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Autore: Briseide    31/03/2007    8 recensioni
“Ah ma allora è Lei!”
Esclamò la ragazza tirandosi in piedi e spolverando con due o tre manate i pantaloni. Nott alzò un sopracciglio, ancora più interdetto. “Prego?” [...] "Lo smemorato!"
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Luna Lovegood, Theodore Nott
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Fic scritta per la prima sessione del Harry Potter ficexchange, prima classificata.

Nota d'obbligo, se mai la leggerà :p : Le mie più sentite scuse a Marcy per questo XD ma verrà ripagata del danno con tu-sai-cosa (ne ho promesse due!)

Che ti rubo stasera?





C’è stato un periodo in cui a Natale ero felice. Eravamo felici. Gustavo l’attesa della vigilia con le aspettative di un bambino e la mattina scendevo le scale e guardavo l’albero addobbato nel centro del salone con gli occhi di chi vede tutto quello per la prima volta. Mi aspettavo sempre qualcosa di diverso, sempre, ogni Natale sapevo che qualcosa avrebbe fatto la differenza.
Un Natale avrei ricevuto qualcosa che non avevo chiesto, quello dopo sarebbe venuto a farci visita un vecchio amico di famiglia o un lontano zio che non vedevo dalla notte dei tempi.
I miei occhi di bambino certi particolari non li vedevano, credevano alle mistificazioni che la nobile casata dei Nott aveva abilmente e minuziosamente costruito anni dopo anni, con una precisione da lasciare attoniti una volta scoperto cosa c’era dietro il sipario.
Però per una serie considerevole di anni ho vissuto il Natale come ogni bambino avrebbe dovuto: con la famiglia, a pranzo al tavolo del salone, con le luci dell’albero che mandavano riflessi baluginanti sulla candida porcellana dei piatti, simmetricamente disposti in linea con i bicchieri e le posate, per cui disegnavano rettangoli perfetti.
Mi divertivo a seguire i riflessi delle luci di piatto in piatto, mia madre, mio padre, lo zio, la brocca dell’acqua, verde, rosso, blu, giallo, verde, rosso, blu, giallo.

Un Natale, mio padre mi prese da parte, con aria compunta, interrompendo il mio gioco di luci. Mi alzai da tavola e lo seguii, fiducioso come lo ero sempre stato e come reputavo di poter essere: seguivo mio padre, niente sarebbe potuto accadermi se coprivo le orme dei suoi passi con i miei piedi.
Mi portò nel suo studio, e il solo varcare la porta mi chiuse lo stomaco. Rimpiansi dal primo momento in cui mi ritrovai in quella stanza buia e legnosa – si, la definii legnosa, lì dentro qualsiasi cosa era fatta di legno, la libreria, la scrivania, il piccolo tavolinetto all’angolo, le zampe delle sedie e forse anche il cuore di chi ci lavorava era diventato legnoso, come i suoi movimenti, ma questo è stato un pensiero successivo – l’albero e i suoi colori, eppure quello fu anche il momento in cui iniziai a capire.
Mio padre mi disse di chiudere la porta, e lo feci. Persino il vociare sommesso al piano di sotto si era spento. Più mi guardavo intorno, più mi domandavo se per caso non fossi stato inglobato in quel legno massiccio, che non lasciava trasparire né respirare niente. Mi mancava un po’ l’aria e non avevo il coraggio di chiedere di aprire la finestra. Mi stupii che le imposte non fossero incise nel legno in effetti.
“Siediti”.
Disse, e la sua voce echeggiò una volta sola nella stanza, e cento nel mio petto. Obbedii ovviamente, e quello mi sembrò un vero ordine: non me lo aveva chiesto sorridendo – scoprii anche che i sorrisi di cui mi aveva nutrito per tutto quel tempo erano in realtà la facciata di una imposizione proposta come gentile richiesta. A cui avevo creduto e ceduto. Come un bambino. E come uno stupido.
Rimasi in silenzio, improvvisamente avevo perso il coraggio di porre domande. Facevo domande di continuo quando ero piccolo, chiedevo i più disparati perché per ogni cosa, e sollevavo delle questioni alquanto bizzarre partendo dai più banali oggetti e fenomeni quotidiani. Alle mie domande i miei genitori davano sempre risposte. Solo allora imparai che di quelle risposte dovevo dubitare. Con calcolata freddezza.
Rimasi in silenzio anche mentre apriva un cassetto con uno scatto secco eppure affatto brusco, estraendone una scatola sottile e quadrata. Avrei voluto chiedere cosa fosse e non lo feci. Mi incuriosiva l’aria solenne con cui compiva ogni gesto, eppure al tempo stesso avvertivo una certa predestinazione in ogni sguardo che posava su di me.
Quella scatola conteneva qualcosa dall’aspetto bellissimo, pensavo, di quello ero sicuro. Non mi sbagliai: quando fece scorrere di lato il coperchio, la prima cosa che vidi fu un bagliore. Poi distinsi i contorni di un anello, sobrio e finemente lavorato nella sua semplicità. Riluceva da solo nella penombra della stanza, e bastava. A me bastò se non altro, mi accontentai di quella flebile luce, sporgendomi un po’ sulla sedia per vederlo da vicino.
Mi tirai subito indietro però, quando mio padre sospinse la scatola verso di me. Ogni suo gesto mi spaventava, ero atterrito dalla sua presenza.
Mi stava rubando qualcosa, a partire dal gioco di luci dell’albero di Natale, ma a dire dalla sua espressione perfettamente calma e autoritaria, non ne era affatto dispiaciuto.
Credeva fosse un suo diritto, e che fosse mio dovere fare quello che mi avrebbe chiesto di lì a poco.
Aveva la faccia di qualcuno che sta per dettare una lunga lista. Di regole.
Non mi scomposi, sporsi solamente la testa in avanti, di nuovo, e a labbra dischiuse in un muto e terrorizzato stupore, guardai meglio l’anello.
Si, l’aspetto era bellissimo. E qualcosa mi diceva che maggiore era la sua bellezza, maggiore sarebbero stati gli oneri per me.
Trovai finalmente l’ardire di sollevare gli occhi su mio padre: era in piedi, le mani poggiate saldamente al piano della scrivania in legno, massiccio, oh se lo era, scuro e massiccio, e tutto era tremendamente lugubre e austero lì dentro, mi sembrava di non esserci mai entrato; era in piedi e mi fissava con uno strano cipiglio di aspettativa e severità.
Sembrava che avessi già sbagliato.
“E’ tuo. Da oggi”.
Mormorò in mia direzione, indicando con un gesto impercettibile della testa l’anello. Allargai gli occhi, e feci per dire qualcosa che non trovò mai espressione. Avrei voluto chiedere perché, ma mi sembrava una domanda piuttosto inutile a quel punto, e subito dopo ebbi voglia di rifiutare, educatamente come mi avevano insegnato, ma di rifiutare.
No grazie, sono più contento se lo tieni tu papà. Mi zittì con una sola occhiata. Io rimasi seduto, aspettando il resto. Aspettando la lunga lista di regole, che però non arrivò mai.
Mio padre fece il giro del tavolo, comparendo al mio fianco silenziosamente. Repressi a stento un brivido, che contro ogni mia più innocente speranza non fu di sorpresa, quanto di soggezione.
Poggiò una mano sulla mia spalla. Probabilmente avrei anche smesso di respirare a tempo indeterminato se lui me lo avesse ordinato, con quella mano sulla spalla.
“Lo conserverai, sempre. E quando te lo dirò, saprai cosa devi farci. Vai, il pranzo si fredda”.
Mi alzai meccanicamente, dando un ultimo sguardo all’anello. Era ancora lì, fermo immobile nella sua inquietante lucentezza. Non guardai in faccia mio padre, scesi le scale e raggiunsi il salone, tornai a sedermi al mio posto, accanto allo zio che era venuto a trovarci. Davanti a me, mia madre mi lanciò uno sguardo indefinito, trapassandomi da parte a parte. Forse con quello sguardo aveva voluto comunicarmi qualcosa, ma era una pretesa troppo grande nei confronti di chi aveva appena smesso di essere un bambino, e io non lo capii.

Quando quella sera andai a letto, trovai nel primo cassetto del comodino la scatola con l’anello.
Lo avevo aperto per posarvi gli occhiali, e invece vi trovai adagiata placidamente tra i fazzoletti di stoffa con lo stemma di famiglia quella scatola. Ebbi come l’impressione che il bagliore dell’anello rilucesse anche lì, prepotente e ineluttabile.
Richiusi seccamente il cassetto, deglutendo a fatica.
Poi cercai di addormentarmi, ma ovunque guardassi, anche ad occhi chiusi, il suo bagliore era sempre lì, al centro della mia mente, dietro lo sguardo fatale di mio padre, oltre gli occhi tristi e dispiaciuti di mia madre, oltre la mia comprensione di neo adulto, alla sola età di tredici anni.

+++

“Signor Nott, è un vero piacere avervi qui”.
La voce gli giunse ovattata nell’eco delle altre mille parole uguali che si era sentito rivolgere dall’inizio di quella sera. Al suo fianco, Blaise Zabini aveva storto le labbra in un espressione annoiata, scuotendo leggermente il polso stretto tra due gemelli perfettamente identici di una camicia amorevolmente inamidata dalle mani esperte di una innamorata elfa domestica di passaggio al Maniero, decidendo che superato il quindicesimo augurio di buona serata – del tutto sprecato del resto – si sarebbe dedicato alla praticità della questione, trovando un modo autonomo e autosufficiente per migliorarla.
Theodore Nott dal canto suo si limitò ad un cenno veloce del capo “Immagino” rispose sottilmente ironico, e detto questo passò oltre, perdendo senza troppa preoccupazione né rimpianto di vista il compagno, che avrebbe certamente ritrovato a fine spettacolo, al braccio di qualche gentile donzella sprovvista di accompagnatore, o liberatasi all’ultimo minuto da questi più probabilmente.
Trovò il posto che gli era stato riservato senza troppa difficoltà, gli era bastato dirigersi a passo sicuro ed annoiato verso le poltrone migliori, trovandone una a suo nome. Il posto accanto al suo era vuoto, e lo sarebbe stato ancora per molto.
Il celibato di Theodore Nott del resto era un dato di fatto noto e chiacchierato nelle più alte e illustri sfere della società magica del tempo: neanche il breve periodo di pace, segnato dalla latitanza di Lord Voldemort – l’ennesima, che lasciava ad intendere un altro periodo di ridicolo nascondino tra lui e Harry Potter come da migliore tradizione - era riuscito a quietare gli animi e volgere l’attenzione di tutti al periodo di serenità che si stava avvicinando. Tutti trovavano evidentemente più interessante struggersi ed inquietarsi per il mancato fidanzamento, sospettato ormai dalla primavera scorsa, del rampollo dei Nott, che immancabilmente, non solo non era avvenuto, ma neanche era mai stato progettato.
Fu quindi con un sorriso di compiacenza che Theodore volse il capo verso una giovane donna seduta tre posti più in là, intenta ad occhieggiarlo da un tempo ben più lungo di quello che il buonsenso e la discrezione richiedono.
“Theodore, che piacere. Non contavo di rivederti tanto presto”.
Lo scambio di sguardi venne interrotto dall’intrusione di una voce impostata sebbene il proprietario della stessa fosse quel che si può considerare il più lontano esempio di compostezza e dignità.
Eppure, nonostante Theodore Nott fosse solito non scomporsi mai davanti a niente, il sorriso tirato vacillò per un istante, lasciando intravedere lo spiraglio di un possibile sospetto sulla calma piatta che regnava nei suoi occhi.
L’interlocutore prese posto accanto a lui, scivolando sulla sedia come se non avesse un benché minimo accenno di spina dorsale e legamenti, volgendosi poi verso di lui.
“Potrei dire lo stesso”.
Mormorò Theodore in risposta, sentendo un nervo accavallarsi.
Se fino ad allora era perfettamente riuscito a precludersi qualsiasi intrusione ai suoi piani, spacciando la sua presenza al Teatro Magico di Arte e Spettacolo di Londra per un mero interesse allo spettacolo del giorno, di fronte a quella chiara quanto sottile allusione, scivolò per qualche istante.
Distolse immediatamente lo sguardo, non appena ne ebbe la possibilità, puntandolo ostinatamente sulle tende di broccato del sipario ancora chiuso.
“Gli attori saranno entusiasti di tanto apprezzamento”.
Proseguì l’altro.
Nott scrollò le spalle, avvertendo così i muscoli ancora più tesi.
“Non reputo la mia opinione tanto influente. Saranno più felici di notare l’affluenza di pubblico.”
Tagliò corto.
“Ti sminuisci, caro Theodore. La tua famiglia è una delle casate più in vista negli ultimi anni. Una delle poche a non… soccombere, se non è un termine troppo denigrante nei confronti delle altre, alla scomparsa del Signore Oscuro. Naturale che la tua opinione conti qualcosa”.
Insisté l’altro accompagnando lo sproloquio con una secca risata. Allungò il braccio magro e filiforme compiendo un semicerchio che andò ad abbracciare le numerose persone presenti sotto di loro. Nott seguì il gesto con sguardo vigile, teso.
“La gente ti rispetta, Theodore. E se vieni a vedere due sere di seguito lo stesso spettacolo della stessa compagnia, mio caro, lode agli attori e lode al teatrante”.
Istintivamente Theodore serrò la mano contro il bastone al suo fianco. La guerra aveva lasciato segni su tutti, a lui era toccata una lieve zoppia. Niente di troppo seccante dopotutto, anzi, il passo non era cambiato quasi minimamente se accompagnato dal bastone.
Il gesto non passò inosservato, lo sapeva bene. Lasciò nervosamente la presa, volgendosi verso l’uomo ancora al suo fianco.
“Non mi resta altro se non cedere alle lusinghe, dunque”.
E con questo, sperò di aver chiuso il discorso.
“…due sere di seguito lo stesso spettacolo…”
Non era stato prudente, e lo sapeva. Da sempre, e specialmente in certi ambienti, ciò che era inusuale era visto di malocchio. Era la chiara e placida ammissione che dietro si celava qualcosa, che inevitabilmente tutti avrebbero voluto conoscere pur non essendone minimamente coinvolti.
Se solo la posta in gioco non fosse stata così alta, così scioccamente alta lo ammetteva, non avrebbe azzardato una scelta così rischiosa.
Avrebbe dovuto aspettare, lasciar correre due o tre giorni prima di tornare, ma non aveva resistito. Il panico che lo aveva invaso la sera prima, quando rincasando si era accorto che l’anello non era più nella tasca interna della giacca, e la notte insonne trascorsa a cercarlo in ogni più piccolo anfratto della casa, lo avevano convinto della necessità impellente di recarsi di nuovo a Teatro e cercare di ritrovarlo.

Infatti la famosa e temuta lista di regole che si aspettava da suo padre, quel lontano giorno, si era invece rivelata ridotta a due sole imposizioni.
Lo conserverai, sempre.
E quando te lo dirò, saprai cosa devi farci.

Theodore lo aveva fedelmente e ossequiosamente conservato, fino ad allora, ma il lato ridicolo della faccenda era che per uno strano gioco del destino, alla seconda regola non avrebbe più potuto ubbidire.
Due anni prima suo padre era morto in seguito ad una penosa malattia, e tra le ultime parole che gli aveva rivolto, e le righe del testamento, non aveva affatto menzionato l’anello.
L’espressione del suo viso mentre glielo consegnava, impediva a Theodore di credere che lo avesse dimenticato. Era morto lucido e cosciente del resto. E ancora una volta, lui non aveva avuto il coraggio di porre un’altra domanda, né di guardarlo negli occhi.
Aveva conservato l’anello però, guardandolo di tanto in tanto con crescente e insoddisfatta curiosità, guardandosi bene dal porre qualche domanda al fantasma di sua madre, che ogni tanto tornava a fargli visita per rimproverare un qualche atteggiamento poco cortese o qualche frase troppo tagliente che gli aveva sentito riferire in società.
L’unica volta che aveva accennato alla questione, sua madre era scomparsa e non si era fatta viva per quasi un mese. La cosa aveva sollevato notevolmente Theodore, non fosse che quando si era decisa a tornare, sua madre aveva trovato i più bizzarri modi per vendicarsi del presunto oltraggio.
A quel punto, Theodore avrebbe dovuto rinunciarci.
Ma non era nella sua indole, quindi lo aveva semplicemente tenuto nascosto, nella tasca interna di ogni giacca che indossava giorno dopo giorno: in quel modo era certo che dalla residenza Nott non sarebbe mai sparito – nutriva da sempre delle profonde riserve sulla fedeltà degli elfi domestici da quando Potter era riuscito a portare dalla sua parte quello dei Malfoy anni e anni addietro – e contava con arrogante fiducia sulla propria attenzione e cura, e scrupolosità. Che lo perdesse, non era affatto contemplato.
Affatto contemplato.
Eppure lo sapeva, al destino piace smentire gli uomini.

+++

“Lo conserverai, sempre”
“E quando te lo dirò, saprai cosa devi farci”.


Si riscosse leggermente al tocco sulla spalla e al proprio nome, mormorato con una certa nota rassegnata. Abbozzò un sorriso di scuse, volgendo la propria attenzione sul suo accompagnatore. Stare in quel teatro la faceva sentire a disagio, e per di più con il suo problema non le sembrava l’occasione migliore per passare tranquillamente il fine settimana.
Non sapeva di preciso come era successo – il medimago Goldstein aveva cercato in tutti i modi di esplicare la questione senza risultati soddisfacenti per la scienza magica – che sentisse delle voci.
Più che delle voci in realtà erano veri e propri pensieri.
Ricambiò lo sguardo di Harry Potter con un altro leggermente imbarazzato. Ormai chi le stava vicino – chi si ostinava a credere che tutto ciò che in lei fosse extra ordinario e bizzarro non lo fosse poi così tanto – aveva finito con l’abituarsi alla sua più completa svagatezza. Non se la prendevano più se rispondeva con un minuto di ritardo alle loro domande o alle loro osservazioni, e avevano smesso di correggere il verso in cui leggeva il giornale.
Tutti gli altri la additavano come lunatica, svitata o, quello che sinceramente le piaceva di più, svampita. Il suono della parola la faceva sorridere, e Harry e gli altri sorridevano con lei della leggerezza con cui prendeva le reazioni del mondo.
Proprio per quello forse Harry gradiva tanto la sua compagnia. A quanto pareva, Luna gli aveva insegnato la noncuranza. E per ringraziarla, Harry l’aveva portata al Teatro Magico quella domenica di fine marzo. Non aveva potuto declinare, e tutto sommato neanche avrebbe voluto farlo: Harry era quello che a buon diritto avrebbe potuto volerla uccidere, visto il guaio che aveva combinato con quel problema delle voci, i primi tempi che si era verificato.
“Le piacerà di sicuro, Harry” aveva detto entrando nella cucina dell’Ordine con una pila di giornali vecchi per le mani. Harry e Ginny si erano voltati in sua direzione alquanto perplessi. Lei aveva rivolto loro uno sguardo perfettamente tranquillo, dettato da quella abitudine a non essere mai compresa al primo tentativo. Sorrise gentile ad Harry, la cui fronte era solcata da una ruga più profonda rispetto a quella di Ginny. “Quel bracciale che hai visto”. Aveva aggiunto come spiegazione, lasciando cadere in un angolo i giornali che aveva in mano. Harry era impallidito improvvisamente, sembrava sconcertato in effetti, incerto se dire qualcosa o lasciar fare al silenzio. Ginny lo guardò ancora più interdetta, poi aveva spostato lo sguardo su Luna, senza dire niente. Infine aveva scosso la testa, prendendo il canovaccio per asciugare il piatto che aveva tra le mani.
“Ma Harry ha già comprato il mio regalo”. Aveva fatto notare. Scrollò le spalle, passando ad asciugare l’altra faccia del piatto. A quel punto fu Luna a sussultare confusa. “Oh, non lo sapevo. È che ha chiesto se sarebbe piaciuto il bracciale così pensavo che…”.
Ginny aveva smesso di strofinare il piatto. Aveva alzato un sopracciglio. “Il bracciale? Quando?”. Luna la guardò con tanto d’occhi, cercando quelli di Harry. “Ora. Mentre asciugavate i piatti. Non hai sentito?”. Ginny scosse la testa, incredula. “Beh, non hai detto proprio ora che non eri sicuro che a lei potesse piacere il bracciale che hai visto a Diagon Alley?”. Harry aveva fatto un cenno di diniego con la testa, pallido. “Ah. Scusate”. E si era allontanata dalla cucina, dimenticando tranquillamente il motivo per cui era entrata.
Si riaffacciò un istante dopo. “Sto bene comunque, Gin, non preoccuparti”.
Ginny aveva lasciato la presa sul piatto. Si era infranto contro il pavimento, ed Harry si chinò subito a raccogliere i cocci. Sembrava che le mani gli tremassero. “Non te lo avevo chiesto, Luna”.
Aveva detto seccamente Ginny. Luna aveva scosso la testa. “Ma sì, l’ho sentito. Ora”. Ginny si era retta saldamente al bordo del lavandino. Harry era ancora chino sul pavimento. Pareva si fosse tagliato con un coccio, perché imprecò a mezza voce. Anche la sua voce tremava.
Ginny aveva guardato verso il basso, rossa in viso. Tremava anche lei. “Spero che le piaccia davvero, Harry”. Aveva detto fredda come il marmo, prima di superarlo e uscire dalla cucina. Poi aveva guardato anche Luna, con un sorriso mesto. “Complimenti Luna. Sai leggere nel pensiero”.

Harry la guardò con un sorriso dolce, scuotendo piano la testa.
“Ancora quelle voci?”
Domandò a puro titolo informativo. Luna annuì con un sospiro.
“Ce n’è una particolarmente insistente. Deve essere veramente disperato poverino”.
Spiegò in tono triste, piegando le labbra in un sorriso storto. Harry si lasciò sfuggire una bassa risata, tornando dritto sulla poltrona. Luna scrollò le spalle, non lo trovava molto divertente in effetti, qualcuno era nel bel mezzo di una vera ossessione a quanto sembrava, non doveva essere affatto piacevole.
Tra i lati negativi della faccenda delle voci, come risulta evidente, c’era quello della partecipazione emotiva: se Luna era sempre stata una persona molto sensibile, ora tendeva a prendersi a cuore tutte le vicende dei pensieri che sentiva. Beh, non proprio tutte e non tutte seriamente, ma era stata capace di andare a cercare un bambino in mezzo al marasma di Diagon Alley per spiegargli che quando ci si perde, è bene aspettare fermi dove ci si trova che un genitore o chi per lui lo venisse a riprendere.
Harry sospettava che quella sera sarebbe finita così. La linea arcuata delle sopracciglia bionde della ragazza convergeva verso il basso, e le sue labbra erano arricciate nello sforzo di capirne di più. La curiosità giocava una parte quasi fondamentale insieme alla sensibilità, inutile negarlo.
Sospirò. Si sarebbe persa tutto lo spettacolo per preoccuparsi di quella voce.
Sospirò anche lei.
“Scusa se non sono di compagnia. Ma questo tipo è particolarmente problematico”.
“Immagino, poverino”.
Commentò sarcastico Harry, addolcendo poi l’espressione per farsi scusare. Luna non amava molto il sarcasmo: tutto ciò che è tagliente fa male, pensava giustamente. E stranamente tutto quello che Luna disapprovava, alla fine si rivelava pessimo sul serio.
“E cosa pensa?”
Chiese ormai rassegnato. Lo spettacolo se lo sarebbe fatto raccontare. Luna lo guardò felicemente meravigliata. “Ti interessa sul serio?”. Non aspettò risposta.
“Credo che abbia disobbedito a qualche ordine. Sto cercando di non perderlo per strada, perché mi interessa”.
Spiegò entusiasta. Harry inforcò meglio gli occhiali, mentre le luci si abbassavano progressivamente. Incrociò le braccia al petto.
“Beh, aggiornami se ci sono risvolti”.
Luna al suo fianco annuì più volte. Poi tornò a concentrarsi sul pensiero del disgraziato di turno.

+++

Lo spettacolo sembrava risultare interessante per l’omuncolo seduto accanto a Theodore. Con un muto sospiro di sollievo, poté quindi fingere di godersi lo spettacolo per la prima mezz’ora.
Trenta minuti più tardi, dopo un’intensa ora fitta di pensieri e preoccupazioni che si erano susseguiti a ritmo alternato nella sua testa, aveva principalmente più bisogno di una boccata d’aria che di recuperare quell’anello.
Quando le tende del sipario si chiusero finalmente sulla scena, poté alzarsi con una certa rapidità, giocando d’astuzia e anticipando i tempi dello sgradito compagno di serata. Smozzicò qualche informazione a mezza voce, qualcosa su dove stesse andando, poco precisa e sussurrata a sufficienza perché l’altro non potesse sentirla e raggiungerla.
Per il resto, il tragitto dalla sala interna del Teatro al primo corridoio esterno verso i bagni fu relativamente tranquillo e senza intoppi, escludendo un imbarazzante scontro con Blaise Zabini e signora (per l’occasione).
Giunto a quel punto, scostare la porta e chiudersi in uno dei vani interni fu la parte più facile del tutto.
Theodore si appoggiò al muro, chiudendo gli occhi. Dietro alle palpebre abbassate scorrevano veloci immagini ad incastro, azioni della giornata precedente confuse a quelle della giornata odierna, la tensione giocava brutti scherzi, a tratti credeva di non essere più in grado di operare una distinzione tra ieri e oggi. Buffo come in quel contesto apparisse evidente la monotonia dei ricchi rampolli di famiglia, dove il fascino e l’avventura che molti ci vedevano, era solo il fantasma di vecchi racconti di dame ed elfi di servizio. Leggende.
E in ogni caso, non riusciva a ricordare, dannazione.
“…avrò piacere di discutere con te Theodore…”
Quello era il padre di Millicent… il padre di Millicent bene, dove lo aveva visto?, fuori da una porta, una porta rossa, doveva essere la fine del primo tempo. Si era fermato a parlare con lui e poi… e poi aveva fumato, possibile? Possibile, anche se forse no, non ricordava di aver estratto l’accendino, lo aveva dimenticato, o era stata quella mattina che… maledizione, non riusciva a ricordarsi niente.
“Pensa, pensa a dove cazzo hai lasciato quel fottuto anello, Theo!”

Luna si lasciò sfuggire una mezza risata. Guardò Harry con espressione ilare, scrollando le spalle alla sua occhiata perplessa.
“Non riesce a ricordare”. Spiegò con il tono di chi sta dicendo un ovvietà. Harry annuì più volte, ma Luna era talmente assorta che neanche percepì l’odiato sarcasmo nel suo gesto.
A quel punto, Harry si arrese davvero.
“A ricordare cosa?”
“Dove ha messo l’anello”. Il tono era sconcertante.
Harry rimase in silenzio per qualche secondo.
“Naturalmente”.
La ragazza emise un lungo sospiro, scuotendo la testa. Imbronciò appena le labbra poi, slittando di poco sulla sedia. Era incredibilmente partecipe della situazione, e Harry non riusciva a concepire come potesse essere possibile che il pensiero di uno sconosciuto in merito a un problema banale come quello, arrivasse ad essere tanto coinvolgente.
“Vorrei poterlo sapere. Almeno glielo direi e smetterebbe di agitarsi così. Deve essere tremendo”.
“Già”.

+++

Alla nuova apertura del sipario, Theodore Nott non era tornato al suo posto, con il massimo disappunto dell’omuncolo fedelmente seduto sulla propria poltrona in attesa di poter infastidire ancora con le sue malefiche allusioni.
Qualche poltrona più giù, una donna sulla mezza età era fortemente combattuta tra il lasciar agire il buonsenso, e il picchiettare con un dito sulla testa bionda di chi le era seduto davanti, molto intenta ad agitarsi, a scuotere la testa, e passarsi le mani tra i capelli tra uno sbuffo e l’altro, e in continua discesa e salita sul proprio posto. Luna Lovegood era chiaramente inquieta. Il che era molto indicativo, tanto indicativo che persino Harry Potter aveva smesso di non ignorarlo.
All’ennesimo sbuffo contrariato della ragazza infatti, si sporse lentamente verso di lei, tanto da raggiungere la portata del suo udito con un sussurro.
“Luna, qualcuno dietro di te vorrebbe ucciderti”.
Luna lo guardò con aria truce, prima di alzare gli occhi al soffitto e sprofondare un altro po’ nella poltrona. Inavvertitamente calciò quella avanti a lei, creando un leggero scompenso nel distinto signore che vi era seduto.
“Sono molto affranta, ma quel poverino mi sta facendo dannare. Non ha ancora trovato l’anello”.
Bisbigliò concitata in risposta. Harry stralunò gli occhi. Aprì bocca per ribattere, ma qualsiasi cosa gli venisse in mente da dire o chiedere, risultava sempre troppo poco per poter competere con l’assurdità di quanto detto da Luna.
“Non sono affari tuoi” proseguì in un sussurro spezzato.
“E’ indeciso, crede che possa essergli caduto in corridoio, o che qualcuno lo abbia trovato e lasciato al reparto oggetti smarriti”. Proseguì lei ignorando deliberatamente il cinico commento di Harry.
“Ma, Luna, ascolta…”
Qualcuno nella fila dietro di loro iniziava a spazientirsi, i colpetti di tosse erano diventati più frequenti, tuttavia fu Luna a porre fine al disguido. Recuperò la propria borsa, e si alzò.
“Vuoi scusarmi Harry, vado a cercare in corridoio. Così gli risparmio un po’ di fatica”.
Spiegò serafica, procedendo velocemente verso l’uscita. Venne fulminata da diversi paia d’occhi ma come sempre, la noncuranza le rimase cucita addosso, e arrivò indenne alle porte laterali.

+++

Ovviamente il corridoio esterno del Teatro era vuoto, come ci si sarebbe aspettato durante il secondo tempo di uno spettacolo, eccezion fatta per quattro figure ben distinte, dislocate in angoli quasi opposti.
Mentre Blaise Zabini provvedeva a saggiare la consistenza della morbida pelle della sua dama, Theodore Nott e Luna Lovegood procedevano ognuno nella propria ricerca, che era curiosamente volta al ritrovamento dello stesso oggetto, chi per disperazione chi per un insano e inspiegabile interesse per i guai altrui.
Così mentre Theodore prendeva atto che nessuno aveva ritrovato il suo anello – o almeno nessuno lo aveva onestamente consegnato al servizio oggetti smarriti – Luna provvedeva a setacciare centimetro per centimetro la tappezzeria rossa che copriva il pavimento di marmo.
Iniziava a girarle leggermente la testa, era ormai un po’ che aveva cenato, e del resto era altrettanto tempo che se ne stava gobba con la nuca bassa verso il pavimento, sforzando gli occhi per trovare almeno il segno di un cerchietto rotondo.
Dal canto suo, gli stessi metri di quel corridoio erano percorsi dal bastone e dai piedi di Theodore, testa china e sguardo attento a recuperare quel che era suo.
Entrambi avevano davanti agli occhi e nella mente l’immagine di un piccolo anello, di modo che né il tappeto rosso per l’una, né la punta delle proprie scarpe per l’altro, avevano più una figura concreta, tanto che nessuno dei due si accorse di aver travolto l’altro, non fino a quando la ricerca carponi di Luna trovò un punto di sbarramento contro le gambe di Theodore, e lo stinco di Theodore si imbatté in effetti contro la testa bionda di Luna.
“Ohi”
“Oh mi scusi”
Borbottò nervosamente, ma sinceramente dispiaciuto.
“No scusi lei”
Replicò Luna massaggiandosi il punto leso, ma senza staccare gli occhi dal pavimento. La posizione era alquanto bizzarra, ma l’uomo non vi prestò troppa attenzione, l’anello era ancora il suo punto fisso.
“Stavo cercando…” le loro voci distratte si sovrapposero, coprendo le parole dell’altro con parole identiche “un anello” “un anello” giunse come in eco a Theodore, e altrettanto a Luna.
Solo allora entrambi sollevarono gli occhi.
Quelli di Luna si illuminarono all’istante di pari passo alla comparsa di un sorriso incredibilmente largo sulle sue labbra, in contrasto con lo sguardo bieco e sospettoso di Theodore.
“Ah ma allora è Lei!”
Esclamò la ragazza tirandosi in piedi e spolverando con due o tre manate i pantaloni. Nott alzò un sopracciglio, ancora più interdetto. “Prego?”
Luna gli tese la mano, che venne stretta da un Theodore stranamente impacciato. Lo metteva a disagio l’esuberanza di quella donna, che per altro era certo di aver conosciuto o se non altro già visto da qualche parte, e non nel suo letto.
“Lo smemorato!”
Asserì Luna annuendo da sola. Theodore si confuse ancora di più. Ritirò la propria mano dalla stretta, adagiando il braccio lungo il fianco.
“Io non..” venne interrotto senza troppe cerimonie dalla ragazza.
“L’anello, la stavo giusto aiutando”.
Theodore si fece improvvisamente serio, il cambiamento fu talmente brusco e inaspettato che Luna sobbalzò, senza allontanarsi da lui in ogni caso. Lesse in quegli occhi scuri l’ombra del sospetto e soprattutto un’ombra di spaventata diffidenza, che le diede la conferma di quanto valore potesse avere quell’oggetto per l’uomo davanti a lei.
Scrollò le spalle, abbozzando un mezzo sorriso, e cercando di rimettere a posto un ciuffo di capelli tentò anche di tranquillizzarlo e chiarire le sue intenzioni pacifiste. “Sa, ho un problema tutto mio con le voci. Voglio dire, sento i pensieri della gente, spesso e volentieri”.
Rimase in silenzio in attesa di una risata. Che non venne.
Spostò allora lo sguardo su Theodore, che la stava fissando con un cipiglio scuro e severo. Allora Luna fece un passo indietro.
“E… spesso e volentieri combino dei danni più o meno irreparabili per questo motivo, ma le assicuro che sono armata di buone intenzioni, sempre e stavolta non faccio eccezioni, quindi…”
“…Luna Lovegood?”
Domandò Nott senza scomporsi troppo. Il suo tono di voce era perfettamente calmo, quasi piatto se non per una vaga intonazione che chiedeva conferma. Luna annuì, alzando di nuovo le spalle, lo faceva sempre le rare volte che riusciva in chissà quale modo a sentirsi a disagio per qualcosa.
“Aha. Rimessa a lucido dalla guerra, con una nuova stramberia”.
Specificò ironica. Niente, le labbra di Theodore non si distesero neanche di un millimetro. Semplicemente annuì una sola volta, portando le mani nelle tasche dei pantaloni. Continuò ad annuire pensoso, fino a quando, recuperata la presa sul bastone, non si voltò dandole le spalle.
“D’accordo Luna Lovegood, è stato un piacere”.
Luna alzò un sopracciglio basita. Si morse un labbro incerta se richiamarlo indietro o meno, ma alla fine gli diede le spalle e tornò a tuffare la testa sul pavimento in cerca dell’anello, come se non fosse successo niente, accompagnando il tutto con un motivetto sussurrato a mezze labbra, appartenente allo spettacolo che teoricamente avrebbe dovuto vedere quella sera.
Solo allora Nott frenò i suoi passi, impuntò il bastone in terra e si voltò di nuovo. Assottigliò lo sguardo su quella figura minuta e rannicchiata sul pavimento. “Che… ma che diamine stai facendo?!”
Si lasciò sfuggire andandole incontro. Erano passati al “tu”, notò Luna sollevando la testa. Sollevò anche i palmi della mano verso l’alto, con aria ovvia.
“Cerco il tuo anello?”.
Theodore chiuse gli occhi, sull’orlo dell’esasperazione.
“Per Salazar Lovegood alzati, e smettila di fare la ridicola”.
La riprese spazientito. Luna obbedì, spolverandosi i pantaloni all’altezza delle ginocchia.
“No lì non c’è”.
Disse poi in tono piatto. Theodore sgranò gli occhi.
“Eh?”
Ebbe appena il tempo di dire, prima che lei con uno sbuffo aggiungesse “Nel bagno delle donne, dico. Ho controllato prima”.
Nott non rispose. Iniziava ad essere un fenomeno inquietante, rimanere solo nel corridoio di un Teatro con la sola compagnia di Luna Lunatica Lovegood mentre dava sfoggio di poter instaurare una amabile chiacchierata con neuroni e sinapsi di un cervello che non era il suo.
“Smettila di leggermi nella mente, ammesso che sia vero”.
Le intimò sollevando il bastone verso di lei. Luna scosse la testa imbronciando le labbra.
“Non dipende da me, sei tu che pensi troppo forte”.
“Io penso e basta, Lovegood, ma… ma che dici?”.
La ragazza represse a stento uno scoppio di ilarità: ora riconosceva i tratti di un uomo normale, era così del resto per lei, o faceva innervosire le persone, o le faceva ridere. Altrimenti c’era la terza opzione per la quale tre secondi dopo i suoi interlocutori scappavano a gambe levate, certo.
Prese un bel respiro e si avvicinò a lui, conscia di possibili ritorsioni da parte dell’uomo, che per altro aveva anche un’arma impropria per le mani.
“Avanti, cerchiamo ancora, prima lo trovi e prima mi libero di te”.
Lo sentì sbuffare ironico. E l’occhiata che gli lanciò non fu delle più amichevoli.
“Magari lo spettacolo mi interessava, tu che dici?”.
Nott alzò le mani in segno di resa, scuotendo ancora la testa, a questo punto più incredulo e rassegnato di poco prima.
“Dubito, è una noia mortale”.
Bofonchiò riprendendo a camminare. C’era qualcosa in quella ragazza che lo turbava decisamente, e non sapeva se era la sfacciataggine e la semplicità con cui si prendeva la libertà di attaccare discorso con lui, o il fatto di essere totalmente inerme nei suoi confronti. Poteva leggergli nella mente in qualsiasi momento, se solo avesse formulato un pensiero troppo forte, eppure sapeva per certo che non gli avrebbe recato alcun danno. Qualsiasi informazione fosse venuta fuori, lei avrebbe incassato il colpo con una scrollata di spalle e sarebbe tornata a fissare il pavimento in cerca di un anello che non era neanche il suo.
A conti fatto poteva persino smettere di difendersi, e ci pensò seriamente su per qualche secondo: aveva ucciso un uomo in quella guerra, per sbaglio, e ricordava ancora il colore dei suoi occhi e la luce opaca nell’attimo prima in cui si chiudessero, sbarrati, mentre focalizzavano come ultima immagine il volto di chi gli aveva tolto la vita, e Luna Lovegood non avrebbe detto una parola, ne era certo.
Inconsciamente iniziò a rilassarsi, almeno fino a quando non se la ritrovò gettata ai piedi, e perse l’equilibrio: qualcuno, e chi poteva essere del resto se non lei, aveva sollevato il bastone da terra, facendolo sbilanciare all’indietro, lasciandosi sfuggire un goffo urlo di sorpresa. Theodore cercò subito il muro con una mano, e trovandolo evitò di cadere, mentre Luna estraeva dal suo bastone qualcosa di tondo e brillante. Terribilmente e angosciosamente brillante.
Il suo anello.
“Eccolo!”
Concluse con un sorriso storto, voltandosi verso di lui e porgendoglielo. D’un tratto Nott non aveva più tanta voglia di prenderlo indietro, ma non poteva fare altrimenti, non aveva alcuna voglia né interesse a starle a spiegare come mai quell’anello tanto sottile e leggero gravasse così tanto per lui, quindi con un piccolo cenno del capo ringraziò e depositò l’anello nella tasca interna della giacca.
Di nuovo al sicuro.
“Ma non sei contento”.
“Si che lo sono”. Ribatté troppo velocemente lui. Non fece neanche in tempo ad approntare un sorriso fintamente gioioso. Luna alzò un sopracciglio, e poi scrollò per l’ennesima volta quelle spalle magre e ossute. Era esasperante.
“Se ti diverte così tanto mentire, d’accordo, sei proprio contento”.
Mormorò dandogli le spalle e riprendendo il corridoio verso la sala interna del Teatro Magico. Theodore si scostò dal muro chinandosi a raccogliere il proprio bastone, quando senza che se ne accorgesse, l’aveva richiamata indietro. La vide fermarsi, poi voltarsi, e guardarlo e allora capì che lo aveva chiesto sul serio e ad alta voce.
“Ti offro un drink”.
Tagliò corto cercando di capire perché si fosse messo in un guaio simile. Luna imbronciò le labbra per un istante.
“E’ prassi, non è vero?”
Chiese tornando sui propri passi e avvicinandosi di nuovo a un Theodore sempre più spazientito e disarmato. Era praticamente impossibile prevedere le mosse di quella ragazza, perché non aveva alcuna parvenza di logica, dannazione.
“Non ho sete”.
Spiegò così la natura della domanda. Theodore roteò gli occhi al soffitto: Merlino non le aveva offerto un bicchiere d’acqua, non c’era di certo bisogno di avere la gola secca per un prosecco.
“Non serve che tu abbia sete, avanti Lovegood, vieni qua, prendiamoci questo drink e facciamola finita”.
La riprese seccamente accostandosi alla zona bar. Luna lo seguì poco convinta.
“E allora che bevo a fare”.
Sussultò allo scatto brusco di Theodore, che si era voltato strusciando il bastone in terra. Lo guardò perplessa, senza identificare quale fosse il motivo di tanta irascibilità.
“Senti mi sto sdebitando, chiaro?”.
“Chiaro. Ma io non ti ho chiesto niente”.
Theodore scoppiò a ridere. Si esatto, a ridere, scuotendo la testa. E quella era la fase due, pensò Luna, altri cinque minuti e sarebbe scappato lasciandola lì, e a lei un po’ sarebbe dispiaciuto. In linea generale non le dispiaceva più da molto tempo, ma si stava affezionando ai modi impacciati e incartati di Theodore, era buffo. Buffo allo stesso modo in cui gli altri trovavano buffa e impacciata lei, ai loro occhi.
“Un prosecco”.
Bevvero ognuno il proprio prosecco in silenzio. Luna fissava ostinata un neo sull’orecchio del cameriere di servizio, domandandosi se il cameriere fosse consapevole di averlo e se Theodore avrebbe mai smesso di guardarla in quel modo così indiscreto.
“Ho un neo sull’orecchio?”
Gli chiese infine a bruciapelo, non resistendo. Theodore non rispose per lunghi secondi ma questo non fece sì che smettesse di guardarla. Forse cercava una logica alla sua domanda, ma quando concluse che non c’era e non ci sarebbe mai stata neanche in quella successiva, sospese le ricerche e rispose.
“No”.
“D’accordo allora posso andare, adesso?”.
“Sì. Grazie”.
“Figurati, ora torno a vedere lo spettacolo se non altro”.
Rispose placidamente con un sorriso velato. Sollevò una mano in sua direzione, e poi tornò veramente dentro la Sala, con chissà quale bislacca e insensata pretesa di capire qualcosa della trama.
Theodore si riscosse poco dopo, quando la porta si richiuse alle spalle della ragazza, e il cameriere fece tintinnare il vetro del bicchiere contro il bancone.

+++

“Ci risiamo”.

“Già, ci risiamo”.
Ripeté a mezza voce la ragazza in risposta ad una delle solite voci nella sua testa, passandosi una mano tra i capelli nel tentativo di farli rimanere indietro e non davanti al viso.
Controllò di nuovo dietro il portaombrelli sulla sinistra del corridoio, e sotto il risvolto dei piedi di una statua appoggiata al muro di destra, ma niente che gli assomigliasse si presentò ai suoi occhi.
Fece distrattamente qualche passo indietro, ripercorrendo il tragitto della sera prima.
“Figurati, ora torno a vedere lo spettacolo se non altro”.
Disse e poi si incamminò verso la porta della sala, tenendo lo sguardo fisso in terra. Ma niente, per la miseria.
Quando lo rialzò, lo vide penzolare davanti ai suoi occhi. Oscillava avanti e indietro, in un ritmico dondolio all’altezza del suo sguardo, rosso come se lo ricordava, di corallo, come era sempre stato. Era lui. Focalizzò lo sguardo oltre il suo fermaglio.
Theodore Nott era davanti a lei in effetti e lo faceva dondolare davanti alla sua faccia con un sorriso impudente dipinto sulle labbra.
Luna fece per dire qualcosa, ma non disse niente alla fine. Ci ripensò a metà strada, per lo stupore.
“Ci rivediamo anche stasera, Lovegood”.
Chiuse la bocca e annuì con una – ormai prevedibile – alzata di spalle.
“Se quello sei tu, e questa sono io, direi di sì. E se questo è il mio fermaglio ti dico anche grazie e arrivederci di nuovo”.
Soggiunse allungando una mano per prenderlo.
Theodore le consentì di stringere il pugno intorno all’oggetto ma non mollò la presa.
“Non mi offri un prosecco?”
“Hai sete?”
Chiese lei continuando a tenere il fermaglio nel pugno. Theodore alzò le spalle.
“No, ma devi offrirmelo lo stesso”.

“Un prosecco”.
Domandò gentilmente Luna al cameriere della sera prima. Questi non aveva dato segno di riconoscerli e le presentò il calice dopo pochi secondi. Luna lo passò a Theodore facendolo scivolare sul piano di marmo.
Rimasero in silenzio per un po’, l’uno a bere il prosecco, l’altra a fissare i movimenti del cameriere con il neo sull’orecchio.
“Il cameriere ha un neo sull’orecchio”.
Disse poi Theodore, in tono piatto. Luna si voltò a guardarlo, piano.
“Lo so. Lo stavo guardando già ieri sera”.
Theodore annuì poggiando il calice.
“Lo guardavi mentre ti sfilavo il fermaglio infatti”.
Ricevette in cambio uno sguardo stupito di Luna, che aveva portato la mano tra i capelli in un gesto inconsulto. La riabbassò sorridendo, e sentendosi un po’ sciocca. Non lunatica, ma semplicemente e normalmente sciocca.
“Ti piaceva? Tu hai pochi capelli per un fermaglio”.
Theodore piegò le labbra in un sorriso.
“Beh-”
Ma Luna aveva allargato gli occhi, appena un po’, ed era arrossita leggermente, e Theodore aveva detto solo “Beh” ancora… e pensato a tanto altro in effetti.
“Grazie, non capita mai che qualcuno abbia voglia di rivedermi”.
Theodore non rispose, scrollò soltanto le spalle. Era fregato con quella ragazza. Quella era una partita persa, ma gli piaceva perdere tutte le volte, dopotutto, era un modo facile ed indolore di non annoiarsi ad averla sempre vinta.
“Un prosecco anche per me”.
Ordinò la ragazza con lo stesso tono sommesso ed evanescente. Theodore assottigliò le labbra in un sorriso vago.
“Che ti rubo stasera?”
Gli chiese la ragazza portando alle labbra il calice. Aveva persino scoperto che non era niente male, quel, com’era?, prosecco.
“Per rivederti domani”.
Spiegò annuendo. Theodore allargò il sorriso lentamente. Abbassò lo sguardo su di sé, imbronciando le labbra.
“Non su, un gemello della camicia?”
Propose stendendo un braccio. Luna prese un altro sorso.
“Un gemello andrà benissimo”.
Disse sorridendo, mentre Theodore scuoteva di nuovo la testa, e rideva ancora.
E ancora, e ancora.

Fine.



Richieste da rispettare:
- Non abuso di fluff - Non abuso di Angst - Un teatro magico, Theodore/Luna, la ricerca di qualcosa che si è perduto.

  
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