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Autore: margheritanikolaevna    11/09/2012    3 recensioni
Confesso che l’11 settembre mi sconvolse: prima tragedia globale del nuovo millennio, cambiò in modo irreversibile le nostre idee di libertà, sicurezza e democrazia.
Forse per questo amo CSI NY, che si scelse di ambientare lì proprio per aiutare la rinascita della città e in cui l’11 settembre è in qualche modo anch’esso un personaggio, a volte sullo sfondo, a volte invece protagonista.
Ho cercato di raccontarlo secondo prospettive temporali diverse (subito prima, subito dopo, dieci anni dopo) e adesso, che sono passati undici anni e in me rimane ancora inalterato il terrificante sbalordimento di quel pomeriggio, ho voluto ricordarlo con una storia che non ne condivide né lo spazio né il tempo, ma unicamente il cuore più nero.
Grazie in anticipo a chi leggerà.
Prima classificata al contest "War Tales: racconti dal fronte", indetto da Filira su efp ma giudicato da My Pride
Questo è il link al contest:http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10230276
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mac Taylor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo secondo.
Mahmoud Ascari
 
Libano-Valle della Bekaa, 22 ottobre 1983 ore 20.30
 
La notte era calata veloce: il cielo immenso e freddo del deserto si apriva ora sopra la terra spenta.
Mac Taylor guardò in alto dove nascevano le stelle: Orione appena spuntato sopra l’orizzonte, la punta dell’Orsa Minore, che lì chiamavano Cabri la solitaria, e all’altra estremità della costellazione l’azzurra Kochab. La Via Lattea come un mare di sabbia: sabbia che splende sopra altra sabbia, che assorbe la luce calda del giorno e la restituisce pallida e fredda nella liquida oscurità notturna.
Le stesse stelle che lui e suo padre contemplavano durante le rare vacanze in campeggio, perché le luci di Chicago rendevano impossibile distinguerle; quelle che gli mostrava raccontandogli le leggende che gli uomini avevano inventato per ciascuna di esse.
Un cielo identico sotto il quale si consumavano altre vite, completamente diverse; un altro mondo sul quale gravava lo stesso cielo, spettatore immobile delle sue miserie.  
Ora il piccolo convoglio aveva raggiunto un modesto villaggio: dietro le palme stente si scorgevano povere case col tetto di sterpi, tende di lana pesante e muretti di pietra a secco che dividevano la terra in piccoli poderi. Nello piazzo sterrato al centro ardeva un fuoco, ma intorno a esso non si scorgeva anima viva.
I due veicoli si fermarono e i soldati a bordo iniziarono a guardarsi intorno nervosamente, temendo un’imboscata a causa del silenzio e di quell’insolita solitudine: infatti dopo qualche istante dalle ombre circostanti, non rischiarate da alcuna luce tranne i fari delle jeep e i riflessi rossastri del falò, emersero senza alcun rumore prima il luccichio minaccioso delle canne dei fucili e subito dopo le sagome di dieci, forse quindici uomini.
Il tenente mormorò un’imprecazione: erano in trappola e la colpa era sua!
Fissò i suoi uomini tentando di cogliere se sui loro visi vi fosse la rabbia che lui era convinto di meritare per averli infilati in quel maledetto pasticcio, ma vi scorse solo determinazione e una sorta di disperato coraggio, forse quello che i soldati in guerra sono costretti a trasformare in odio per poter continuare a uccidere.  
I secondi colavano via con insopportabile lentezza: da una parte e dall’altra nessuno muoveva un muscolo, come attendendo il segnale che avrebbe scatenato l’inferno. 
All’improvviso Shirin scese dall’auto e, apparentemente senza alcuna paura delle armi spianate, attraversò lo spiazzo, giungendo fino alla grande tenda scura che sorgeva alla sua estremità. Si fermò sulla soglia e pronunciò alcune parole che nessuno riuscì a udire, nonostante il silenzio carico di tensione; in risposta a queste si levò un lembo di stoffa ed emersero dall’oscurità interna un uomo di circa cinquant’anni, vestito di una thobe scura e con il capo coperto, e subito dopo un giovane alto che imbracciava un mitra.
Mac vide la ragazza parlare animatamente, voltandosi ogni tanto verso di loro e gesticolando, e non gli fu difficile comprendere che stava raccontando quello che era le era successo e che tentava di intercedere per la salvezza dei soldati che avevano soccorso lei e sua madre. Poi a un tratto si inginocchiò e tacque; l’uomo più anziano dopo qualche istante di silenzio annuì, le posò una mano sulla testa (unico gesto affettuoso, considerò il marine, nei confronti di una giovanetta - forse una figlia - che aveva rischiato di non rivedere mai più!) e, dopo averle fatto cenno col capo affinché entrasse all’interno della tenda, si accostò alle due macchine.
A quel punto Mac scese a sua volta e avanzò nella sua direzione: ben presto furono l’uno di fronte all’altro. L’uomo lo squadrò a lungo da capo a piedi e il tenente non distolse gli occhi, sostenendo il suo sguardo nel quale, sotto la patina di una diffidenza mista a gratitudine, bruciava - lo comprese chiaramente - un odio profondo e inestinguibile.
“Non siete i benvenuti qui” disse poi a voce alta, in un inglese corretto e sorprendentemente privo di inflessioni straniere “Ma non posso ignorare che avete salvato la vita a mia figlia e a mia moglie…”.
“Ti meravigli, americano, che io parli la tua lingua?” proseguì leggendo lo stupore sul volto abbronzato del militare “Non tutti qui sono selvaggi come tu e i tuoi capi pensate: l’ho appresa molti anni fa, ma da allora non l’ho mai dimenticata. Mi chiamo Mahmoud Ascari e non è costume della mia famiglia tradire le sacre leggi dell’ospitalità, per cui hai la mia parola che né a te né ai tuoi uomini sarà fatto alcun male fino a che resterete qui”.
Fece un gesto deciso con la mano destra e le armi che fino a un secondo prima erano puntate sul gruppo di soldati si abbassarono in un unico movimento, come sincronizzate.
“Venite” aggiunse l’uomo senza sorridere, ma in tono meno teso “il viaggio è stato lungo e la notte è gelida: mangerete qualcosa insieme a noi e poi potrete riprendere il vostro cammino”.
Mac si voltò verso i compagni rivolgendo loro una silenziosa domanda: i suoi uomini erano stanchi e affamati e il tragitto per tornare a Beirut sarebbe stato ancora lungo e faticoso, per cui tutti loro sentivano il bisogno di una sosta.
Eppure lui esitava di nuovo, chiedendosi se accettare quello strano invito oppure no; quella volta però furono i suoi sottoposti a decidere, dopo essersi scambiati un’occhiata, scendendo dal veicolo e schierandosi compatti alle spalle del tenente.
 
 
 

  
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