Questa è una
storia d’amore.
O, forse, voi la
intenderete come tale.
Bene, allora
rettifico, così che non vi possiate sbagliare.
È così facile
farlo.
Questa può
essere considerata una storia d’amore.
È affascinante
il verbo «Potere», vero?
Tutti gli esseri
umani ne sono attratti in modo inderogabile.
La possibilità
è una tentazione troppo forte e sensuale.
Chi o cos’è
un uomo, per resistere a cotanta amante?
Ve lo dico io:
nessuno e nulla.
Siamo condannati
alla possibilità.
Alla scelta.
In ogni
avvenimento, in ogni situazione, scegliamo.
A volte, in modo
nobile, a volte no.
Ma cos’è
giusto? Cosa sbagliato?
Sapete
discernere il bianco dal nero?
Io pensavo di sì.
Mi sbagliavo.
Il grigio…il
grigio è l’unico colore.
Solo il grigio
Non c’è
scelta, in questo.
Ogni azione,
ogni decisione ha due poli che non si discernono.
Un movente
positivo, uno negativo.
Per una persona,
le proprie scelte sono sempre corrette nel momento in cui le compie.
Ma non siamo qui
per discutere di etica e morale, potrei starci le ore e voi vi annoiereste.
Sono qui per
raccontare una storia.
Se mi concedete
ancora un attimo di pazienza, vorrei spiegarvi come mai ho deciso di scrivere
questo breve racconto e la sua struttura.
È un brano
breve, psicologico.
Un’introspezione
nell’animo umano; un’analisi di una vicenda che, come molte storie, sfocia
in tragedia.
È stato
necessario, per me, partire dal principio, dall’infanzia, per spiegare i
fattori che portano una persona a comportarsi in un modo, anziché in un altro.
A volte ho
parlato per metafore, nel tentativo di rendere la lettura di più facile
scorrimento e per adattarmi ad una trama già narrata.
Perché l’ho
scritto?
È un regalo per
una persona cara.
Un atto dovuto a
chi è stato, per una volta, interamente bianco.
Piccolo omaggio,
perché non mi costa nulla raccontare, come a voi non vi costa nulla leggere.
Non voglio
giustificare nessuno, quest’opera non è un’apologia inutile.
Non vi chiedo di
trattenervi dal giudicare, non ne potete fare a meno; siete umani, proprio come
me.
Non provate pietà
per questa comparsa; non l’accetterebbe.
Odia la pietà.
Vi chiedo solo
di leggere, di provare a comprendere, perché capire sul serio è impossibile
per chiunque, perfino per chi sta scrivendo.
Leggete e
tenetevi dentro queste parole, tracciate dall’inchiostro sulla carta.
Leggete e badate
al grigio.
A Kiba,
A Neji,
A tutti coloro
che ci sono stati, ci sono tutt’ora e continueranno ad esserci,
A chi ha
scoperto che il bianco e il nero non esistono,
A tutte le
diverse variazioni di grigio,
Buona lettura.
Love
& Pain
Special S. Uchiha
Grey’s variation
Sasuke Uchiha non era un tipo socievole.
Tendeva da evitare i coetanei o qualsivoglia tipo
d’aggregazione.
Per questo, veniva considerato schivo, silenzioso, freddo,
superbo e arrogante.
E tutto ciò, era vero.
Le chiacchiere dei compagni, lo annoiavano; i loro
passatempi, lo irritavano; il loro continuo spettegolare lo rendeva insofferente
alla compagnia.
Eppure, da piccolo non era stato così.
Era un bambino allegro, con un’infanzia simile a quella di
mille altri suoi coetanei.
Serena, vissuta all’interno del nucleo familiare, composto
dai genitori, dall’adorato fratello e da uno stuolo di zii e cugini.
Una parentela numerosa e pretenziosa, simile a quelle piccole
corti feudali che si formavano attorno ad una personalità carismatica e
autorevole.
Questa persona era suo padre.
Sasuke era ancora troppo piccolo per comprendere le
motivazioni, ma sapeva che il suo papà era speciale.
Lui doveva essere all’altezza di cotanto genitore e portare
con orgoglio il proprio cognome.
Ma le favole non hanno sempre lieto fine.
Il bambino vive nell’illusione che i genitori siano
immortali.
Falso, ma è l’età della fanciullezza e, in quegli anni,
si è immersi in un mondo di sogno dove tutto assume consistenza idilliaca e
fiabesca.
La differenza tra bene e male è netta.
Bianco è l’abbraccio dei genitori; è il fratello maggiore
che ti prende in braccio.
Nero è la maestra che ti sgrida; l’esercizio per casa;
l’uomo cattivo alla televisione.
Sasuke viveva sereno, nel suo mondo bianco.
La vita è come un tao.
Nella parte nera c’è un pallino bianco, in quella bianca
un pallino nero.
Staccate.
Contorni netti.
Quando suo fratello portò il nero nella sua vita, Sasuke
cambiò.
Divenne scontroso, cupo, asociale e sprezzante.
Sfiduciato nei confronti degli esseri umani.
Sasuke aveva conosciuto il grigio.
Adesso non andava più fiero del suo cognome.
Evitava di presentarsi come Uchiha, a meno che non fosse
strettamente necessario.
Tutti, quando lo conoscevano, lo squadravano sbigottiti.
L’unico sopravvissuto allo sterminio, il figlio di Fugaku
Uchiha.
Molti gli si avvicinavano per arruffianarselo, molti
preferivano sparlarne alle spalle.
Per Sasuke, questi erano meno fastidiosi.
Sentiva un peso sulle spalle; il suo cognome era un marchio
che non poteva cancellare senza spezzare l’ultimo legame con la famiglia.
Doveva rendere fieri di lui i genitori, anche se questi non
c’erano più.
Doveva diventare grande, proprio
come era stato suo padre.
Ma la strada era dura, la fatica tanta e le soddisfazioni
scolastiche sempre venate dalla sottile ironia che accompagnava il giudizio dei
compagni e di molti professori.
Se prendeva un bel voto era scontato, perché era un Uchiha.
Era logico che andasse bene.
Se prendeva un brutto voto, era sconvolgente, perché era un
Uchiha.
Non poteva andare male.
Sasuke tentava di evitare il più possibile la seconda
opzione.
Meglio la scontatezza che la compassione.
Meglio sopportare le frecciate acide, che impietosire.
Il grigio, il grigio…
…a volte diventava troppo scuro.
Il bianco non c’era più e Sasuke se ne allontanava.
Nel bianco è troppo doloroso incontrare il nero.
Meglio il grigio.
L’abitudine.
Meglio.
Già.
Sasuke Uchiha scoprì di essere bisessuale a tredici anni.
Si rese conto dell’età solo molti anni dopo, quando ci
rifletté consciamente e constatò che era proprio in quegli anni che aveva
cominciato ad interessarsi al proprio sesso.
Si era quindi creato un mondo segreto, intimo e privato; un
Sasuke diverso da quello che tutti conoscevano.
Un individuo distinto dall’Uchiha; una persona più
fragile, più sensibile, che si affezionava a chiunque gli desse un po’
d’affetto.
Il bambino che era stato, tornava alla luce dopo anni di
pianti invisibili.
Sasuke era la parte bianca, Uchiha la parte nera.
Logicamente, tutti conoscevano Uchiha, nessuno Sasuke.
Era troppo fragile per mostrarsi.
Veniva ferito dai commenti dei compagni, che Uchiha ignorava
con altergia.
La notte, ogni tanto, piangeva.
Sasuke aveva
bisogno degli altri.
Uchiha no.
Fu al liceo che Sasuke cominciò a mostrarsi un poco.
Non spesso, ma bastava.
Il nero non può celare il bianco a lungo, pur continuando a
contenerlo.
Incontrò Neji.
Divenne suo compagno di stanza.
Riuscì a far parlare Sasuke.
C’era affinità, tra loro.
Erano simili.
Dall’amicizia, alla confidenza reciproca, al finire a
letto, il passo fu breve.
E così naturale che non ebbero neanche il pensiero di porre
limitazioni, né di chiedersi il perché.
Era successo.
Continuava a succedere.
Sarebbe successo anche in seguito.
Senza obblighi, né limitazioni.
Non era amore, però.
Sasuke aveva la certezza che mai si sarebbe innamorato di un
altro ragazzo.
Ed era così.
Il pensiero di passare la vita affianco ad un maschio lo
faceva star male.
Contraddittorio, visto il suo comportamento, ma il giovane
Uchiha aveva compreso una cosa della propria persona: non gli piaceva il sesso
con altri uomini.
Doveva provare un forte affetto per loro, per andarci a
letto; altrimenti la sua attrazione si bloccava ai baci.
Questo “impedimento”, confermava il fatto che, per lui,
il sesso era un modo per esprimere i sentimenti che provava verso le persone
care.
Neji aveva cambiato la sua vita.
Aveva voluto Sasuke, non Uchiha.
Sopportava le sue sfuriate, le crisi d’infantilismo, lo
esortava e lo consolava.
A volte, Sasuke lo trovava perfino oppressivo e soffocante,
ma poi sorrideva intimamente.
La sua autostima (e sì che era alta, perché da sempre aveva
coltivato un forte orgoglio e una dose non indifferente di superbia e
megalomania), non crollava di fronte alle numerose offese rivoltegli dal
compagno.
Sentiva che Neji era fragile quanto, se non più di lui.
Perché il nero e il bianco sono presenti in tutti.
Grigio, grigio, grigio…
Sasuke amava i luoghi piccoli e stretti.
Era claustrofobico, ma la sensazione di soffocamento lo
agitava e lo tranquillizzava al tempo stesso.
Bianco e nero.
Come sempre.
Aveva passato giorni chiuso nell’armadio col cadavere della
madre.
Stretto ad un corpo privo di vita.
L’odore del sangue e della decomposizione, il poco
ossigeno, l’aria viziata del cubicolo avevano chetato la sua psiche in
procinto di crollare.
Da allora, aveva preso l’abitudine di dormire acciambellato
come un gatto; le coperte fin sopra la testa.
Poca aria.
Tanto caldo.
Rilassato, si addormentava.
Molte volte stretto ad un peluche.
Abitudine mai persa, quella di ricercare calore; Neji a volte
se lo trovava avvinghiato addosso dopo il rapporto, come un animale in cerca di
coccole.
Poi, un giorno, era arrivato Kiba.
Timido, schivo, silenzioso.
Era bianco, o perlomeno grigio chiaro.
Finiti tutti assieme in camera, Sasuke ebbe modo di
conoscerlo tanto bene quanto bastava da affezionarsi.
Forse, troppo.
Ciò che era mancato a Sasuke, era qualcuno che avesse
bisogno di lui.
Un forte senso di protezione, necessità di aiutare e
supportare chi ne aveva bisogno…
Mania di protagonismo, presunzione, egoismo.
Molto più probabilmente, entrambe.
Bianco più nero uguale grigio.
Possessività non palesata, dimostrata solo attraverso
piccoli gesti d’affetto quotidiani; con una sadicità psicologica sottile
quando era di cattivo umore.
Uchiha e Sasuke continuavano ad alternarsi.
Era stranamente felice quanto riusciva ad aiutare l’amico,
era insofferente quando lo vedeva dipendere in maniera maniacale dagli altri.
Voleva che lo ritenesse necessario, lo voleva indipendente.
Istinto egoistico, ragione altruistica.
Forse, semplicemente grigio.
Sasuke poteva ammettere, in un certo senso, di amare Neji e
Kiba.
Non dell’amore cantato dai poeti, neanche di quello
carnale.
Era qualcosa di più elevato, ma di più primordiale.
Un amore simile a quello che si può provare per due fratelli
incestuosi, con quell’affetto maniacale e il peccato insito in sé.
Necessità.
Droga.
Dipendenza stretta e intima, che faticava ad esprimere
appieno.
Ma se con Neji, a parole, vi riusciva, con Kiba non ce la
faceva al di fuori del sesso.
Sasuke aveva sviluppato un particolare piacere nel rapporto
col castano.
Lo trovava così dannatamente arrendevole, da non poter fare
a meno di adoperarsi in ogni modo per vedere l’espressione lasciva che
modellava il suo volto; sentire il suo corpo contrarsi quando lo accarezzava…
Era avido di quei gemiti sommessi e di quelle labbra
socchiuse che invitavano ad essere catturate da un bacio.
Lo faceva stare bene.
Sasuke Uchiha era un essere umano complesso, come tutti i
suoi simili.
Per quanto i suoi sentimenti e le sue intenzioni potessero
essere o sembrare nobili, erano dettate da un egoismo di fondo di cui,
purtroppo, era pienamente consapevole.
Dove Sasuke s’illudeva, Uchiha smentiva.
Ma il grigio…il grigio…
Le buone e le cattive intenzioni si mischiano, non si
separano.
Altruismo ed egoismo.
Noia e desiderio.
Neji e…Kiba.
Amava il suo abbandono, odiava la sua indolenza.
Amava il suo bisogno d’affetto, odiava la sua dipendenza.
Lo voleva abbracciare, confortare, coccolare, per averlo
sempre con sé.
Lo voleva picchiare, bistrattare, allontanare, per avere una
qualsivoglia reazione.
Quanto è difficile praticare la coerenza.
Sasuke avrebbe voluto essere di un colore solo, o bianco o
nero, invece di quel terribile, scialbo, insignificante grigio.
Sasuke Uchiha era molto possessivo negli affetti.
Si legava a poche persone che diventavano il centro del suo
mondo.
In fondo, era un tipo disponibile con chi richiedesse il suo
aiuto, ma solo a queste lo offriva spontaneamente e con genuina gioia.
Tentava di capire i loro problemi e aiutarli a risolverli.
Forse, anche perché i problemi altrui non lo facevano
pensare ai propri.
Cinismo?
Probabile.
Disponibilità?
Probabile.
Sempre quel dannato grigio.
Restava il fatto, che Sasuke odiava non risolvere i problemi.
Aveva fatto proprio il detto aristotelico: «Se c’è un
problema deve esserci per forza anche una soluzione.»
Quando non la trovava, Sasuke provava una fastidiosa
sensazione di impotenza che lo scoraggiava e gli faceva dubitare di se stesso.
Fu per questo che, quando avvertì Kiba allontanarsi, non
reagì come avrebbe dovuto.
L’amico gli era diventato incomprensibile e non riusciva a
capirne il motivo.
Kiba era sempre stato trasparente, bianco.
Il suo improvviso ingrigirsi lo sconvolse.
Tendeva la mano, ma il ragazzo sembrava non volerla
afferrare.
Forse, stava diventando autonomo.
Forse, aveva trovato il modo di rendersi indipendente da quei
legami troppo forti e troppo ambigui.
Forse, era solo un’altra menzogna detta a se stesso.
Illudersi per non ammettere di non essere abbastanza.
Per non andare contro ad un orgoglio troppo forte che non
voleva accettare l’idea di aver fallito nel compito di star vicino ad un
amico.
Codardia, purtroppo.
Paura di ciò che non comprendeva.
Per questo, lasciò che Kiba lo ingannasse con la storia
delle sculture di legno.
Non gli era piaciuta la sua mania di giocare col coltello.
Percepiva il pericolo, il dramma incipiente.
Quando glielo sequestrò, era esasperato.
Non poteva accettare
che il bianco ingrigisse.
Non voleva.
Per questo, sbagliò.
Kiba gli mentì.
Sasuke si lasciò ingannare.
Kiba non poteva nascondergli qualcosa.
Non dopo che con lui era stato sempre Sasuke.
Forse, quella volta, sarebbe stato meglio avesse agito Uchiha.
L’aria era intrisa di quel clima teso, che preannuncia la
fine dello spettacolo.
Come nelle migliori tragedie greche, la scena di sangue
avviene dietro le quinte, lontano dagli spettatori.
Gli attori erano tutti riuniti sul palco; fredda sala
d’attesa di un ospedale.
Le comparse singhiozzano, i protagonisti tacciono in un falso
e dignitoso silenzio.
La tragedia si era quasi conclusa.
Le speranze di un lieto fine, poche.
Neji era lì, stringeva tra le mani una lettera.
Bianca, come mai erano state le parole di Kiba.
La sedia di plastica accoglieva il corpo spossato di Sasuke.
Il peso della colpa.
Della consapevolezza di non essere stato utile a chi voleva
bene.
Non aveva saputo prendersi cura di lui.
A poco servivano le parole di Neji.
La mano del ragazzo si posò sulla sua spalla.
Sasuke non la strinse, ma neanche la tolse.
«Non si può aiutare chi non vuole, Sasuke.»
«Non abbiamo voluto realmente aiutarlo, Neji.»
Altrimenti ce l’avrebbero fatta.
Bianco.
Nero.
Bianco.
Nero.
Grigio, grigio, grigio…
Fine della storia, per ora.
Questa, purtroppo, è una
storia infinita che non troverà mai termine, se non quando i suoi protagonisti
arriveranno alla fine o si separeranno.
La storia è vita, signori e
signore.
Voi siete stati al contempo
attori e spettatori, mentre leggevate queste parole.
Adesso, il sipario è calato,
ma è pronto a riaprirsi alla successiva rappresentazione fino a quando il
teatro non crollerà e non rimarranno che macerie.
Ora, divertitevi a capire se
l’introduzione e questo prologo sono opera di chi scrive, o del protagonista.
Arrivederci, e grazie per
essere intervenuti.
L’attore.