cloarec dominava i colori fulvi delle campagne degli Yvelines. L’arancione, il mattone, il violaceo, il borgogna creavano un drappo che ricopriva le colline, punteggiato dal verde scuro dei sempreverdi.
Stéphane aveva parcheggiato dietro due automobili di lusso, il rumore della ghiaia smossa aveva richiamato una donna alta e dai capelli scuri all’entrata. I pochi gradini che separavano il suolo dalla veranda vennero percorsi con il cuore in gola. Erano due anni che un fitto scambio epistolare legava i due scrittori, il malessere dell’allievo eletto scuoteva Stéphane all’alba del primo incontro. Erano stati invitati con una telefonata inaspettata, il numero era stato scarabocchiato mesi prima dentro ad una busta.
La donna indossava due maglioni sdruciti sovrapposti, uno beige ed uno azzurro, dei pantaloni di tela da uomo, soltanto i lineamenti da Nefertiti tradivano il suo essere la padrona di casa. Era bella, o almeno, Stéphane la trovò tale. La pelle ambrata e i capelli corti evidenziavano i lineamenti scolpiti.
- Tu devi essere Stéphane; io sono Agnès.- Era la moglie di Calixte, aveva le mani ruvide e degli orecchini di perla. Rivolse lo sguardo verso Ismaël.- E dunque tu sei Ismaël. Benvenuti.-
Mostrando le spalle dritte e la camminata altera li aveva accompagnati per un veloce giro del piano inferiore, la tappezzeria di broccato verde, le paratie in legno fino alla cintola, le mensole scure che ospitavano foto, dediche, riconoscimenti. Quadri di velieri e tempeste atlantiche si accostavano alla calma di monasteri arroccati sulle montagne, immersi nella nebbia.
Lo scrittore Calixte Aubert Cloarec li attendeva seduto in una poltrona di pelle. Aveva gli occhi infossati, una criniera di capelli bianchi, folti. La barba sfatta ed irta sopra il volto segnato, brunito dagli anni all’estero. Stéphane gli tese una mano, aveva cinquantun anni e si sentiva piccolo e disgraziato di fronte all’immensità artistica di Cloarec. L’uomo si alzò e lo abbracciò dispiegando un sorriso.
- Mettetevi pure comodi, posso offrirvi del cognac?- Borbottò Cloarec appena finì di versare il liquido color rame in quattro bicchieri a tulipano. Era voltato verso una credenza, posta al di sotto di una scala che conduceva al piano superiore. Nel corrimano d’ottone erano intrecciati dei fili di cuoio e piume scure, cangianti e setose.
Il cognac era corposo e aromatico, pizzicava il naso e i cuscini del divano erano rigidi e comodi. La freddezza formale si era dissipata al secondo bicchiere, toccando i più svariati argomenti. Stéphane sentiva ancora un leggero imbarazzo dopo aver visto, in uno scaffale della libreria, il suo primo libro pubblicato con il vero cognome, accostato alla collana di roman noir firmati Stéphane Marchand.
Nelle prime pagine era presente una piccola dedica, forse inelegante e grossolana. “A Maël, Maelice, Michelle, le tre M per cui morirei” in ordine alfabetico, in ordine d’età, la prima dedica della sua vita fatta a quarantacinque anni, gli occhiali dalle lenti più spesse rispetto all’uscita del libro precedente. Era per quello che Calixte l’aveva contattato, prima via mail, poi nella casella postale, dopo all’indirizzo di casa. L’aveva notato, non aveva capito completamente e aveva chiesto spiegazioni, finendo, mesi dopo, per discutere di arte, di storia e storie, delle rispettive figlie.
Lo conosceva, conosceva la foga nelle parole, quando nelle lettere rimarcava le vocali, ripassava le stanghette delle consonanti. Adesso vedeva il suo volto, gli occhi chiarissimi che seguivano i loro movimenti o si fissavano sul bicchiere, sulle mani della moglie. Calixte sembrava molto anziano, le mani tremanti ed il mento tagliato, nascosto dalla barba, confondevano, aveva appena sessant’anni dimostrandone, minimo, venti di più. Aveva indicato le foto della figlia sul tavolino basso, i capelli ramati e gli stessi occhi scuri della madre sul viso d’alabastro.
- Magalie. All’epoca andava al collegio. Ha venticinque anni, lavora a Montpellier.- Mormorò in un tenero sussurro Agnès.
- Il collegio?- Domandò Stéphane disorientato.
- Ha studiato in Svizzera. Abbiamo vissuto tra India e Pakistan, non potevamo portarla con noi.- Quasi si giustificò Calixte.
- Per Stef è una sofferenza che Michelle studi all’estero.- Intervenne Ismaël per scusare l’espressione interdetta di Stéphane.- Invece Louise, la grande, abita ancora con noi.-
Agnès si alzò e lisciò le pieghe dei pantaloni. Invitò Ismaël a vedere il giardino, con poca fatica fece scorrere la porta di legno e vetro lungo il binario.
La stanza si affacciò sul paesaggio, chinò leggermente il capo di fronte ai colori, ai piccoli particolari. La veranda in legno scuro, i rami disadorni, la coperta di foglie che ricopriva la terra. La nebbia all’orizzonte, le colonne di fumo. Il grigio, l’arancio, il cremisi, il nocciola, il bruno. L’orto a spirale, composto da pietre disposte in modo concentrico, in un crescendo nella parte interna. Le targhette riportavano i nomi delle piante: artemisia, alkekengi, aneto, achillea, altea ma anche maggiorana, malva, melissa, menta, mirto. Una panchina nelle stagioni calde privilegiava dell’ombra di due ciliegi, altri alberi da frutto seguivano il declino della collina, scendevano a valle insinuando le radici in profondità, affondavano nel terriccio alla ricerca di acqua, altro scorrere vorticoso come le foglie al vento.
- La natura ha bisogno di tempo.- Sussurrò Agnès; l’uomo non capì se fosse una richiesta implicita ad accettare ritmi diversi nell’umanità, le lentezze nel pensiero.
- Louise cura le piante sul balcone, il cranberry, sacro ai nativi americani, e qualcos’altro di cui non conosco il nome.- Disse Ismaël tendendo le labbra.
- Se vorrà venire, io l’attendo. Ho dei sacchettini di semi e di bulbi.- Donare piante e fiori come immortalità nel fugace respiro. Ismaël pensò ai ciondoli d’ambra o alle repliche dei gioielli-sorpresa di Fabergé, ninnoli da dimenticare in un cassetto, da perdere negli svuotatasche. I libri mai letti o lasciati a metà, la carta da lettere mai vergata. I bouquet di fiori recisi che qualche volta Stéphane portava alle figlie al ritorno da un viaggio.
Agnès gli indicò un turbinoso torrente, dei sentieri lungo la vallata. Rabbrividì e si strinse i gomiti, parando con le dita dentro le maglie allentate.
Rientrarono quando il cielo svelò una nota violacea. Ismaël confrontò il livello di liquido nella bottiglia tondeggiante e dal collo sottile con quello nei calici, probabilmente era il terzo bicchiere per entrambi.
- Avevamo delle galline ma non riuscivamo ad occuparcene; sono rimasti due pappagalli, nella voliera in cucina.- Affermò Calixte osservando la porta-finestra richiudersi e le potenti lampade del tavolo di lavoro accendersi. Agnès mostrò loro la sua arte, la tavola di legno e le linee tracciate con la cera, gli intarsi appena iniziati nella superficie non ancora levigata. Il movimento leggero, un tamburellare quasi impercettibile, per inserire dei pezzetti di lamina d’oro, imbevuti di collante trasparente, nei sottili ma profondi solchi. Tecniche apprese da artigiani egiziani, pietre dure inserite nei coperchi di preziosissime scatolette, imparate da artisti pakistani, ante di mobili, cassapanche, resistenti nonostante le decorazioni. Come il vetro è più fragile del cristallo; andavano scelti legni flessibili, aromatici, lavorati in parte da umidi, rifiniti dopo la stagionatura. Con orgoglio Calixte aggiunse.- E’ un’artista piuttosto quotata. Lei si occupa della casa, del legno, dell’elettricità, l’impianto dei pannelli solari lo ha fatto quasi interamente da sola. Io scrivo, cucino, fumo e bevo. Agnès è fantastica.-
La giovane moglie scrollò le spalle, sorridendo riflessa nel vetro.- Come dolce ha preparato i cachi caramellati, so che non si abbina perfettamente, però avrei una busta di moules e di frites, in poco sono pronte.-
- Maël è ebreo.- Intervenne precipitoso Stéphane, guadagnandosi un’occhiata scocciata.
- Salmone?- Domandò la donna strofinando il bulino su un panno.
- E vegetariano.- Continuò Stéphane con una risata. Allungò una mano fino a distendere con il tocco le sopracciglia corrucciate di Ismaël.
- Fa bene. Risotto con burro e salvia?- Agnès aveva una voce vibrante, bassa, senza intonazioni particolari. Le perle dei lobi continuavano a donare luce al collo e all’attaccatura dei capelli, anche sotto il chiarore artificiale.
- Perfetto.- Confermò Ismaël.

Dopo cena, Agnès aveva puntato con un telecomando un sensore sul soffitto, davanti alla rampa di scale. Un telo plasticato bianco si era lentamente srotolato, rivelando una superficie dove proiettare i film. Aveva raccontato che spesso organizzavano rassegne di film quasi introvabili, molti universitari partecipavano agli aperitivi e si fermavano per la notte, dormivano nei sacchi a pelo e ripartivano con la corriera dopo colazione. Erano occasioni di convivialità, un rivivere il passato cinematografico non in relazione alle mode o ai budget, lontano dai vincoli della grande distribuzione.
Erano ritornati nel soggiorno, Agnès aveva coperto la tavola di legno con un drappo e aveva spento i faretti.
Vivevano appartati ma aperti al mondo; dalle vetrate della villa pareva di vigilare, osservare il declino della vallata e la sua terra scura, divelta, se dalla pianura avessero cercato con lo sguardo la costruzione di mattoni, lamiera brunita e vetri, l’avrebbero riconosciuta a stento, quasi arroccata sul pendio, in sintonia con la natura, celata dalle tonalità simili, confusa tra la nebbia.
Le stanze contenevano le seduzioni e gli sfinimenti delle relazioni durature, le stesse situazioni e sensazioni – seduzione e sfinimento – che Stéphane sentiva sulla pelle, dopo diciannove anni.
Le ultime preoccupazioni sarebbero state interminabili, ancora dense trascorsi due anni. Sempre più dense. L’unica richiesta di Ismaël era stata quella di non far sapere della malattia al padre. Si dimostrava tranquillo, gli mancava il fiato per fare le scale ma fumava ancora, era passato quasi interamente alla cannabis. Stéphane lo aveva portato in giro per il mondo, gli aveva detto che c’era ancora tempo ma nei sottotoni si era percepita l’impossibilità di considerare l’immortalità; Ismaël aveva premuto per una specie di regressione mentale alla gioventù distesa e rilassata, poco impegnata in se stessa e molto in teorie quasi sempre astratte. Una sorta di incoscienza, di romanticismo estremo.
Stéphane aveva desiderato ardentemente la richiesta di sposarsi, non si era imposto ma alla fine l’aveva ottenuta. L’aveva ottenuta durante una vacanza di una decina di giorni, sulle Alpi. Le nuvole si addensavano e disperdevano appena a pochi metri da loro. La tela cerata non lasciava filtrare l’umidità del prato in discesa, delle frequenti piogge, pianti improvvisi del cielo austriaco.
Il sapere di doverlo perdere, la rabbia inespressa; morire non era una colpa ma aveva la potenza di un affronto.
Era stato dolce, un preambolo confusionario ed insicuro. Ismaël non aveva mai avuto punti di riferimento, era stato perfetto nel suo sguardo convinto di sbagliare. Aveva mormorato che non l’avrebbe considerato come un punto di partenza ma come una testimonianza degli anni passati insieme.
Calixte teneva in mano una pipa di radica, aspirava per non farla spegnere, regolarmente apriva e richiudeva le dita, per sopportare il fornello surriscaldato. Declamava a mezza voce un’elegia, interveniva, tornava indietro e correggeva dei tempi troppo lunghi, socchiudeva gli occhi per focalizzare le lettere nella luce soffusa. Agnès aveva appoggiato il capo allo schienale della poltrona, fumava in silenzio, i nervi rilassati.
Stéphane sentiva le vertigini di un movimento improvviso, la stretta allo stomaco, voltava lo sguardo verso il vecchio scrittore, un mezzo sorriso alla sua mimica sgangherata. Con una mano aveva cercato Ismaël, distratte carezze date con dorso delle dita sul torace, la lana ruvida, il cotone della camicia, tiepido per il tepore della sua pelle. Senza fine ed ineluttabile, fremente. Si sentiva così orgoglioso di lui, quando uscivano lo agguantava per i passanti dei pantaloni, non lo lasciava sfuggire; Ismaël si lasciava avvolgere da un braccio, tendeva la schiena, apriva le spalle con un movimento seducente delle scapole, lo canzonava per lo sguardo di sfida che lanciava ai passanti. Ismaël si stringeva alla figura appesantita dello scrittore, ai suoi primi cappotti pesanti, i guanti scompagnati, si lasciava avvolgere da una sciarpa di lana. Ismaël cercava tra gli strati dei vestiti del tessuto morbido per pulire le lenti degli occhiali di Stéphane, avevano la montatura di plastica giallastra, tondeggiante. Ismaël, di cui una radiografia attaccata con lo scotch alla finestra di cucina evidenziava la fibrosi polmonare. Ismaël dalle labbra pallide e morse, gli occhi scuri e lucidi nell’atmosfera soffusa, seduto sul ciglio, quasi coricato, con le gambe distese e la caviglia destra accavallata su quella sinistra, le braccia incrociate e i gomiti stretti.
Lo stordimento del vino bianco si era quasi dissolto, presto sarebbero dovuti tornare a casa.
- Avete presente, no? Sulla metropolitana…- Calixte aveva portato una mano stretta a pugno sulla fronte, il gomito su un ginocchio, rideva e mimava.- Chiudono gli occhi e dormono. Dormono! Li ho sempre invidiati.-
- Anche Maël, in auto però. Di giorno dorme sempre, di notte invece controlla che non mi addormenti io.- Aggiunse Stéphane, poi si voltò fino a lambire con lo sguardo l’amato e rivolgersi esclusivamente a lui.- Non ti fidi?-
Ismaël sogghignò e rimase a studiarlo, scorrendo la sua figura confusamente. Stéphane aveva un’espressione dubbiosa, gli occhi risaltavano, scintillanti e neri, le ciglia ancora lunghe e scure più delle occhiaie, salmodiava il suo nome, lo litaniava frastornato e smarrito. Ismaël cercava di infastidirlo solleticandolo sui fianchi, tirandoselo contro.
Mezzora dopo si erano abbracciati, salutati e avevano promesso di rincontrarsi. Calixte aveva cinto con un braccio la vita della moglie, avevano osservato i fari rossi dell’automobile allontanarsi, svanire lungo il vialetto, tra i platani e l’ultima curva.
- Che persone piacevoli.- Notò Agnès colpita.
- Speriamo che pensino lo stesso di noi.- Scherzò Calixte, poi aggiunse cupamente:- Stéphane è una brava persona, non merita di stare così male.-
- Mia sorella è guarita.- Accennò la donna, stringendosi allo scrittore.- Non è il suo caso, però.-
- Domani mattina gli scriverò: “tornate presto, Ismaël ha degli occhi interessanti e mia moglie vuole farvi vedere che è capace anche a cucinare”. Va bene?- Le sussurrò Calixte tra i capelli.















   
 
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