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Autore: Yoko Hogawa    14/09/2012    11 recensioni
John, quante volte mi hai già visto morire?
Genere: Angst, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note: secondo capitolo. Diviso in due perché sono una persona molto sintetica (nemmenoperidea).

Probabilmente intorno al terzo capitolo comincerà la parte sci-fic della faccenda, anche se qualcosa ci sarà anche nella seconda parte di “Diary”... occhio ai dettagli ;D

Il caro nome del dottor Kolstoj è in prestito da Shichan, che ringrazio.

Come al solito, le cose importanti sono a fondo pagina.

E sempre come al solito, auguro buona lettura

______________________________________________________________________________________________________

Diary /1

 

 

 

 

Non era abituato, a quelle cose. A quelle visite.

Di amici ne aveva persi tanti, nel tempo, in guerra soprattutto, ma là quelle cose non era necessario farle. Là non era possibile farle. Visitare tombe.

Là non c’erano tombe.

C’era sabbia. E roccia. E montagne. E dune. Nessuna tomba. Qualche croce, forse, all’inizio, ma che senso aveva? Alla prima tempesta sarebbe stata sepolta, o trasportata via. Alla fine, insieme a tutte le altre cose che ti rendono una persona civile ma che in guerra non hanno più senso (perché ti rendono anche debole), anche le usanze funebri perdevano di significato. I morti non si meritavano più niente – non ce n’era il tempo.

Di solito si raccoglievano i pezzi, comunque. Li si metteva in un sacco e li si portava a Kabul sperando che non si decomponessero nel frattempo a causa del caldo. Al campo base qualche anima pia metteva i resti del soldato dentro ad una bara, ci stendeva una Union Jack sopra, la caricava su di un aereo e la portavano in Inghilterra. Altri nemmeno li trovavano più. I pezzi erano talmente piccoli che raccoglierli significava dover usare le pinzette cavaciglia. Si preferiva mandare a casa una bandiera piegata ed una lettera di condoglianze firmata dal generale di turno (o dal suo galoppino).

In guerra nemmeno si piangevano, i morti. Morivano amici che erano diventati tali solo per cameratismo. Amici di cui si conosceva solo il cognome. Amici che si sapeva essere sinceri, perché dovevano esserlo per forza, per stare in pace con se stessi: a nessuno piace morire da solo, e quando si sentono in lontananza colpi di mortaio 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, la paura di morire ti dorme accanto in branda. Anzi, probabilmente dorme bene solo lei.

Tutto sommato, John preferiva la guerra.

In guerra non avrebbe dovuto pensare a chi aveva perso. Non avrebbe avuto il tempo di farsi venire in mente Sherlock Holmes ad ogni piè sospinto, ad ogni alito di vento, in ogni minuto di silenzio.

In guerra avrebbe combattuto e basta.

Ma John non era più in guerra da molto tempo, ormai – non lo avevano più voluto. John era a Londra, in piedi davanti al suo armadio, in pigiama, a decidere quali vestiti indossare. Una semplice visita ad una tomba lo stava seriamente mettendo in difficoltà. Disinnescare una mina sarebbe stato più facile.

John odiava i cimiteri, in realtà. Era una cosa che gli aveva passato Harry.

L’ultima volta che ci era stato, era andato a trovare suo padre il pomeriggio prima di prendere l’autobus per Londra. Non era mai stato davanti alla sua tomba se non per il suo funerale e non se ne pentiva. Harriet diceva sempre che i cimiteri sono per i morti, non per i vivi; lui aveva deciso che era l’unico discorso sensato che le avrebbe mai sentito dire e aveva concordato con lei, per una volta.

Ma era... Sherlock. La tomba di Sherlock. Un pezzo di marmo nero con sopra un nome che doveva rappresentare tutto ciò che di Sherlock, fisicamente, era rimasto. Era un simbolo, una convenzione sociale per dare l’idea di poter parlare con la persona sepolta sotto di esso.

John pensava che fosse Dio, la convenzione sociale, non le tombe. Le tombe non erano mausolei, o totem.

Erano segnaposti.

Qui è stato sepolto Sherlock Holmes. Fra cent’anni dovrà essere riesumato, la bara aperta, le ossa raccolte e depositate nell’ossario del cimitero. Probabilmente scadrà anche l’affitto del lotto di terreno. Se non avete altri parenti da seppellire, verrà affittato al nuovo inquilino – c’è sempre domanda. Con i migliori saluti: la Direzione.

Sospirò, riservandosi di prendere un paio di vestiti qualsiasi: jeans blu, camicia beije a scozzese, maglioncino nero sbottonato sul davanti. Giugno non aveva aiutato la temperatura a salite oltre i venti gradi, dunque si sarebbe messo il suo solito giubbotto nero, in tinta con le scarpe. Dopotutto andava al cimitero, no? Il nero è meglio.

Non pensò a niente per tutto il resto del tempo, rifiutandosi di formulare qualsiasi pensiero che contemplasse l’immagine di Sherlock steso dentro una bara a sei piedi sottoterra sotto una lapide-segnaposto.

 

 

 

Chiamò il taxi – se lo permise, quel giorno – e lo fece passare per Baker Street, dove mrs. Hudson si unì a lui.

Lei aveva in mano un mazzo di fiori. John non era tipo da fiori – non era sicuro di essere tipo da qualsiasi cosa.

Non parlarono per tutto il tragitto, facendo in silenzio anche la breve passeggiata che li separava dalla tomba di Sherlock Holmes.

Vederla comparire, per la prima volta dopo la sepoltura, non lo rendeva meno reale. Non lo rendeva neanche meno pietoso. Solo più doloroso.

Ingoiò un groppo fastidioso di lacrime, ordinando a se stesso di non fare il bambino frignone. Era un adulto, un soldato: si sarebbe comportato come tale. Era solo un altro cadavere, solo un’altra morte. Devi convincertene, John.

Era davvero comodo mentire a se stesso in quel modo.

Rimase in piedi con le mani in tasca mentre mrs. Hudson riempiva d’acqua il vaso vuoto e vi metteva i fiori, sistemandoli bene. John rimase a guardarla col pensiero che, finché ci sarebbe stata lei, probabilmente su quella tomba i fiori non sarebbero mai mancati.

Lui, in realtà, non era più sicuro di avere il coraggio di tornarci spesso, in quel cimitero.

La donna si alzò, spolverandosi la gonna del vestito nero, e si mise in piedi accanto a lui. Per rispetto, John si tolse le mani dalle tasche.

« Ci sono tutte le sue cose » cominciò mrs. Hudson dopo un istante di silenzio: « le attrezzature scientifiche. Ho lasciato tutto negli scatoloni, non so cosa se ne debba fare. Pensavo di donarle ad una scuola » continuò a parlare, prima di voltarsi appena in sua direzione: « potresti... » tentò.

« Non posso ritornare nell’appartamento » rispose subito John, il groppo fastidioso risalito di nuovo verso la gola: « non adesso » aggiunse.

Sarebbe crollato, e lo sapeva. Fin troppo bene. Se ne rendeva conto in quel posto, nonostante non avesse mai avuto significato, per lui. Non uno vero, uno comprensibile.

Ma Sherlock... Sherlock non era come gli altri. Sherlock non era un corpo recuperato dalla sabbia e mandato in Inghilterra e seppellito chissà dove. Sherlock lui lo aveva visto buttarsi, lo aveva visto sparire su di una barella, aveva sentito la sua voce, le sue ultime parole, e quelle parole erano state per lui. Sherlock non se ne era andato implorando Dio di salvarlo, dilaniato da una raffica di proiettili. Se ne era andato buttandosi da un dannato tetto.

Lui non era in Afghanistan ed affrontare la morte a Londra aveva tutto un altro senso.

Strinse gli occhi, sentendoli pungere. Respirò più profondamente e riuscì ad impedirsi di piangere.

Non voleva lasciarlo andare ma non poteva fare altro. Lui non aveva scelta.

Con Sherlock non ne aveva mai avuta una.

« Sono arrabbiato » soffiò allora, dopo qualche istante di silenzio.

« Va tutto bene, John » gli disse la donna, stringendogli affettuosamente il braccio: « non è affatto strano. Ha fatto sentire tutti così. Tutti quei segni sul mio tavolo, e tutta quella confusione... Lo sparare all’una e mezzo del mattino... ».

« Già » annuì distrattamente John, sguardo fisso sul marmo nero e sulle lettere dorate.

« I campioni insanguinati nel frigorifero... » continuò Martha: « Riesci ad immaginare, tenere insieme cadaveri e cibo! ».

« Sì... » annuì ancora John.

« E i litigi. Era così irritante con quel suo comportamento da irresponsabile! » esclamò di nuovo, palesemente agitata.

John dovette fermarla, prima che gli stritolasse il muscolo dell’avambraccio: « ascolti, in realtà non sono così arrabbiato, ok? » tentò di mediare, mettendo la mano sulla sua nel tentativo di calmarla.

Lei annuì. « Ok » disse: « Ok. Ti lascio da solo per... sai... » cominciò, ma non finì mai la frase – quale fosse la sua conclusione era abbastanza palese.

Quando si trovò solo davanti alla tomba, John non seppe né cosa fare, né cosa dire.

Oh, in realtà aveva molte cose, da dire. Tutte quelle che Ella, nel suo goffo tentativo di farlo sentire meglio, gli aveva fatto venire in mente con violenza – e non si era sentito affatto meglio. Per niente.

Deglutì, cercando di togliersi di dosso la voglia di urlare, ma non ebbe buoni risultati.

Allora si voltò, osservando mrs. Hudson sparire lungo il sentiero.

Si voltò di nuovo e, finalmente conscio di non potere semplicemente andarsene e basta, si schiarì la voce. Prese una decisione.

« Ok » cominciò: « ok. Tu... una volta, mi hai detto che non eri un eroe » esordì.

Alzò gli occhi oltre la lapide, osservando uno squarcio qualsiasi di prato, ma riprese a parlare prima di perdere il momento. Era tragicamente consapevole che se si fosse bloccato, o se fosse rimasto in silenzio troppo a lungo, probabilmente non avrebbe finito il discorso.

Riprese a fatica. « Ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che non fossi nemmeno umano, ma ti dico una cosa... eri l’uomo migliore... ».

Una pausa.

« L’essere umano... » riprese a fatica, umettandosi le labbra, sforzandosi di non fare uscire la voce troppo tremolante; inutilmente.

« ...più umano che io abbia mai conosciuto. E nessuno mi convincerà mai che tu mi abbia mentito. Ecco... » dovette concedersi una nuova pausa, un nuovo tentativo per non crollare. « L’ho detto » aggiunse poi, prendendo una grande sorsata d’aria e abbassando lo sguardo all’erba sotto ai suoi piedi – alla terra sotto l’erba, alla bara sotto la terra, al corpo dentro la bara.

Furono incerti i passi che lo portarono accanto alla lapide, scatti nervosi della mano, indecisi se fare o meno ciò che stava facendo senza trovare dentro di sé la giusta convinzione, o anche la sicurezza dell’esperienza. Non ne aveva.

Non sapeva se quel tocco sul marmo freddo con tre dita della mano sinistra poteva essere scambiato per un saluto sufficiente, o sufficientemente sentito.

Un saluto, lo era, anche se no, sentito non lo era per nulla.

Le parole che gli uscirono poi, così vicino, così prossimo a quel nome e a quel freddo, non erano più circostanza. Non erano sforzo. Non erano lisce, pulite, spurie dalle lacrime, o dalla minaccia che scendessero.

La voce gli tremò. Lui se ne fregò.

« Ero così solo... e ti devo così tanto... » soffiò, facendosi forza e ricacciando indietro la disperazione ancora una volta. Annuì piano alla tomba, gli occhi lucidi che non volevano cedere al pianto, e fece per andarsene.

Qualche passo, e semplicemente le parole uscirono da sole.

« Ti prego, c’è ancora una cosa, un’ultima cosa » ricominciò, la voce ora forte, rabbiosa, implorante: « un ultimo miracolo, Sherlock, per me » domandò.

« Non essere... » silenzio, un’altra ondata di dolore: « ...morto. Potresti farlo, per me? » domandò, completamente illogico, totalmente fuori da ogni accettazione. « Smettila » continuò, testardo: « smettila ».1

Un miracolo che rimase inascoltato, e lo sapeva. Un miracolo impossibile. Un miracolo che avrebbe significato impazzire, o morire a sua volta.

Non era pronto. Non era pronto.

Non era semplicemente, fottutamente pronto.

Non era pronto per dirgli addio. Sherlock era... il suo tutto. Sherlock era l’unica cosa bella che il mondo gli aveva dato per scusarsi della merda che aveva dovuto vedere in Afghanistan. Sherlock era l’unica persona che si era presa cura di lui senza saperlo e di cui lui aveva voluto prendersi cura senza dirglielo.

L’amico migliore, il compagno migliore, il collega migliore. La persona più eccentrica ed infantile. L’uomo più strano e particolare. Ma lui aveva sempre visto una sincerità, in quegli occhi azzurri, nascosta sotto galassie e numeri e formule chimiche e criminodinamiche, che andava oltre l’umano, oltre tutto ciò che lui, John Watson, aveva potuto capire in tutta la sua vita.

L’uomo migliore.

Non gli aveva mentito, no. Mai. Non era un impostore, un bugiardo, uno scherzo di natura, un freak.

Era Sherlock Holmes. Solo Sherlock Holmes. Devi stare attento ai dettagli, per conoscere Sherlock Holmes, e se lui te lo lascia fare, sarai l’uomo più fortunato del mondo.

Non poteva essere morto. Non poteva e basta. Ma era morto, davvero, era la realtà dei fatti, e lui si sentiva così arrabbiato, così tradito, che non poteva fare a meno di chiedersi in cosa avesse sbagliato, cosa non avesse visto, notato, osservato, capito.

Quale dettaglio non avesse colto. E, se l’avesse notato, sarebbe riuscito a fermarlo?

Non ce la fece più. Con le spalle curve e la testa bassa si portò la mano agli occhi, lasciandosi andare ad un singhiozzo.

Si bagnò la punta delle dita con le lacrime, salate, lasciandole scivolare per la prima volta da giorni.

Non sarebbe più tornato in quel posto, no. Non poteva. Non ce la faceva.

Raddrizzò le spalle ed il busto, respirando profondamente e calmandosi. Una posa militare. Non un saluto.

Non un saluto, no. Non gli avrebbe detto addio. Non ora.

Non ancora.

Non poteva.

 

 

 

Non rientrò nel suo appartamento prima dell’una di notte.

La lista della spesa pendeva dalla calamita a forma di pesce che la teneva ferma sulla facciata del frigorifero, giusto accanto al post-it che diceva, nella sua calligrafia, di chiamare lo studio notarile Harderbrook & Whale di Crowborough. Ci mise un poco per capire cosa lui stesso si fosse appuntato, ma alla fine ci riuscì.

Troppo scotch. Ci aveva affogato i pensieri già dalle sei del pomeriggio, quando aveva capito che girare senza meta per Londra con la voglia di fare niente – vivere era stata un’opzione discutibile per parecchie ore – non aveva molto senso. Non ricordava quanti giri aveva fatto, sapeva solo che aveva speso in alcool più di ciò che poteva permettersi.

Colto da un senso di rifiuto per se stesso – che in mattinata si sarebbe molto probabilmente trasformato in senso di colpa – prese una matita e cercò di appuntare qualcos’altro sul post-it giallo, qualcosa come “cercare nuovo lavoro”, ma non vi riuscì né al primo, né al secondo, né al terzo tentativo.

Aveva troppo alcool nel sangue, troppo alcool nel cervello, troppo alcool nello stomaco. Non aveva pranzato, o cenato e, ora che ci pensava, non aveva nemmeno fatto colazione. Bere a stomaco vuoto è la prima cosa che al liceo ti dicono di non fare mai.

Si era sbagliato: il senso di colpa arrivò subito e lo investì come un autotreno.

Lui era un medico. Lui era un ex-soldato della Corona. Lui era quello che aveva dovuto badare per tutta l’adolescenza ad una sorella troppo incline alla sbronza del sabato sera e, successivamente, alcolizzata del tutto. Era l’ultima persona sulla faccia della Terra che avrebbe dovuto fare una cosa del genere.

Sospirò, distrutto, portandosi le mani agli occhi e poi nei capelli.

Aveva un vuoto che andava dalle otto alle dieci di sera. Due ore.

Due ore in cui, a giudicare dalle sterline spese, doveva aver bevuto minimo una dozzina di bicchieri di scotch e ghiaccio. Non si ricordava quando era passato allo scotch liscio, il che significava che era stato da qualche parte durante quelle due fatidiche ore.

Male.

Fortunatamente aveva smesso qualche ora prima di andarsene. No, correzione: il barista si era rifiutato di servirgli altro alcool e gli aveva ritirato le chiavi di casa per farlo restare lì finché non fosse tornato in sé.

Male. Molto male.

Non si ricordava come fosse tornato a casa. Ma era uscito dal locale a mezzanotte e... a piedi. In uno sprazzo di ricordo vide il portone di Baker Street. Le chiavi che non entravano nella toppa. L’improvviso ricordarsi che non abitava più lì. Ricordò la propria voce lontana chiamare “Sherlock” rivolto verso la finestra del salotto, buia.

Questo era anche peggio.

« Cristo... » sussurrò, strofinandosi gli occhi. Persino la sua sbronza lo sfotteva. Sperava vivamente che mrs. Hudson non fosse stata in casa, quella sera, oppure che non lo avesse sentito, perché non avrebbe avuto più il coraggio di guardarla in faccia. Faticava già a guardare se stesso allo specchio.

Aveva sonno ma non poteva mettersi a dormire così, con i fiumi di scotch che sicuramente aveva ancora dentro di sé. Se si fosse steso, a metà della notte sarebbe stato male. Conosceva se stesso abbastanza per saperlo. Una delle prime volte a Kabul, durante le festività natalizie, era successo esattamente quello e aveva passato Santo Stefano montando la guardia e sperando di non vomitare sugli anfibi del General Maggiore in visita all’accampamento.

Rimedi della nonna, dunque.

Primo fra tutti: cibo. Cibo grasso. Roba fritta, pane, dolci. Ma al solo pensiero gli si rivoltava lo stomaco come un calzino, dunque meglio di no.

Secondo: acqua. Doveva aiutare il proprio fegato a smaltire quella quantità assurda di etanolo. Sì, lo avrebbe fatto dopo.

Terzo: acqua calda e limone. “O va giù o viene fuori” diceva sempre Harriett quando doveva ricorrere a quello stratagemma. Meglio di niente.

Nel suo caso venne fuori. Quando uscì dal bagno, dopo avere avuto anche l’accortezza di farsi una doccia ed infilarsi il pigiama, erano ormai le tre di notte.

Il suo stomaco era quanto più vicino ad un residuato bellico esistesse e gli si chiudevano gli occhi dalla stanchezza persino mentre camminava. Decise di dormire, sperando con tutto se stesso di svegliarsi a casa sua, al 221B, arrabbiato a causa del suono di un violino che non gli aveva permesso di dormire bene, che gli aveva procurato brutti sogni.

Sapeva che non era possibile. Ma tutti dicono che la speranza è l’ultima a morire.

E quando muore anche quella, rimane sempre l’illusione.

 

 

 

Si svegliò a causa di rumori inequivocabili.

Lo stridio delle gambe del letto che strisciano sulle piastrelle, il rumore sordo di una testiera che sbatte ritmicamente contro un muro, un cigolio di molle e di rete metallica. Ansiti, gemiti, grugniti, qualche “oh, Jeff, sì, sì!” e molti “Oh mio Dio, Kate!” urlati come se nel condominio ci fossero solo loro.

John fissò il soffitto senza muovere un muscolo, steso supino sul letto. A quanto pareva, l’inquilina del piano di sopra aveva compagnia. Gli sembrava di ricordare che il marito si chiamasse Albert, non Jeff, ma quelli non erano affari suoi, dopotutto.

Sbuffò, portandosi le mani agli occhi e strofinandoseli. Non sarebbe riuscito a riaddormentarsi grazie alle olimpiadi del Kamasutra al piano di sopra e, comunque, le nove del mattino erano un orario decente per alzarsi dal letto e tentare di sopravvivere per altre diciotto ore.

Chiuse una buona parte dei rumori fuori dal bagno, svuotando la vescica, lavandosi i denti e sbarbandosi con calma. Decise di non vestirsi ma si prese comunque il suo tempo. Quando uscì, probabilmente Jeff aveva finalmente finito le cartucce per il fucile a pompa e tutto taceva.

Meglio.

Si diresse nel cucinino a piedi scalzi, mettendo in atto i soliti movimenti atti alla preparazione del tè. Erano cose a cui non doveva nemmeno più pensare, dato che venivano in automatico: teiera, acqua, fuoco, aspettare, bustina, aspettare l’infusione, versare nella tazza (nuova, bianca a quadrati rossi), aggiungere mezzo cucchiaino di zucchero e una generosa spruzzata di limone.

Per lo meno aveva smesso di tirare giù dalla credenza due tazze. Era un passo avanti.

Sorseggiando la sua colazione, si sedette al tavolo della cucina e si allungò verso un giornale che non c’era. Si fermò con il braccio teso e la mano a mezz’aria, trattenendo il respiro in una smorfia prima di sospirare amareggiato. Era Sherlock che portava i quotidiani a casa. Era Sherlock, John, maledizione!

Un passo avanti e due indietro.

Lasciò ricadere la mano sul tavolo con un tonfo, le labbra serrate e il respiro mantenuto appositamente tranquillo da una buona volontà ed un autocontrollo emotivo che sentiva essere sempre più labili. Si chiese cosa ne sarebbe stato di lui, il giorno in cui avrebbe perso completamente ragione di se stesso, ma evitò di cercare la risposta.

In cambio, piazzò gli occhi sul frigorifero dall’altra parte del piccolo cucinino. Il post-it giallo della sera precedente era ancora lì, accanto alla lista della spesa, con sopra le due note – la seconda in calligrafia molto traballante – scritte appena il giorno prima.

Beh, una cosa alla volta. Un passo per volta. Roma non era stata costruita in due giorni, no? Doveva solo rialzarsi in piedi. Ritrovare di nuovo la forza di cancellare una parte della propria vita ed iniziarne una nuova. Poteva sempre cominciare dalle piccole cose.

Posò la tazza e prese cellulare e pacchetto postale, lasciati entrambi sul tavolo della cucina. Trovò il numero telefonico dello studio notarile nell’intestazione della lettera e, componendolo lentamente, chiamò.

Non ci volle molto perché una voce femminile rispose alla chiamata: « studio notarile Harderbrook & Whale ».

« Ah, salve, il mio nome è John Watson » si presentò, schiarendosi la voce: « l’altro giorno mi è arrivato un pacco a nome del vostro studio e avrei bisogno di delucidazioni in proposito » disse.

« Ha un nome in particolare come riferimento? » domandò quella che doveva essere per forza la segretaria.

Le sopracciglia di John scattarono in alto. « In che senso, scusi? » domandò.

« Il notaio che ha firmato l’atto, di qualsiasi cosa si tratti » spiegò subito la ragazza, gentilmente: « se ha un nome posso passare direttamente a lui la telefonata, così le saprà fornire con precisione qualsiasi cosa di cui ha bisogno ».

« Ah, capisco. Aspetti solo un secondo » disse John, tenendo stretto il cellulare con la spalla mentre toglieva dalla busta e spiegava di nuovo la lettera, facendo attenzione a non strappare la carta già abbastanza ingiallita e dall’aria fragile. « Eccolo: Thomas T. Harderbrook » lesse la firma sotto la dicitura “il notaio garante”, sulla sinistra dello scritto.

Dall’altra parte della cornetta provenne solo silenzio.

« Signorina? » chiamò allora John.

« Sì, mi scusi. È che... è impossibile » gli rispose lei: « Il signor Thomas Harderbrook è uno dei fondatori dello studio ma è morto durante la seconda guerra mondiale... » gli disse, e si poteva sentire dal tono di voce che non aveva la minima idea di cosa dire.

Bella fregatura. E adesso come glielo spiegava?

« Beh, è possibile, dato che la lettera che tengo in mano è datata 1930... è per questo che ho telefonato, in realtà » cominciò con l’intenzione di continuare, ma venne interrotto dalla stessa segretaria.

« Oh mio Dio! » esclamò.

John sobbalzò senza volerlo. « Scusi? ».

« Lei è il destinatario del testamento Doyle, dico bene? » chiese quella, la voce improvvisamente ad un livello pericoloso d’eccitazione.

« A-A quanto pare... » lasciò cadere John.

« Le passo il signor Whale allora, signor Watson. È l’attuale direttore dello studio, si è occupato lui del suo caso. Attenda il linea! » esclamò.

Dovette attendere circa un minuto, passato ad ascoltare una di quelle irritanti musichette d’attesa. Aveva appena preso un’altra sorsata del suo tè ormai tiepido quando una voce maschile e giovane interruppe la melodia: « Nathan Whale. In che cosa posso esserle utile, dottor Watson? » domandò presentandosi.

« Buongiorno » salutò John: « volevo solo chiedere qualche informazione riguardo al pacco che ho ricevuto, inviato dal vostro studio notarile » cominciò.

« La ascolto » disse Whale dall’altra parte del telefono.

John spiegò la lettera sul tavolo e la scorse con gli occhi, mentre parlava: « ho letto la lettera che accompagnava il contenuto del pacco e ho più o meno capito di cosa si tratta, ma mi chiedevo se non ci fosse stato un qualche tipo di errore di invio. Nel destinatario, intendo » specificò.

« Che tipo di errore? » chiese il suo interlocutore in modo condiscendente, suonando fin troppo calmo per i gusti di John, che invece aveva ancora un fondo di irrequietudine.

« Mi riferisco alla data, nello specifico » rispose John, sperando che il sedicente notaio Nathan Whale potesse arrivarci da solo.

Passò un istante, prima che John ricevesse la risposta, e chissà perché immaginò che il ragazzo stesse sorridendo: « non c’è nessun errore, dottor Watson. Il testamento Doyle è una sottospecie di leggenda nel nostro studio a causa della sua longevità; risale all’epoca di mio nonno e del suo socio. Le assicuro che il signor Arthur Conan Doyle è deceduto il 7 luglio del 1930 ed il testamento letto il 12 luglio del medesimo anno, lo stesso giorno in cui è stato controfirmato dal figlio Adrian l’atto notarile che accompagna il pacchetto che le è stato recapitato. Il signor Doyle diede precise istruzioni, nelle sue ultime volontà, di conservare e non aprire mai l’oggetto fino al 16 giugno 2011, data in cui sarebbe dovuto essere recapitato al dottor John Hamish Watson. Ovvero lei » disse, facendo una breve pausa prima di riprendere: « ovviamente abbiamo controllato, prima di inviarglielo. Lei esiste ed è reperibile, dunque noi abbiamo ottemperato a ciò per cui siamo stati pagati » concluse, la voce calma e quantomeno suadente, probabilmente abituato a parlare con professionalità ad ogni suo cliente.

John era sempre più confuso, ma non lo diede a sentire: « non metto in dubbio la vostra professionalità, ma non è semplicemente possibile, mi creda ».

« Per quale motivo? » chiese subito l’altro.

« La data! » ribatté subito Watson, ripetendosi: « lei continua a dirmi che questo signor Doyle ha fatto il mio nome nella stesura del proprio testamento, ma io non ero ancora nato nel 1930! » esclamò, ora preda di una sorta di rabbia agitata.

Un momento di silenzio intercorse fra loro, prima che Whale riprendesse la parola: « tuttavia, le informazioni fornite su di lei sono corrette, dico bene?  » domandò – John sentì uno sfrigolio di fogli dalla cornetta prima che l’altro continuasse il discorso: « lei è il dottor John Hamish Watson, laureato alla London University, ha fatto il tirocinio formativo al St. Bartholomew Hospital di Londra, si è arruolato nel Quinto Fucilieri di Northumberland e ha combattuto in Afghanistan con il grado di Capitano, dico bene? » chiese conferma.

« Sì, è giusto, ma... »

Venne interrotto. « Allora le informazioni in nostro possesso non sono errate ».

« Ma sono impossibili! » insistette John: « nel 1930 non era nato nemmeno mio padre! E io sono del ’77! ».2

Un sospiro riempì la cornetta, al quale John capì di non avere speranza di convincere quel giovane notaio.

« Senta... » cominciò Nathan: « sono convinto anche io che la situazione sia strana, ma il nostro compito era consegnarle quel pacco. Punto. Lei esiste ed è tutto come ci è stato lasciato scritto, dunque il nostro lavoro è concluso » disse risoluto, facendola risuonare davvero come l’ultima cosa che avrebbe detto.

In tutto ciò, John non ci aveva guadagnato nulla se non l’essere ancora più disperso ed emotivamente instabile di prima. Perché non era solo il lutto a scombinargli la giornata, ma adesso anche l’inquietudine tangibile di un uomo, supponiamo profeta o chissà cosa, che nel 1930 decide di inviargli un pacco e sa già tutto di lui ancora prima che sia nato.

Sospirò a sua volta, scuotendo il capo. « Va bene... va bene. Mi scusi se le ho fatto perdere tempo » si congedò, chiudendo la chiamata solo dopo i saluti dell’altro.

Appoggiò il cellulare sul tavolo, massaggiandosi con pollice e indice della mano sinistra l’attaccatura del naso. Riaprì gli occhi solo dopo che il mal di testa fu diminuito, puntandoli subito sulla scatola lucida che due notti prima aveva richiuso ed abbandonato sul tavolo.

La riprese fra le mani in un movimento lento, aprendone il coperchio ed estraendo i due oggetti che conteneva.

Si focalizzò prima sull’orologio da taschino, che aprì attraverso il bottone sulla sua sommità, posizionato sotto l’anella da cui partiva la catena. Il quadrante era di un bianco sporco, probabilmente ingiallito dal tempo, ed il vetro aveva qualche graffio al centro. Le lancette nere erano sottili ed avevano una rifinitura finissima sulla punta.  Nessuna incisione né all’interno del coperchio né sulla grancassa. I numeri erano romani. Ma le cose più strane erano l’assenza di una marca sul quadrante e una levetta sul fianco, sotto alla chiave di carica, ferma a metà fra due estremi contrassegnati dalle lettere minuscole “d” e “m”.

Ovviamente non funzionava, ma John suppose che, essendoci una chiave di carica, andasse caricato.

Provò a caricarlo ma niente, non funzionò. L’orologio rimase immobile.

Probabilmente era un cimelio, un oggetto di valore affettivo. La domanda “perché darlo a me” si formò velocemente ed immediatamente nella sua mente ma, come per tutto il resto, non sapeva darle risposta.

Richiuse e posò l’orologio da taschino, prendendo invece in mano il taccuino di pelle. Aveva le dimensioni di un’agenda moderna e, aprendolo, John scoprì che era tutt’altro.

Era un diario.

Riconobbe la scrittura fine ed ordinata del biglietto che accompagnava gli oggetti, disseminata per pagine e pagine ed inframmezzata da disegni e schemi, note e cancellature. La maggior parte delle volte le pagine erano scritte in inchiostro nero, altre con l’inchiostro blu.

Come se non bastasse, nell’angolo in basso a destra della copertina di pelle erano incise in oro le iniziali H.W.H., come quelle del fazzoletto e del messaggio.

H.W.H.” e “Arthur Conan Doyle” non andavano d’accordo, in fatto di iniziali. Doveva supporre che gli oggetti appartenessero a un’altra persona e Conan Doyle li avesse avuti in consegna? Sembrava la spiegazione più logica.

Stranito dalla faccenda, cominciò dall’inizio, ovvero da dove si cominciavano tutte le cose.

Aprì la prima pagina e si preparò alla lettura partendo dalla data.

« “10 agosto ‘31” » lesse in un sussurro.

Fissò l’anno con particolare interesse, aggrottando le sopracciglia e la fronte in un’espressione pensierosa.

Il 1931? Non poteva essere possibile. Nathan Whale gli aveva confermato che il pacchetto sigillato era in possesso dello studio legale dalla morte del signor Doyle, avvenuta a luglio del 1930. Anzi, probabilmente lo avevano in consegna già da prima, ovvero dall’ultima volta in cui Arthur aveva dettato testamento.

Passò rapidamente alle ultime pagine del diario, osservando che l’ultima data riportata era il 22 maggio ’36.

Allora 1831, un secolo prima. Sembrava strano, però, perché il taccuino aveva le pagine molto sottili e di carta pulita e di buona fattura, cose che la prima metà del diciannovesimo secolo non sapeva ancora offrire. Tuttavia era la più plausibile.

Divorato dalla curiosità, cominciò a leggere.

 

• 10 Agosto ‘31

Papà continua a dirmi che studiare a Oxford non è altro che un onore, che è fiero di me, che tutti in famiglia sono fieri di me e che anche mio padre sarebbe fiero di me. Lo so, che lo sarebbe, se fosse ancora con noi. Ma so anche che non lo sarebbe se sapesse che, per studiare ad Oxford, sono obbligato a lasciare papà da solo e a vederlo solo durante le vacanze e alla fine di ogni semestre; Oxford pretende una vita collegiale.

Non voglio lasciare papà. Dopo la morte di mio padre non è più lo stesso, anche se fa del suo meglio. È distratto ed assente, passa pomeriggi interi seduto a guardare fuori dalla finestra e non mi serve essere un medico per capire che è depresso. Lo sa anche lui, ma non fa nulla per cambiare la situazione. Per questo non voglio lasciarlo solo.

 

Arrivato alla fine della prima entry, John si accorse subito che qualcosa non quadrava.

Il linguaggio era troppo spigliato, troppo colloquiale, troppo... moderno. E poi sembrava che parlasse... di due persone diverse, riferendosi a “papà” e “mio padre”. Presupponeva una famiglia composta da due padri? No. Impossibile. Non sarebbe potuto succedere nel 1831. Ricordava molto bene lo scandalo Oscar Wilde dai libri di letteratura ed erano addirittura i primi anni del 1900. Le relazioni omosessuali erano un reato, figuriamoci le famiglie.

Quel diario non poteva essere stato scritto nel 1831, ma era anche impossibile che fosse stato scritto nel 1931.

Non ci stava capendo più niente. Il linguaggio usato sembrava addirittura del ventunesimo secolo, ma questo avrebbe fatto sì che la data fosse il 2031 e questo no, non poteva proprio essere. Questo significava essere pazzi, andati, completamente fuori di testa.

« Forse lo sono sul serio » commentò amaramente, richiudendo il taccuino e ributtandolo senza grazia nella scatola insieme al resto della roba.

 

 

 

Cinque anni di università. Uno di tirocinio formativo. Due di specializzazione in chirurgia d’urgenza. Uno di addestramento e altri sei passati in guerra.

Sapeva riconoscere ad occhio praticamente ogni malattia respiratoria. Tutte le più comuni infezioni. Sapeva rimuovere un proiettile, medicare, disinfettare, e suturare (o cauterizzare se necessario) una ferita d’arma da fuoco in meno di quattro minuti (cronometrabili). Aveva richiuso addomi, riposizionato fegati e varie interiora, suturato arterie alla luce di una torcia elettrica, tagliato dita e segato ossa e ricucito praticamente ogni centimetro d’epidermide che può ricoprire un essere umano adulto e con una divisa addosso. Era stato nel bel mezzo di un focolaio di Tubercolosi. E di Dissenteria. Aveva rimosso delle schegge di mortaio dal culo di almeno venti uomini.

E lavorava come segretario per un chirurgo plastico.

Aveva fatto domanda d’assunzione praticamente in tutti gli studi medici di Londra, ma nessuno sembrava interessato ad assumerlo. Aveva evitato gli ospedali per lo stesso motivo.

Il perché era presto detto (o letto): Sherlock Holmes. Il nome “John Watson” era famigerato quasi come quello di Holmes e, dai, andiamo, chi vorrebbe il compare di un impostore come medico? Probabilmente Sarah lo avrebbe ripreso, ma non poteva vivere sostituendo medici in gravidanza o coprendo qualche turno di notte una volta ogni tanto – e Sarah non aveva mai avuto altro da offrirgli, in ambito lavorativo. E poi sarebbe stato strano, e snervante. Non voleva in giro gente che conosceva, era meglio.

Alla fine, il dottor Kolstoj lo aveva assunto come suo segretario. Era un chirurgo plastico in ascesa e, per il momento, aveva ancora un buon carattere e un’altrettanto buona cura della propria reputazione. E soprattutto se ne fregava delle voci ed era una di quelle persone che badano di più ai fatti.

Dunque, passava 12 ore al giorno rispondendo alle telefonate, prendendo appuntamenti e sistemando cartelle cliniche in pile ordinate alfabeticamente e cronologicamente per anno.

Si era detto che era meglio di niente. Meglio della fame. Meglio di prima.

Sospirò quando anche l’ultima paziente della giornata entrò in ambulatorio, appoggiando la penna e massaggiandosi la mano con cui aveva scritto per tutto il dannato giorno. Non era più abituato.

Doveva ancora finire di compilare due cartelle mediche, ma per il bene del suo tunnel carpale decise di prendersi una pausa. Nonostante fosse un segretario era costretto ad indossare una divisa blu da infermiere e, anche se sotto portava una maglietta a maniche lunghe, aveva comunque un perenne freddo alle ossa.

Allungandosi verso il cassetto della scrivania, ne estrasse il diario. Ne leggeva piccole parti ogni giorno appena poteva, e aveva scoperto una storia interessante man mano che proseguiva; a quanto sembrava, il detentore del diario aveva sul serio due padri, ma era orfano da poco di uno di loro. Era inoltre alle prese con una carriera brillante ad Oxford che lo lasciava perennemente preoccupato per il padre – quello dei due che veniva chiamato “papà” ed era ancora in vita – perché, nonostante cercasse di tornare a casa appena poteva, lo vedeva sempre meno in forma.

Li aveva invidiati, John, ad un certo punto. I due padri del diarista. Dovevano amarsi davvero molto, se uno dei due sembrava soffrire così tanto per la morte dell’altro.

Per un momento pensò a Sherlock, ma scacciò il pensiero prima che divenisse più profondo (e triste).

Appoggiandosi con la schiena allo schienale della poltrona, sfogliò le pagine fino alla quarta entry.

 

27 Novembre ‘31

Ho chiesto il trasferimento alla London University. Papà e lo zio non ne sono affatto felici (soprattutto lo zio). Mi ha fatto una lavata di capo sul nome di famiglia, cosa che non mi sarei mai aspettato da lui. Probabilmente, se ci fosse stato mio padre avrebbero litigato (di nuovo). Papà lo aveva sempre apostrofato come “faida puerile”.

Mi manca, mio padre. Se lui fosse qui, papà sorriderebbe di più. Non lo vedo bene ultimamente.

Comunque il Rettore di Oxford mi ha fatto un discorso molto concitato, lungo 40 minuti, riguardo alla possibilità di rimanere in facoltà. Anche dopo che gli ho ripetuto le mie motivazioni ha insistito, dicendo che papà si sarebbe potuto trasferire appena fuori dal campus. Ho negato categoricamente. Papà non avrebbe mai accettato di andare via da casa – dalla nostra casa, dalla loro casa – altrimenti lo avrebbe già fatto e io non voglio forzarlo. Tutti i ricordi di mio padre sono lì dentro, per lui...

La London mi ha accettato senza problemi e mi ha anche riconosciuto gli esami già dati. Secondo loro sono avanti rispetto alla media degli studenti, tanto che potrei laurearmi in anticipo e puntare all’eccellenza. Ed è esattamente quello che voglio fare.

 

 

 

Si era chiesto quanti seni vedesse il dottor Kolstoj ogni santo giorno.

E quanti sederi. Molti, considerando che aveva sentito dire al medico la frase “si metta lì in piedi e si spogli” più di quante volte avesse detto “buongiorno”.

Entravano molte persone, nel suo studio medico. Moltissime donne e qualche uomo sufficientemente narcisista da richiedere una rinoplastica o una puntura di botox. Alcune lo facevano per necessità, altre solo per bellezza e altre ancora (John ne era convinto) per assuefazione. Avevano labbra talmente piene da sembrare di plastica ed il viso spianato dal continuo uso di botulino sembrava quello di un manichino. Quel giorno ne aveva vista una sorridere – o provarci – ed era stato tentato di fermarla per timore che potesse esplodere qualcosa dalle parti delle orecchie.

Un paio ci avevano anche provato con lui. Classici trucchi da femme fatale: occhiate fisse, lingua sulle labbra, apertura e successivo accavallamento di gambe alla Basic Instinct.

Ma era un uomo professionale. Aveva sempre diffidato delle donne che ricorrevano alla chirurgia plastica e, fra il lavoro e rischiare di trovare un paio di labbra a canotto sotto ad un cervello da gallina, aveva preferito il lavoro.

 

8 Aprile ‘32

A quanto pare la capacità di lamentarsi per ogni piccola cosa è parte integrante dell’esistenza di ogni professore, non importa a quale grado scolastico insegni.

Se tu scrivi in modo sbagliato una formula e sbagli il problema davanti a cento studenti, non è colpa mia. Nemmeno se ti correggo ad alta voce e, sfidato, vinco il confronto risolvendo il problema in metà del tempo, non è colpa mia. Non è nemmeno colpa mia se sto seguendo lezioni del secondo anno a sette mesi dalla mia iscrizione: dannazione, gli esami del primo li ho già dati tutti, cosa devo fare, girarmi i pollici?

A quanto pare il Rettore non era d’accordo con me. Oppure il Rettore è semplicemente dalla parte dei suoi insegnanti a causa di vincoli monetari e/o di prestigio. Queste cose non cambiano mai.

...l’ho detto a papà. Lui... lui mi ha appoggiato la mano sulla testa e ha detto che devo ancora imparare ad essere più calmo ed educato.

Tutto qui.

Nessuna lamentela, nessuna sgridata. Me le faceva sempre, anche al liceo, anche dopo. Prima che morisse mio padre, per lo meno.

Si sta spegnendo. E io non so cosa fare.

 

 

 

Le cose su Londra che c’erano da sapere, John Watson le sapeva tutte.

Dove comprare cose. Dove vedere gente. Dove trovare piaceri.

Una persona, ad un certo punto, queste cose viene a saperle e basta.

Con una Oyster3 arrivare a Soho non è un problema nemmeno alle due di notte. Alle due di una notte insonne. Alle due di una notte divenuta insonne perché costellata di incubi.

Andavano e venivano a seconda della stanchezza. Dormiva tre ore per notte finché non era esausto e, quando la mente non riusciva più a tenere il passo con la veglia, crollava sul divano non appena rientrato a casa e dormiva anche per dieci o dodici ore di fila.

Cominciava a non riconoscere più gli orari dei pasti, e a dimenticarseli. Non ricordava mai se aveva mangiato, cosa aveva mangiato e se il frigorifero era vuoto o pieno. Gli sembrava di vivere a cavallo fra realtà e dormiveglia, oppure fra realtà ed incubo.

Quella notte, Sherlock era venuto a trovarlo. Gli aveva detto addio per l’ennesima volta e, per l’ennesima volta, si era buttato dal tetto del Barts. Era stanco di mangiare asfalto ogni notte, asfalto che sapeva di sabbia, e l’odore del sangue che era sempre lo stesso indipendentemente dal sogno.

Era stanco e basta.

Il club si chiamava “The Eden’s Apple” e, nonostante l’insegna al neon rossa un po’ consunta e l’aspetto stropicciato e smunto dell’entrata, era il locale più raccomandabile e “pulito” della sua specie. Lo aveva frequentato in gioventù insieme ad alcuni amici dell’università che lo avevano introdotto per primi ad un tipo di piacere che non richiedeva cene, avances, parole dolci o tentativi seri di relazione.

John non voleva niente di tutto ciò, in quel momento. L’unica volta in cui l’idea di trovarsi una brava ragazza lo aveva sfiorato, il pensiero “tanto Sherlock la farà scappare prima di un mese” era arrivato prima del ricordo del fatto che l’amico fosse morto. E John sapeva cosa voleva dire: era fottuto.

Il consumismo era un buon ripiego. Sesso senza domande. Senza spiegazioni, riguardi, rimorsi. Voleva qualche ora di pace dai suoi incubi, era chiedere troppo?

Entrò nel locale guardandosi discretamente intorno, il colletto del giubbotto nero alzato contro il vento e la pioggerellina fine. Fece un cenno di saluto al portiere passandogli una banconota da 50 sterline, lasciandosi perquisire dal buttafuori in cerca di armi o droga – normale amministrazione.

Una volta dentro, la musica assordante lo colpì con violenza. L’Eden’s Apple era una discoteca nonostante il servizio principale fosse un altro, ovvero quello nascosto dai separé sulla destra, verso i quali John si diresse senza nemmeno fermarsi al bar per prendere uno (o due) drink.

Con le mani in tasca percorse velocemente il breve tragitto che lo separava dai separé con disegni orientali di uccelli dalle lunghe code, dietro ai quali vi era una porta che aprì e poi si richiuse alle spalle.

Si fermò all’inizio di un corridoio con dodici porte nere, sei per lato, davanti alcune delle quali erano appoggiate ragazze di diverso aspetto e a malapena vestite; sorridenti ed ammalianti nei loro babydoll di seta o nella biancheria nera di pizzo, tacchi alti e profumi sensuali sui polsi e sul collo. Le stanze già occupate avevano la porta chiusa, ma i muri non permettevano di coprire suoni e gemiti come faceva invece il rimbombo della musica della sala accanto. L’aria era calda, bollente, e John si sentiva già addosso un velo viscoso ed appiccicaticcio di sudore misto ad incenso.

Aveva un tipo, John. Bionda con gli occhi azzurri. Rebecca, la prima con cui era andato ai tempi del liceo, era esattamente così: bionda e con gli occhi azzurri. Era stata la sua preferita per molto tempo, almeno finché non si trovò finalmente una ragazza fissa e ci diede un taglio con i sabato sera all’insegna della frenesia pura.

Ora non era più un giovane ragazzo, ma sapeva benissimo che a quelle ragazze non importava. Era il loro lavoro, accontentare tutti. Se non lo avessero voluto lì dentro lo avrebbero bloccato direttamente all’entrata. Il lavoro del portiere e del buttafuori, in realtà, era proprio quello.

Si diede una breve occhiata intorno, passando in rassegna i volti e le caratteristiche di ogni ragazza. Cinque di loro erano libere e, fortunatamente, fra le cinque nessuna era il suo tipo. Passi i capelli biondi, ma aveva un problema nuovo di zecca con gli occhi azzurri. E non poteva di certo chiedere a sé stesso lo sforzo di osservarne un paio intrisi di piacere e malizia sotto di sé fra le lenzuola. No, non poteva proprio.

Mora con gli occhi castani sarebbe andata benissimo. Fece attenzione a sceglierla con i capelli lisci, però.

« Ciao dolcezza... » miagolò la sua prescelta quando John si avvicinò, le mani ancora nelle tasche della giacca, l’espressione di un abituè che tale non era davvero (era semplicemente la sua espressione disillusa e delusa dalla vita, quella).

« Ciao » si sforzò di rispondere John, prima di cominciare una rapida trattativa: « qual è il tuo prezzo? » domandò.

La donna sorrise, sensuale, portandosi una ciocca di lunghi capelli lisci dietro la spalla con un movimento aggraziato della mano. « Ciò che hai pagato all’ingresso » gli rispose.

Lo presumeva. « Già, sì... certo. Ma sappiamo tutti e due che certi servizi non sono compresi in quel prezzo » ribatté.

La donna sorrise ancora più maliziosa di prima. « Dipende da cosa vuoi, tesoro » mormorò, passandogli un dito sul petto lungo i bottoni della camicia: « per l’anal, c’è un supplemento di quaranta sterline. Venti se vuoi un lavoretto di bocca. Saliamo a sessanta se hai particolari tipi di fetish, o per il bondage, ma non faccio total bondage. E poi, beh... » una piccola pausa in cui si avvicinò a lui, facendo attenzione a sfiorargli l’orecchio con le labbra, da vera esperta, mentre sussurrava: « ...per altri tipi di divertimento, si arriva anche oltre i cento ».

Il medico respirò il suo odore vanigliato e lo trovò francamente stomachevole. Ma era sicuro che entro dieci minuti si sarebbe dimenticato sia il profumo che il proprio nome. Quello di lei non voleva saperlo.

« Quale tipo di divertimento? » domandò, a sua volta in un sussurro, osservandola attento mentre, a pochissimi centimetri da lui, si faceva scivolare due dita della mano destra dentro una coppa del reggiseno e ne estraeva un piccolo sacchettino trasparente con dentro vari grammi di polvere bianca.

« Cocaina? » chiese John. Quella annuì con occhi brillanti.

Sherlock. Era una persecuzione.

Il medico scosse la testa, occhi chiusi.

Lei fece spallucce, nascondendo la droga nel pugno chiuso della mano. « Ho diversi tipi di preservativo, se sei un fanatico » disse poi, leccandosi le labbra in un modo quasi osceno.

« Ho i miei » tagliò corto John, diffidente. « Hai qualcosa in contrario al sesso violento? » domandò però subito dopo, sguardo fermo negli occhi di lei che gli rispose con un sorrisetto.

« Il mio preferito... » ribatté lei, lasciva.

Estrasse dalla tasca sinistra del giubbotto una banconota da venti che la donna prese con un sorrisetto, accarezzandogli le dita con le proprie.

« Vuoi che chiami il tuo nome, mentre vengo? » domandò lei.

John sogghignò. Era disperato, non un povero illuso.

Non le rispose e lei non se ne lamentò. Gli fece solo segno di accomodarsi all’interno, precedendolo ancheggiando.

Watson sentì di gettarsi alle spalle qualcosa di più della dignità, ma non gli importò. Oblio, questo voleva. La possibilità di fare finta di essere in un altro posto, in un altro luogo, in un altro tempo.

La possibilità di non essere più se stesso almeno per qualche ora.

 

21 Luglio ‘32

Il mio professore di Fisica mi ha voluto con sé all’interno di un gruppo di studiosi selezionati da tutte le maggiori università della Gran Bretagna. Non ho ancora capito che tipo di gruppo di ricerca sia, ma so solamente che sono l’unico studente ed il più giovane di tutti. Suppongo che mio padre ne sarebbe fiero.

Dice di essere rimasto impressionato dalla mia ricerca sui buchi neri di Kerr e sull’Orizzonte degli Eventi.5 Mi aveva già detto più volte di essere impressionato dalle mie capacità in Fisica ed Astrofisica, ma da qui a farmi fare parte in quello che ha tutta l’aria di essere un progetto super segreto...

Ho chiesto allo zio per prudenza, ma stranamente anche lui non ne sapeva nulla. Il che mi sta dando da pensare.

 

 

 

Molti pensano che l’orgoglio di una persona si infranga in momenti epici, dolorosi e pieni di risentimento.

Probabilmente è colpa dei film americani, che sembrano riciclare all’infinito il cliché del protagonista urlante sul cadavere del co-protagonista di turno, con le lacrime agli occhi e la disperazione nelle voce. Forse è per questo che, in collegamento a certe immagini, la letteratura preferisce descrivere la morte dell’orgoglio paragonandolo ad un infrangersi di vetri, o di porcellane, o di qualsiasi cosa possa infrangersi e lasciare in giro delle schegge.

In realtà non è così. In realtà l’orgoglio è qualcosa di pesante, ferroso, scuro ed arrugginito. Cadendo non si rompe affatto, fa solo un gran casino. Rimbomba nel petto come una bomba a mano e la fatica che si deve fare non è quella di rimetterlo insieme, ma quella di risollevarlo.

L’orgoglio non si spezza: quello è l’animo umano. L’orgoglio se ne sta sul fondo del pozzo ad affondare, e più si aspetta più affonda, e più affonda più si fa difficile tirarlo via.

E no, l’orgoglio che cade non ha suono se non quando tocca il fondo. Non succede in momenti epici, non è accompagnato da urla e grida e, per Dio, nemmeno da lacrime.

John Watson ne sapeva qualcosa.

La seconda volta che l’orgoglio di John cadde con un tonfo, lui era seduto sul letto del suo nuovo appartamento a fissare lo schermo della televisione spenta. Niente momenti carichi di pathos e scene da protagonista melanconico. Solo un sospiro e un leggero scuotere del capo.

John si era sempre creduto un uomo onesto con gli altri, ma poco con se stesso. Tutte le volte in cui doveva guardarsi dentro ed ammettere di avere bisogno di aiuto, però, lo aveva fatto. A volte in ritardo, quello è vero – la prima volta che il suo orgoglio cadde, aveva aspettato un anno prima di provare a tirarlo su di nuovo – ma fortunatamente era anche uno che imparava dai propri errori.

Non poteva continuare ad essere solo. Aveva respinto tutti coloro che avevano tentato di aiutarlo e, nel suo rifiuto, aveva finito per punire persone che, forse, non centravano niente. O non se lo meritavano.

Non avrebbe perdonato Mycroft, no, la sua colpa era legittima. Ma Lestrade... Greg... quale responsabilità poteva avere Greg in concreto? Forse era proprio come uno di quei soldati che, a Norimberga, dicendo di non avere avuto altra possibilità se non obbedire dicevano solo la verità.

Gli mancava. Greg era diventato una sorta di strano amico, peculiare ma sincero, e si erano riscoperti persone affini, in un qualche modo. Di sicuro potevano parlare alle spalle di Sherlock Holmes con cognizione di causa, quando andavano a bere una pinta al pub, e probabilmente erano gli unici a poterlo fare sul serio. Gli unici che sarebbero stati in diritto di indossare una maglietta con la scritta “ho frequentato Sherlock Holmes per più di 24 ore e sono sopravvissuto”.

Sorrise appena a quel pensiero, John, e questa volta non aspettò che l’orgoglio marcisse, prima di cominciare ad issarlo. Raggiunse il cellulare e, scorrendo la lista contatti, arrivò al nome di Lestrade.

Forse, era il momento di chiedere scusa. Di perdonare.

Di perdonare almeno Lestrade.

Fece partire la chiamata.

 

4 Agosto ‘32

Il professor Schneider mi ha finalmente spiegato a cosa fosse dovuta tutta quella segretezza e, sinceramente, non ho parole. Non credevo che il Governo Inglese potesse arrivare a tanto. Ho sentito che al progetto collaborano anche l’Irlanda del Nord e la Scozia. Tutto il Regno è concentrato su questo progetto che, se riesce, potrebbe riportare alla nazione i lustri di quando era un Impero temuto e rispettato da mezzo mondo.

Non so se sono tutti impazziti o se sono tutti dei geni. Papà dice sempre, però, che genio e follia molto spesso collimano (e che mio padre ne era l’esempio vivente).

Papà. Con questo, non potrò mantenere la promessa di prendermi cura di lui. Sarò troppo impegnato, probabilmente, anche se sarò comunque a Londra, a portata di telefonata.

Lui è fiero di me. Lui è sempre fiero di me. Non ricordo ci sia stato un solo istante della mia vita in cui lui non sia stati fiero di me, nonostante tutti i guai e i problemi e le liti.

Spero solo che si riprenda. Ho il brutto presentimento che si stia lasciando andare...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1. Questi sono tutti dialoghi presi dalla 2x03, gli ultimi minuti, al cimitero. Siccome non ho avuto il fegato di riascoltarli e tradurli ad orecchio, ho usato la versione dei sottotitoli di Itasa. E non mi ha fatto soffrire di meno.

 

2. Nonostante l'età di Holmes e Watson sia ancora un argomento parecchio discusso, alcune teorie danno Holmes nato nel 1854 e Watson nel 1852. Mi informa Wikipedia che le prime avventure, ovvero "Uno Studio in Rosso" e "Il Segno dei Quattro", sono da datarsi a poco dopo il 1880, anno in cui Watson è ancora in combattimento. Assumo per buon senso (che potrebbe fare cilecca) che siano almeno due anni dopo. Ora, secondo i miei calcoli, Holmes e Watson dovrebbero avere circa una trentina d'anni (precisamente: 30 Watson e 28 Holmes).

Trasportata ai giorni d'oggi ammetto di avere alzato l'età probabile di un paio d'anni a tutti e due, portando Holmes a 30 e Watson a 32 (al primo incontro). È lo stesso John a dire poi, in "The Reichenbach Fall", che ha convissuto con Sherlock per 18 mesi (un anno e mezzo); il che porta Sherlock a 31/32 anni e John a 33/34. Facendo un paio di conti a ritroso dal 2011, Watson mi risulta nato nel 1977 e Holmes nel 1979.

Ricordate che la matematica non è un'opinione ma io sono in grado di renderla tale ;D

 

3. La Oyster Card è una carta ricaricabile che ti permette di salire su ogni tipo di trasporto nell'area urbana di Londra. Ovvero tram, metropolitana ed autobus.

 

4. La prostituzione in Inghilterra non è vietata. Eh già. Lo è solo se esercitata in luoghi pubblici e nelle aree urbane, secondo la legge inglese, il che rende luoghi come L'Eden's Apple perfettamente legali.

 

5. Non sarebbe questo il capitolo adatto a spiegare cosa sono i buchi neri di Kerr e l'orizzonte degli eventi (dato che potrebbero anche essere indizi...) ma dato che esiste Wikipedia e di sicuro non aggiornerò mai troppo presto, tanto vale iniziare il primo dei grandi papiri di Fisica Relativistica che chi sarà abbastanza pazzo da continuare a leggere si beccherà ogni tanto. Esatto, si parla di Teoria della Relatività, dunque del caro zio Einstein (e seguaci).

Penso che si sappia cos'è un buco nero, ma per chi non va molto d'accordo con la Fisica, la spiegazione semplice è che un buco nero sia una stella morta ed implosa la cui gravità, collassando, ha creato una singolarità in grado di "risucchiare" tutto: masse, luce e addirittura tempo.

Detto questo, molti scienziati hanno elaborato delle teorie per capire l'origine di quella singolarità. La più papabile pare quella di Kerr, che immagina il suo buco nero causato da più masse rotanti non cariche elettricamente che creano una singolarità anulare. Banalizzando: immaginatevi la vera nuziale di vostra madre in scala 20milioni-di-miliardi:1 che gira talmente veloce da fare collassare la gravità.

Da qui, l'orizzonte degli eventi è una porzione di spazio che circonda la singolarità del buco nero in cui lo spazio-tempo viene piegato. Vi risparmerò i termini strettamente fisici, ma praticamente è quel punto oltre il quale qualsiasi cosa cessa di esistere così com'è, perché le leggi della Fisica non hanno più senso. (I buchi neri di Kerr ne hanno 2 di orizzonti, tipo 8D).

   
 
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