Capitolo quarto
Addio, figlio. Gloria a te, o shaid!
Libano-Valle della Bekaa, 23 ottobre 1983 ore 03.00
L’alba è ancora lontana, l’aria grigia e immobile della notte è attraversata solo dalle grida lugubri di qualche sciacallo lontano.
Ismalal Ascari (6) si è già levato dal suo letto, si è rasato perfettamente, ha terminato di compiere le abluzioni rituali e recitato la preghiera dei morti; adesso pronuncerà le parole della preghiera dell’alba, poi ascolterà dal padre Mahmoud l’ultimo sermone della sua vita.
Quella notte non ha dormito molto e beve avidamente l’ultimo bicchierino di tè che Azar gli porge; la bevanda bollente e dolcissima lo rianima un po’.
Rimane solo con se stesso mentre la madre s’infila di nuovo per un attimo sotto la tenda cercando di nascondere le lacrime; non ha paura lui, no, né alcuna incertezza. Ha ripetuto mille volte i gesti della sua missione, conosce a memoria tutti i movimenti che dovrà compiere.
Lui e gli altri hanno progettato di sequestrare il camion che ogni giorno porta l’acqua alla base americana situata vicino all’aeroporto internazionale di Beirut; ne hanno studiato per giorni il percorso e gli orari e sanno che non vengono mai modificati. Ne conoscono il modello e il colore e sono riusciti e procurarsene uno identico, poi dipinto in maniera da assomigliare in tutto e per tutto a quello vero; solo che non porterà agli americani acqua, bensì morte. Perché sarà imbottito con l’equivalente di quindicimila chili di tritolo.
A lui toccherà il compito di guidarlo fin dentro alla base e farlo esplodere in modo da causare più danni possibile.
Non piange lui e, anzi, è felice perché sa che gli è stato tributato l’onore più alto: morire per Allah.
Non teme la fine, ma al contrario la cerca con gioia; sa che diventerà uno shaid, un testimone che conosce la verità ed è disposto a morire per essa, e pensa con fierezza che tra la sua gente si parlerà di lui come di un modello da imitare.
Dio vuole la sua morte, il suo martirio per la verità, e questa è l’unica cosa importante.
Mahmoud lo raggiunge e lo bacia sulla fronte, tremando; improvvisamente sembra molto più vecchio dei suoi cinquant’anni.
“Gli StatiUniti, Israele e il mondo intero devono sapere che noi abbiamo il senso delmartirio e che i nostri slogan diventeranno realtà” gli dice, pur sapendo bene che il figlio non ha bisogno di ulteriori motivazioni e che quelle parole sono solo un conforto per chi le pronuncia “La flotta americana non cispaventa. Con la nostra fede e con la nostra forza daremo agli americani unalezione che non dimenticheranno mai… ciò che stai per fare sarà una buona azione, perché scuoterà il trono dell’America e il potere della Francia”.
Sa che Ismalal nel compiere la sua missione adempirà a due obblighi: l’uno verso Dio, l’altro per difendere se stesso e il suo paese. Sa che è un privilegio, che in Paradiso si sposerà con settantadue vergini dai profondi occhi scuri e che sulla sua testa sarà posata una corona di gloria di cui un solo rubino vale più del mondo intero.
Lo sa, ma il suo cuore si consuma lo stesso. Segretamente.
***
Shirin, non avendo la forza di dire addio a suo fratello Ismalal, all’ultimo momento ha preferito rimanere dentro la tenda; ora che il ragazzo è partito Azar non si trattiene più e singhiozza disperatamente, mentre la figlia la guarda senza dire nulla, incapace di parlare di fronte a quella che le sembra una follia.
D’un tratto la donna solleva su di lei il volto stravolto dalla sofferenza e geme: “Mi guardi come se fossi pazza! Pensi che io abbia il cuore di pietra? Credi forse che non soffra? Le mie lacrime non dovevano impedire a Ismalal di compiere la sua missione; il mio cuore è spezzato, ma sono disposta a sacrificarmi per qualcosa di più prezioso e sacro della nostra vita terrena… Lo capisci, figlia?”.
Shirin fa un cenno affermativo col capo perché sì, lo capisce.
***
Azar, disfatta dal dolore, si è assopita per un po’ e quando, destatasi, ha cercato la figlia si è accorta con stupore che la ragazza non si trovava lì, nel villaggio; lo ha riferito al marito che, con un atteggiamento che l’ha meravigliata ancor di più, è rimasto in silenzio quasi che la notizia non lo avesse sorpreso.
Mahmoud non le ha risposto: non era necessario che sapesse tutto, era soltanto una donna e probabilmente non avrebbe comunque capito. Così Shirin l’aveva fatto davvero - considera con rabbia - gli aveva disobbedito nonostante tutto.
L’aveva sottovalutata, non credeva che ne sarebbe stata capace, e invece avrebbe dovuto leggere cosa si agitava nei suoi occhi da puledra selvaggia…
La notte prima, non appena il convoglio dei marines era scomparso nella notte, lei si gli era avvicinata e gli aveva detto: “Padre, perché non mi hai permesso di avvisarli? Non è giusto, quegli uomini mi hanno salvato la vita, perché adesso io non ho potuto fare altrettanto per loro?”.
“Loro?” aveva subito pensato Mahmoud con un moto di indignazione “Loro o, piuttosto, lui?”.
In un momento diverso, se non avesse saputo quanto era stato vicino a non rivederla più viva, le avrebbe di certo chiuso la bocca con un manrovescio ma quella volta no, non lo fece perché, nonostante tutto, quell’idea folle aveva attraversato per una frazione di secondo anche il suo cervello.
Ma era stato solo un istante e poi aveva capito che non si poteva tornare indietro, così aveva riaffermato con forza a se stesso le parole della loro guida, l’Ayatollah Khomeini: non esiste un imperativo più vincolante per un musulmano dell’ordine di sacrificare la sua vita per difendere e sostenere l’islam.
La guerra ha le sue regole e non bisogna avere pietà dei nemici, neppure se per avventura arriviamo a provare rispetto per loro. O addirittura gratitudine.