Note: secondo
capitolo. Diviso in due perché sono una persona molto sintetica (nemmenoperidea).
Probabilmente intorno al
terzo capitolo comincerà la parte sci-fic della
faccenda, anche se qualcosa ci sarà anche nella seconda parte di “Diary”... occhio ai dettagli ;D
Il caro nome del dottor Kolstoj è in prestito da Shichan,
che ringrazio.
Come al solito, le cose
importanti sono a fondo pagina.
E sempre come al solito,
auguro buona lettura ♥
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Diary /1
Non
era abituato, a quelle cose. A quelle visite.
Di
amici ne aveva persi tanti, nel tempo, in guerra soprattutto, ma là quelle cose non era necessario farle. Là
non era possibile farle. Visitare
tombe.
Là
non c’erano tombe.
C’era
sabbia. E roccia. E montagne. E dune. Nessuna tomba. Qualche croce, forse,
all’inizio, ma che senso aveva? Alla prima tempesta sarebbe stata sepolta, o
trasportata via. Alla fine, insieme a tutte le altre cose che ti rendono una persona
civile ma che in guerra non hanno più senso (perché ti rendono anche debole),
anche le usanze funebri perdevano di significato. I morti non si meritavano più
niente – non ce n’era il tempo.
Di
solito si raccoglievano i pezzi, comunque. Li si metteva in un sacco e li si
portava a Kabul sperando che non si decomponessero nel frattempo a causa del caldo.
Al campo base qualche anima pia metteva i resti del soldato dentro ad una bara,
ci stendeva una Union Jack sopra, la caricava su di
un aereo e la portavano in Inghilterra. Altri nemmeno li trovavano più. I pezzi
erano talmente piccoli che raccoglierli significava dover usare le pinzette cavaciglia. Si preferiva mandare a casa una bandiera
piegata ed una lettera di condoglianze firmata dal generale di turno (o dal suo
galoppino).
In
guerra nemmeno si piangevano, i morti. Morivano amici che erano diventati tali
solo per cameratismo. Amici di cui si conosceva solo il cognome. Amici che si
sapeva essere sinceri, perché dovevano esserlo per forza, per stare in pace con
se stessi: a nessuno piace morire da solo, e quando si sentono in lontananza
colpi di mortaio 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, la paura di morire ti dorme
accanto in branda. Anzi, probabilmente dorme bene solo lei.
Tutto
sommato, John preferiva la guerra.
In
guerra non avrebbe dovuto pensare a chi
aveva perso. Non avrebbe avuto il tempo di farsi venire in mente Sherlock
Holmes ad ogni piè sospinto, ad ogni alito di vento, in ogni minuto di
silenzio.
In
guerra avrebbe combattuto e basta.
Ma
John non era più in guerra da molto tempo, ormai – non lo avevano più voluto.
John era a Londra, in piedi davanti al suo armadio, in pigiama, a decidere
quali vestiti indossare. Una semplice visita ad una tomba lo stava seriamente
mettendo in difficoltà. Disinnescare una mina sarebbe stato più facile.
John
odiava i cimiteri, in realtà. Era una cosa che gli aveva passato Harry.
L’ultima
volta che ci era stato, era andato a trovare suo padre il pomeriggio prima di
prendere l’autobus per Londra. Non era mai stato davanti alla sua tomba se non
per il suo funerale e non se ne pentiva. Harriet
diceva sempre che i cimiteri sono per i morti, non per i vivi; lui aveva deciso
che era l’unico discorso sensato che le avrebbe mai sentito dire e aveva concordato
con lei, per una volta.
Ma
era... Sherlock. La tomba di Sherlock. Un pezzo di marmo nero con sopra un nome
che doveva rappresentare tutto ciò che di Sherlock, fisicamente, era rimasto.
Era un simbolo, una convenzione sociale per dare l’idea di poter parlare con la
persona sepolta sotto di esso.
John
pensava che fosse Dio, la convenzione sociale, non le tombe. Le tombe non erano
mausolei, o totem.
Erano
segnaposti.
Qui
è stato sepolto Sherlock Holmes. Fra cent’anni dovrà essere riesumato, la bara aperta,
le ossa raccolte e depositate nell’ossario del cimitero. Probabilmente scadrà
anche l’affitto del lotto di terreno. Se non avete altri parenti da seppellire,
verrà affittato al nuovo inquilino – c’è sempre domanda. Con i migliori saluti:
la Direzione.
Sospirò,
riservandosi di prendere un paio di vestiti qualsiasi: jeans blu, camicia beije a scozzese, maglioncino nero sbottonato sul davanti.
Giugno non aveva aiutato la temperatura a salite oltre i venti gradi, dunque si
sarebbe messo il suo solito giubbotto nero, in tinta con le scarpe. Dopotutto
andava al cimitero, no? Il nero è meglio.
Non
pensò a niente per tutto il resto del tempo, rifiutandosi di formulare
qualsiasi pensiero che contemplasse l’immagine di Sherlock steso dentro una
bara a sei piedi sottoterra sotto una lapide-segnaposto.
Chiamò
il taxi – se lo permise, quel giorno – e lo fece passare per Baker Street, dove
mrs. Hudson si unì a lui.
Lei
aveva in mano un mazzo di fiori. John non era tipo da fiori – non era sicuro di
essere tipo da qualsiasi cosa.
Non
parlarono per tutto il tragitto, facendo in silenzio anche la breve passeggiata
che li separava dalla tomba di Sherlock Holmes.
Vederla
comparire, per la prima volta dopo la sepoltura, non lo rendeva meno reale. Non
lo rendeva neanche meno pietoso. Solo più doloroso.
Ingoiò
un groppo fastidioso di lacrime, ordinando a se stesso di non fare il bambino
frignone. Era un adulto, un soldato: si sarebbe comportato come tale. Era solo
un altro cadavere, solo un’altra morte. Devi
convincertene, John.
Era
davvero comodo mentire a se stesso in quel modo.
Rimase
in piedi con le mani in tasca mentre mrs. Hudson
riempiva d’acqua il vaso vuoto e vi metteva i fiori, sistemandoli bene. John
rimase a guardarla col pensiero che, finché ci sarebbe stata lei, probabilmente
su quella tomba i fiori non sarebbero mai mancati.
Lui,
in realtà, non era più sicuro di avere il coraggio di tornarci spesso, in quel
cimitero.
La
donna si alzò, spolverandosi la gonna del vestito nero, e si mise in piedi
accanto a lui. Per rispetto, John si tolse le mani dalle tasche.
« Ci sono tutte le
sue cose » cominciò mrs. Hudson dopo un istante di silenzio: « le attrezzature
scientifiche. Ho lasciato tutto negli scatoloni, non so cosa se ne debba fare.
Pensavo di donarle ad una scuola » continuò a parlare, prima di voltarsi
appena in sua direzione: « potresti... » tentò.
« Non posso
ritornare nell’appartamento » rispose subito John, il groppo fastidioso risalito di
nuovo verso la gola: « non adesso » aggiunse.
Sarebbe
crollato, e lo sapeva. Fin troppo bene. Se ne rendeva conto in quel posto,
nonostante non avesse mai avuto significato, per lui. Non uno vero, uno
comprensibile.
Ma
Sherlock... Sherlock non era come gli altri. Sherlock non era un corpo
recuperato dalla sabbia e mandato in Inghilterra e seppellito chissà dove.
Sherlock lui lo aveva visto buttarsi, lo aveva visto sparire su di una barella,
aveva sentito la sua voce, le sue ultime parole, e quelle parole erano state
per lui. Sherlock non se ne era andato implorando Dio di salvarlo, dilaniato da
una raffica di proiettili. Se ne era andato buttandosi da un dannato tetto.
Lui
non era in Afghanistan ed affrontare la morte a Londra aveva tutto un altro
senso.
Strinse
gli occhi, sentendoli pungere. Respirò più profondamente e riuscì ad impedirsi
di piangere.
Non
voleva lasciarlo andare ma non poteva fare altro. Lui non aveva scelta.
Con
Sherlock non ne aveva mai avuta una.
« Sono arrabbiato » soffiò allora,
dopo qualche istante di silenzio.
« Va tutto bene,
John » gli disse la donna,
stringendogli affettuosamente il braccio: « non è affatto strano. Ha fatto sentire
tutti così. Tutti quei segni sul mio tavolo, e tutta quella confusione... Lo
sparare all’una e mezzo del mattino... ».
« Già » annuì
distrattamente John, sguardo fisso sul marmo nero e sulle lettere dorate.
« I campioni
insanguinati nel frigorifero... » continuò Martha: « Riesci ad
immaginare, tenere insieme cadaveri e cibo! ».
« Sì... » annuì ancora
John.
« E i litigi. Era
così irritante con quel suo comportamento da irresponsabile! » esclamò di nuovo,
palesemente agitata.
John
dovette fermarla, prima che gli stritolasse il muscolo dell’avambraccio: « ascolti, in
realtà non sono così arrabbiato, ok? » tentò di mediare, mettendo la mano sulla
sua nel tentativo di calmarla.
Lei
annuì. « Ok » disse: « Ok. Ti lascio da
solo per... sai... » cominciò, ma non
finì mai la frase – quale fosse la sua conclusione era abbastanza palese.
Quando
si trovò solo davanti alla tomba, John non seppe né cosa fare, né cosa dire.
Oh,
in realtà aveva molte cose, da dire. Tutte quelle che Ella, nel suo goffo
tentativo di farlo sentire meglio, gli aveva fatto venire in mente con violenza
– e non si era sentito affatto meglio. Per niente.
Deglutì,
cercando di togliersi di dosso la voglia di urlare, ma non ebbe buoni
risultati.
Allora
si voltò, osservando mrs. Hudson sparire lungo il
sentiero.
Si
voltò di nuovo e, finalmente conscio di non potere semplicemente andarsene e
basta, si schiarì la voce. Prese una decisione.
« Ok » cominciò: « ok. Tu... una
volta, mi hai detto che non eri un eroe » esordì.
Alzò
gli occhi oltre la lapide, osservando uno squarcio qualsiasi di prato, ma
riprese a parlare prima di perdere il momento. Era tragicamente consapevole che
se si fosse bloccato, o se fosse rimasto in silenzio troppo a lungo,
probabilmente non avrebbe finito il discorso.
Riprese
a fatica. « Ci sono stati dei
momenti in cui ho pensato che non fossi nemmeno umano, ma ti dico una cosa... eri
l’uomo migliore... ».
Una
pausa.
« L’essere umano...
» riprese a fatica,
umettandosi le labbra, sforzandosi di non fare uscire la voce troppo
tremolante; inutilmente.
« ...più umano che
io abbia mai conosciuto. E nessuno mi convincerà mai che tu mi abbia mentito.
Ecco... » dovette
concedersi una nuova pausa, un nuovo tentativo per non crollare. « L’ho detto » aggiunse poi,
prendendo una grande sorsata d’aria e abbassando lo sguardo all’erba sotto ai
suoi piedi – alla terra sotto l’erba,
alla bara sotto la terra, al corpo dentro la bara.
Furono
incerti i passi che lo portarono accanto alla lapide, scatti nervosi della
mano, indecisi se fare o meno ciò che stava facendo senza trovare dentro di sé
la giusta convinzione, o anche la sicurezza dell’esperienza. Non ne aveva.
Non
sapeva se quel tocco sul marmo freddo con tre dita della mano sinistra poteva
essere scambiato per un saluto sufficiente, o sufficientemente sentito.
Un
saluto, lo era, anche se no, sentito non lo era per nulla.
Le
parole che gli uscirono poi, così vicino, così prossimo a quel nome e a quel
freddo, non erano più circostanza. Non erano sforzo. Non erano lisce, pulite,
spurie dalle lacrime, o dalla minaccia che scendessero.
La
voce gli tremò. Lui se ne fregò.
« Ero così solo...
e ti devo così tanto... » soffiò, facendosi
forza e ricacciando indietro la disperazione ancora una volta. Annuì piano alla
tomba, gli occhi lucidi che non volevano cedere al pianto, e fece per
andarsene.
Qualche
passo, e semplicemente le parole uscirono da sole.
« Ti prego, c’è
ancora una cosa, un’ultima cosa » ricominciò, la voce ora forte, rabbiosa,
implorante: « un ultimo
miracolo, Sherlock, per me » domandò.
« Non essere... » silenzio,
un’altra ondata di dolore: « ...morto. Potresti farlo, per me? » domandò, completamente
illogico, totalmente fuori da ogni accettazione. « Smettila » continuò,
testardo: « smettila ».1
Un
miracolo che rimase inascoltato, e lo sapeva. Un miracolo impossibile. Un
miracolo che avrebbe significato impazzire, o morire a sua volta.
Non
era pronto. Non era pronto.
Non
era semplicemente, fottutamente pronto.
Non
era pronto per dirgli addio. Sherlock era... il suo tutto. Sherlock era l’unica
cosa bella che il mondo gli aveva dato per scusarsi della merda che aveva
dovuto vedere in Afghanistan. Sherlock era l’unica persona che si era presa
cura di lui senza saperlo e di cui lui aveva voluto prendersi cura senza
dirglielo.
L’amico
migliore, il compagno migliore, il collega migliore. La persona più eccentrica
ed infantile. L’uomo più strano e particolare. Ma lui aveva sempre visto una
sincerità, in quegli occhi azzurri, nascosta sotto galassie e numeri e formule
chimiche e criminodinamiche, che andava oltre
l’umano, oltre tutto ciò che lui, John Watson, aveva potuto capire in tutta la
sua vita.
L’uomo
migliore.
Non
gli aveva mentito, no. Mai. Non era un impostore, un bugiardo, uno scherzo di
natura, un freak.
Era
Sherlock Holmes. Solo Sherlock Holmes. Devi stare attento ai dettagli, per
conoscere Sherlock Holmes, e se lui te lo lascia fare, sarai l’uomo più
fortunato del mondo.
Non
poteva essere morto. Non poteva e basta. Ma era morto, davvero, era la realtà
dei fatti, e lui si sentiva così arrabbiato, così tradito, che non poteva fare a meno di chiedersi in cosa avesse
sbagliato, cosa non avesse visto, notato, osservato, capito.
Quale
dettaglio non avesse colto. E, se l’avesse notato, sarebbe riuscito a fermarlo?
Non
ce la fece più. Con le spalle curve e la testa bassa si portò la mano agli
occhi, lasciandosi andare ad un singhiozzo.
Si
bagnò la punta delle dita con le lacrime, salate, lasciandole scivolare per la
prima volta da giorni.
Non
sarebbe più tornato in quel posto, no. Non poteva. Non ce la faceva.
Raddrizzò
le spalle ed il busto, respirando profondamente e calmandosi. Una posa
militare. Non un saluto.
Non
un saluto, no. Non gli avrebbe detto addio. Non ora.
Non
ancora.
Non poteva.
Non
rientrò nel suo appartamento prima dell’una di notte.
La
lista della spesa pendeva dalla calamita a forma di pesce che la teneva ferma
sulla facciata del frigorifero, giusto accanto al post-it che diceva, nella sua
calligrafia, di chiamare lo studio notarile Harderbrook
& Whale di Crowborough.
Ci mise un poco per capire cosa lui stesso si fosse appuntato, ma alla fine ci
riuscì.
Troppo
scotch. Ci aveva affogato i pensieri già dalle sei del pomeriggio, quando aveva
capito che girare senza meta per Londra con la voglia di fare niente – vivere
era stata un’opzione discutibile per parecchie ore – non aveva molto senso. Non
ricordava quanti giri aveva fatto, sapeva solo che aveva speso in alcool più di
ciò che poteva permettersi.
Colto
da un senso di rifiuto per se stesso – che in mattinata si sarebbe molto
probabilmente trasformato in senso di colpa – prese una matita e cercò di
appuntare qualcos’altro sul post-it giallo, qualcosa come “cercare nuovo
lavoro”, ma non vi riuscì né al primo, né al secondo, né al terzo tentativo.
Aveva
troppo alcool nel sangue, troppo alcool nel cervello, troppo alcool nello
stomaco. Non aveva pranzato, o cenato e, ora che ci pensava, non aveva nemmeno
fatto colazione. Bere a stomaco vuoto è la prima cosa che al liceo ti dicono di
non fare mai.
Si
era sbagliato: il senso di colpa arrivò subito e lo investì come un autotreno.
Lui
era un medico. Lui era un ex-soldato della Corona. Lui era quello che aveva
dovuto badare per tutta l’adolescenza ad una sorella troppo incline alla
sbronza del sabato sera e, successivamente, alcolizzata del tutto. Era l’ultima
persona sulla faccia della Terra che avrebbe dovuto fare una cosa del genere.
Sospirò,
distrutto, portandosi le mani agli occhi e poi nei capelli.
Aveva
un vuoto che andava dalle otto alle dieci di sera. Due ore.
Due
ore in cui, a giudicare dalle sterline spese, doveva aver bevuto minimo una dozzina
di bicchieri di scotch e ghiaccio. Non si ricordava quando era passato allo
scotch liscio, il che significava che era stato da qualche parte durante quelle
due fatidiche ore.
Male.
Fortunatamente
aveva smesso qualche ora prima di andarsene. No, correzione: il barista si era
rifiutato di servirgli altro alcool e gli aveva ritirato le chiavi di casa per
farlo restare lì finché non fosse tornato in sé.
Male.
Molto male.
Non
si ricordava come fosse tornato a casa. Ma era uscito dal locale a mezzanotte
e... a piedi. In uno sprazzo di ricordo vide il portone di Baker Street. Le
chiavi che non entravano nella toppa. L’improvviso ricordarsi che non abitava
più lì. Ricordò la propria voce lontana chiamare “Sherlock” rivolto verso la
finestra del salotto, buia.
Questo
era anche peggio.
« Cristo... » sussurrò, strofinandosi
gli occhi. Persino la sua sbronza lo sfotteva. Sperava vivamente che mrs. Hudson non fosse stata in casa, quella sera, oppure
che non lo avesse sentito, perché non avrebbe avuto più il coraggio di
guardarla in faccia. Faticava già a guardare se stesso allo specchio.
Aveva
sonno ma non poteva mettersi a dormire così, con i fiumi di scotch che
sicuramente aveva ancora dentro di sé. Se si fosse steso, a metà della notte
sarebbe stato male. Conosceva se stesso abbastanza per saperlo. Una delle prime
volte a Kabul, durante le festività natalizie, era successo esattamente quello
e aveva passato Santo Stefano montando la guardia e sperando di non vomitare sugli
anfibi del General Maggiore in visita
all’accampamento.
Rimedi
della nonna, dunque.
Primo
fra tutti: cibo. Cibo grasso. Roba fritta, pane, dolci. Ma al solo pensiero gli
si rivoltava lo stomaco come un calzino, dunque meglio di no.
Secondo:
acqua. Doveva aiutare il proprio fegato a smaltire quella quantità assurda di
etanolo. Sì, lo avrebbe fatto dopo.
Terzo:
acqua calda e limone. “O va giù o viene fuori” diceva sempre Harriett quando doveva ricorrere a quello stratagemma.
Meglio di niente.
Nel
suo caso venne fuori. Quando uscì dal bagno, dopo avere avuto anche
l’accortezza di farsi una doccia ed infilarsi il pigiama, erano ormai le tre di
notte.
Il
suo stomaco era quanto più vicino ad un residuato bellico esistesse e gli si
chiudevano gli occhi dalla stanchezza persino mentre camminava. Decise di
dormire, sperando con tutto se stesso di svegliarsi a casa sua, al 221B,
arrabbiato a causa del suono di un violino che non gli aveva permesso di
dormire bene, che gli aveva procurato brutti sogni.
Sapeva
che non era possibile. Ma tutti dicono che la speranza è l’ultima a morire.
E
quando muore anche quella, rimane sempre l’illusione.
Si
svegliò a causa di rumori inequivocabili.
Lo
stridio delle gambe del letto che strisciano sulle piastrelle, il rumore sordo
di una testiera che sbatte ritmicamente contro un muro, un cigolio di molle e
di rete metallica. Ansiti, gemiti, grugniti, qualche “oh, Jeff, sì, sì!” e molti “Oh
mio Dio, Kate!” urlati come se nel condominio ci fossero solo loro.
John
fissò il soffitto senza muovere un muscolo, steso supino sul letto. A quanto
pareva, l’inquilina del piano di sopra aveva compagnia. Gli sembrava di ricordare
che il marito si chiamasse Albert, non Jeff, ma quelli non erano affari suoi,
dopotutto.
Sbuffò,
portandosi le mani agli occhi e strofinandoseli. Non sarebbe riuscito a
riaddormentarsi grazie alle olimpiadi del Kamasutra al piano di sopra e, comunque,
le nove del mattino erano un orario decente per alzarsi dal letto e tentare di
sopravvivere per altre diciotto ore.
Chiuse
una buona parte dei rumori fuori dal bagno, svuotando la vescica, lavandosi i
denti e sbarbandosi con calma. Decise di non vestirsi ma si prese comunque il
suo tempo. Quando uscì, probabilmente Jeff aveva finalmente finito le cartucce
per il fucile a pompa e tutto taceva.
Meglio.
Si
diresse nel cucinino a piedi scalzi, mettendo in atto i soliti movimenti atti
alla preparazione del tè. Erano cose a cui non doveva nemmeno più pensare, dato
che venivano in automatico: teiera, acqua, fuoco, aspettare, bustina, aspettare
l’infusione, versare nella tazza (nuova, bianca a quadrati rossi), aggiungere
mezzo cucchiaino di zucchero e una generosa spruzzata di limone.
Per
lo meno aveva smesso di tirare giù dalla credenza due tazze. Era un passo
avanti.
Sorseggiando
la sua colazione, si sedette al tavolo della cucina e si allungò verso un
giornale che non c’era. Si fermò con il braccio teso e la mano a mezz’aria,
trattenendo il respiro in una smorfia prima di sospirare amareggiato. Era
Sherlock che portava i quotidiani a casa. Era
Sherlock, John, maledizione!
Un
passo avanti e due indietro.
Lasciò
ricadere la mano sul tavolo con un tonfo, le labbra serrate e il respiro
mantenuto appositamente tranquillo da una buona volontà ed un autocontrollo
emotivo che sentiva essere sempre più labili. Si chiese cosa ne sarebbe stato
di lui, il giorno in cui avrebbe perso completamente ragione di se stesso, ma
evitò di cercare la risposta.
In
cambio, piazzò gli occhi sul frigorifero dall’altra parte del piccolo cucinino.
Il post-it giallo della sera precedente era ancora lì, accanto alla lista della
spesa, con sopra le due note – la seconda in calligrafia molto traballante –
scritte appena il giorno prima.
Beh,
una cosa alla volta. Un passo per volta. Roma non era stata costruita in due
giorni, no? Doveva solo rialzarsi in piedi. Ritrovare di nuovo la forza di
cancellare una parte della propria vita ed iniziarne una nuova. Poteva sempre
cominciare dalle piccole cose.
Posò
la tazza e prese cellulare e pacchetto postale, lasciati entrambi sul tavolo
della cucina. Trovò il numero telefonico dello studio notarile
nell’intestazione della lettera e, componendolo lentamente, chiamò.
Non
ci volle molto perché una voce femminile rispose alla chiamata: « studio notarile Harderbrook
& Whale ».
« Ah, salve, il mio
nome è John Watson » si presentò,
schiarendosi la voce: « l’altro giorno mi
è arrivato un pacco a nome del vostro studio e avrei bisogno di delucidazioni
in proposito » disse.
« Ha un nome in particolare come riferimento? » domandò quella
che doveva essere per forza la segretaria.
Le
sopracciglia di John scattarono in alto. « In che senso, scusi? » domandò.
« Il notaio che ha firmato l’atto, di
qualsiasi cosa si tratti » spiegò subito la ragazza, gentilmente: « se ha un nome posso passare direttamente a
lui la telefonata, così le saprà fornire con precisione qualsiasi cosa di cui
ha bisogno ».
« Ah, capisco.
Aspetti solo un secondo » disse John,
tenendo stretto il cellulare con la spalla mentre toglieva dalla busta e
spiegava di nuovo la lettera, facendo attenzione a non strappare la carta già
abbastanza ingiallita e dall’aria fragile. « Eccolo: Thomas T. Harderbrook
» lesse la firma
sotto la dicitura “il notaio garante”, sulla sinistra dello scritto.
Dall’altra
parte della cornetta provenne solo silenzio.
« Signorina? » chiamò allora
John.
« Sì, mi scusi. È che... è impossibile » gli rispose lei: « Il signor Thomas Harderbrook
è uno dei fondatori dello studio ma è morto durante la seconda guerra
mondiale... » gli disse, e si
poteva sentire dal tono di voce che non aveva la minima idea di cosa dire.
Bella
fregatura. E adesso come glielo spiegava?
« Beh, è possibile,
dato che la lettera che tengo in mano è datata 1930... è per questo che ho
telefonato, in realtà » cominciò con
l’intenzione di continuare, ma venne interrotto dalla stessa segretaria.
« Oh mio Dio! » esclamò.
John
sobbalzò senza volerlo. « Scusi? ».
« Lei è il destinatario del testamento Doyle, dico bene? » chiese quella, la voce improvvisamente ad
un livello pericoloso d’eccitazione.
« A-A quanto
pare... » lasciò cadere
John.
« Le passo il signor Whale
allora, signor Watson. È l’attuale direttore dello studio, si è occupato lui
del suo caso. Attenda il linea! » esclamò.
Dovette
attendere circa un minuto, passato ad ascoltare una di quelle irritanti
musichette d’attesa. Aveva appena preso un’altra sorsata del suo tè ormai
tiepido quando una voce maschile e giovane interruppe la melodia: « Nathan Whale. In
che cosa posso esserle utile, dottor Watson? » domandò presentandosi.
« Buongiorno » salutò John: « volevo solo
chiedere qualche informazione riguardo al pacco che ho ricevuto, inviato dal
vostro studio notarile » cominciò.
« La ascolto » disse Whale dall’altra parte del telefono.
John
spiegò la lettera sul tavolo e la scorse con gli occhi, mentre parlava: « ho letto la
lettera che accompagnava il contenuto del pacco e ho più o meno capito di cosa
si tratta, ma mi chiedevo se non ci fosse stato un qualche tipo di errore di
invio. Nel destinatario, intendo » specificò.
« Che tipo di errore? » chiese il suo
interlocutore in modo condiscendente, suonando fin troppo calmo per i gusti di
John, che invece aveva ancora un fondo di irrequietudine.
« Mi riferisco alla
data, nello specifico » rispose John,
sperando che il sedicente notaio Nathan Whale potesse
arrivarci da solo.
Passò
un istante, prima che John ricevesse la risposta, e chissà perché immaginò che
il ragazzo stesse sorridendo: « non c’è nessun
errore, dottor Watson. Il testamento Doyle è una
sottospecie di leggenda nel nostro studio a causa della sua longevità; risale
all’epoca di mio nonno e del suo socio. Le assicuro che il signor Arthur Conan Doyle è deceduto il 7 luglio del 1930 ed il testamento
letto il 12 luglio del medesimo anno, lo stesso giorno in cui è stato
controfirmato dal figlio Adrian l’atto notarile che
accompagna il pacchetto che le è stato recapitato. Il signor Doyle diede precise istruzioni, nelle sue ultime volontà,
di conservare e non aprire mai l’oggetto fino al 16 giugno 2011, data in cui
sarebbe dovuto essere recapitato al dottor John Hamish Watson. Ovvero lei » disse, facendo
una breve pausa prima di riprendere: « ovviamente
abbiamo controllato, prima di inviarglielo. Lei esiste ed è reperibile, dunque
noi abbiamo ottemperato a ciò per cui siamo stati pagati » concluse, la voce
calma e quantomeno suadente, probabilmente abituato a parlare con professionalità
ad ogni suo cliente.
John
era sempre più confuso, ma non lo diede a sentire: « non metto in
dubbio la vostra professionalità, ma non è semplicemente possibile, mi creda ».
« Per quale motivo? » chiese subito
l’altro.
« La data! » ribatté subito
Watson, ripetendosi: « lei continua a
dirmi che questo signor Doyle ha fatto il mio nome
nella stesura del proprio testamento, ma io non ero ancora nato nel 1930! » esclamò, ora
preda di una sorta di rabbia agitata.
Un
momento di silenzio intercorse fra loro, prima che Whale
riprendesse la parola: « tuttavia, le informazioni fornite su di lei
sono corrette, dico bene? » domandò – John
sentì uno sfrigolio di fogli dalla cornetta prima che l’altro continuasse il
discorso: « lei è il dottor John Hamish Watson, laureato
alla London University, ha fatto il tirocinio
formativo al St. Bartholomew Hospital di Londra, si è
arruolato nel Quinto Fucilieri di Northumberland e ha
combattuto in Afghanistan con il grado di Capitano, dico bene? » chiese conferma.
« Sì, è giusto,
ma... »
Venne
interrotto. « Allora le informazioni in nostro possesso
non sono errate ».
« Ma sono
impossibili! » insistette John: « nel 1930 non era
nato nemmeno mio padre! E io sono del ’77! ».2
Un
sospiro riempì la cornetta, al quale John capì di non avere speranza di
convincere quel giovane notaio.
« Senta... » cominciò Nathan: « sono convinto anche io che la situazione sia
strana, ma il nostro compito era consegnarle quel pacco. Punto. Lei esiste ed è
tutto come ci è stato lasciato scritto, dunque il nostro lavoro è concluso » disse risoluto,
facendola risuonare davvero come l’ultima cosa che avrebbe detto.
In
tutto ciò, John non ci aveva guadagnato nulla se non l’essere ancora più
disperso ed emotivamente instabile di prima. Perché non era solo il lutto a
scombinargli la giornata, ma adesso anche l’inquietudine tangibile di un uomo,
supponiamo profeta o chissà cosa, che nel 1930 decide di inviargli un pacco e
sa già tutto di lui ancora prima che sia nato.
Sospirò
a sua volta, scuotendo il capo. « Va bene... va bene. Mi scusi se le ho
fatto perdere tempo » si congedò,
chiudendo la chiamata solo dopo i saluti dell’altro.
Appoggiò
il cellulare sul tavolo, massaggiandosi con pollice e indice della mano
sinistra l’attaccatura del naso. Riaprì gli occhi solo dopo che il mal di testa
fu diminuito, puntandoli subito sulla scatola lucida che due notti prima aveva
richiuso ed abbandonato sul tavolo.
La
riprese fra le mani in un movimento lento, aprendone il coperchio ed estraendo
i due oggetti che conteneva.
Si
focalizzò prima sull’orologio da taschino, che aprì attraverso il bottone sulla
sua sommità, posizionato sotto l’anella da cui partiva la catena. Il quadrante
era di un bianco sporco, probabilmente ingiallito dal tempo, ed il vetro aveva
qualche graffio al centro. Le lancette nere erano sottili ed avevano una
rifinitura finissima sulla punta.
Nessuna incisione né all’interno del coperchio né sulla grancassa. I
numeri erano romani. Ma le cose più strane erano l’assenza di una marca sul
quadrante e una levetta sul fianco, sotto alla chiave di carica, ferma a metà
fra due estremi contrassegnati dalle lettere minuscole “d” e “m”.
Ovviamente
non funzionava, ma John suppose che, essendoci una chiave di carica, andasse
caricato.
Provò
a caricarlo ma niente, non funzionò. L’orologio rimase immobile.
Probabilmente
era un cimelio, un oggetto di valore affettivo. La domanda “perché darlo a me”
si formò velocemente ed immediatamente nella sua mente ma, come per tutto il resto,
non sapeva darle risposta.
Richiuse
e posò l’orologio da taschino, prendendo invece in mano il taccuino di pelle.
Aveva le dimensioni di un’agenda moderna e, aprendolo, John scoprì che era
tutt’altro.
Era
un diario.
Riconobbe
la scrittura fine ed ordinata del biglietto che accompagnava gli oggetti,
disseminata per pagine e pagine ed inframmezzata da disegni e schemi, note e
cancellature. La maggior parte delle volte le pagine erano scritte in
inchiostro nero, altre con l’inchiostro blu.
Come
se non bastasse, nell’angolo in basso a destra della copertina di pelle erano
incise in oro le iniziali H.W.H., come quelle del
fazzoletto e del messaggio.
“H.W.H.” e “Arthur Conan Doyle”
non andavano d’accordo, in fatto di iniziali. Doveva supporre che gli oggetti appartenessero
a un’altra persona e Conan Doyle li avesse avuti in
consegna? Sembrava la spiegazione più logica.
Stranito
dalla faccenda, cominciò dall’inizio, ovvero da dove si cominciavano tutte le
cose.
Aprì
la prima pagina e si preparò alla lettura partendo dalla data.
« “10 agosto ‘31” » lesse in un
sussurro.
Fissò
l’anno con particolare interesse, aggrottando le sopracciglia e la fronte in
un’espressione pensierosa.
Il
1931? Non poteva essere possibile. Nathan Whale gli
aveva confermato che il pacchetto sigillato era in possesso dello studio legale
dalla morte del signor Doyle, avvenuta a luglio del
1930. Anzi, probabilmente lo avevano in consegna già da prima, ovvero
dall’ultima volta in cui Arthur aveva dettato testamento.
Passò
rapidamente alle ultime pagine del diario, osservando che l’ultima data
riportata era il 22 maggio ’36.
Allora
1831, un secolo prima. Sembrava strano, però, perché il taccuino aveva le
pagine molto sottili e di carta pulita e di buona fattura, cose che la prima
metà del diciannovesimo secolo non sapeva ancora offrire. Tuttavia era la più
plausibile.
Divorato
dalla curiosità, cominciò a leggere.
• 10 Agosto ‘31
Papà continua a
dirmi che studiare a Oxford non è altro che un onore, che è fiero di me, che
tutti in famiglia sono fieri di me e che anche mio padre sarebbe fiero di me.
Lo so, che lo sarebbe, se fosse ancora con noi. Ma so anche che non lo sarebbe
se sapesse che, per studiare ad Oxford, sono obbligato a lasciare papà da solo
e a vederlo solo durante le vacanze e alla fine di ogni semestre; Oxford
pretende una vita collegiale.
Non voglio
lasciare papà. Dopo la morte di mio padre non è più lo stesso, anche se fa del
suo meglio. È distratto ed assente, passa pomeriggi interi seduto a guardare
fuori dalla finestra e non mi serve essere un medico per capire che è depresso.
Lo sa anche lui, ma non fa nulla per cambiare la situazione. Per questo non
voglio lasciarlo solo.
Arrivato
alla fine della prima entry, John si accorse subito che qualcosa non quadrava.
Il
linguaggio era troppo spigliato, troppo colloquiale, troppo... moderno. E poi
sembrava che parlasse... di due persone diverse, riferendosi a “papà” e “mio
padre”. Presupponeva una famiglia composta da due padri? No. Impossibile. Non
sarebbe potuto succedere nel 1831. Ricordava molto bene lo scandalo Oscar Wilde
dai libri di letteratura ed erano addirittura i primi anni del 1900. Le
relazioni omosessuali erano un reato, figuriamoci le famiglie.
Quel
diario non poteva essere stato scritto nel 1831, ma era anche impossibile che
fosse stato scritto nel 1931.
Non
ci stava capendo più niente. Il linguaggio usato sembrava addirittura del
ventunesimo secolo, ma questo avrebbe fatto sì che la data fosse il 2031 e
questo no, non poteva proprio essere. Questo significava essere pazzi, andati,
completamente fuori di testa.
« Forse lo sono sul
serio » commentò
amaramente, richiudendo il taccuino e ributtandolo senza grazia nella scatola
insieme al resto della roba.
Cinque
anni di università. Uno di tirocinio formativo. Due di specializzazione in
chirurgia d’urgenza. Uno di addestramento e altri sei passati in guerra.
Sapeva
riconoscere ad occhio praticamente ogni malattia respiratoria. Tutte le più
comuni infezioni. Sapeva rimuovere un proiettile, medicare, disinfettare, e
suturare (o cauterizzare se necessario) una ferita d’arma da fuoco in meno di
quattro minuti (cronometrabili). Aveva richiuso addomi, riposizionato fegati e
varie interiora, suturato arterie alla luce di una torcia elettrica, tagliato
dita e segato ossa e ricucito praticamente ogni centimetro d’epidermide che può
ricoprire un essere umano adulto e con una divisa addosso. Era stato nel bel
mezzo di un focolaio di Tubercolosi. E di Dissenteria. Aveva rimosso delle
schegge di mortaio dal culo di almeno venti uomini.
E
lavorava come segretario per un chirurgo plastico.
Aveva
fatto domanda d’assunzione praticamente in tutti gli studi medici di Londra, ma
nessuno sembrava interessato ad assumerlo. Aveva evitato gli ospedali per lo
stesso motivo.
Il
perché era presto detto (o letto): Sherlock Holmes. Il nome “John Watson” era
famigerato quasi come quello di Holmes e, dai, andiamo, chi vorrebbe il compare
di un impostore come medico? Probabilmente Sarah lo avrebbe ripreso, ma non
poteva vivere sostituendo medici in gravidanza o coprendo qualche turno di
notte una volta ogni tanto – e Sarah non aveva mai avuto altro da offrirgli, in
ambito lavorativo. E poi sarebbe stato strano, e snervante. Non voleva in giro
gente che conosceva, era meglio.
Alla
fine, il dottor Kolstoj lo aveva assunto come suo
segretario. Era un chirurgo plastico in ascesa e, per il momento, aveva ancora
un buon carattere e un’altrettanto buona cura della propria reputazione. E
soprattutto se ne fregava delle voci ed era una di quelle persone che badano di
più ai fatti.
Dunque,
passava 12 ore al giorno rispondendo alle telefonate, prendendo appuntamenti e
sistemando cartelle cliniche in pile ordinate alfabeticamente e
cronologicamente per anno.
Si
era detto che era meglio di niente. Meglio della fame. Meglio di prima.
Sospirò
quando anche l’ultima paziente della giornata entrò in ambulatorio, appoggiando
la penna e massaggiandosi la mano con cui aveva scritto per tutto il dannato
giorno. Non era più abituato.
Doveva
ancora finire di compilare due cartelle mediche, ma per il bene del suo tunnel
carpale decise di prendersi una pausa. Nonostante fosse un segretario era
costretto ad indossare una divisa blu da infermiere e, anche se sotto portava
una maglietta a maniche lunghe, aveva comunque un perenne freddo alle ossa.
Allungandosi
verso il cassetto della scrivania, ne estrasse il diario. Ne leggeva piccole
parti ogni giorno appena poteva, e aveva scoperto una storia interessante man
mano che proseguiva; a quanto sembrava, il detentore del diario aveva sul serio
due padri, ma era orfano da poco di uno di loro. Era inoltre alle prese con una
carriera brillante ad Oxford che lo lasciava perennemente preoccupato per il
padre – quello dei due che veniva chiamato “papà” ed era ancora in vita –
perché, nonostante cercasse di tornare a casa appena poteva, lo vedeva sempre
meno in forma.
Li
aveva invidiati, John, ad un certo punto. I due padri del diarista. Dovevano
amarsi davvero molto, se uno dei due sembrava soffrire così tanto per la morte
dell’altro.
Per
un momento pensò a Sherlock, ma scacciò il pensiero prima che divenisse più
profondo (e triste).
Appoggiandosi
con la schiena allo schienale della poltrona, sfogliò le pagine fino alla
quarta entry.
•
27 Novembre ‘31
Ho chiesto il
trasferimento alla London University. Papà e lo zio
non ne sono affatto felici (soprattutto lo zio). Mi ha fatto una lavata di capo
sul nome di famiglia, cosa che non mi sarei mai aspettato da lui.
Probabilmente, se ci fosse stato mio padre avrebbero litigato (di nuovo). Papà lo
aveva sempre apostrofato come “faida puerile”.
Mi manca, mio
padre. Se lui fosse qui, papà sorriderebbe di più. Non lo vedo bene
ultimamente.
Comunque il
Rettore di Oxford mi ha fatto un discorso molto concitato, lungo 40 minuti,
riguardo alla possibilità di rimanere in facoltà. Anche dopo che gli ho
ripetuto le mie motivazioni ha insistito, dicendo che papà si sarebbe potuto
trasferire appena fuori dal campus. Ho negato categoricamente. Papà non avrebbe
mai accettato di andare via da casa – dalla nostra casa, dalla loro casa – altrimenti lo avrebbe già fatto e io
non voglio forzarlo. Tutti i ricordi di mio padre sono lì dentro, per lui...
La London mi ha
accettato senza problemi e mi ha anche riconosciuto gli esami già dati. Secondo
loro sono avanti rispetto alla media degli studenti, tanto che potrei laurearmi
in anticipo e puntare all’eccellenza. Ed è esattamente quello che voglio fare.
Si
era chiesto quanti seni vedesse il dottor Kolstoj
ogni santo giorno.
E
quanti sederi. Molti, considerando che aveva sentito dire al medico la frase
“si metta lì in piedi e si spogli” più di quante volte avesse detto
“buongiorno”.
Entravano
molte persone, nel suo studio medico. Moltissime donne e qualche uomo
sufficientemente narcisista da richiedere una rinoplastica o una puntura di botox. Alcune lo facevano per necessità, altre solo per
bellezza e altre ancora (John ne era convinto) per assuefazione. Avevano labbra
talmente piene da sembrare di plastica ed il viso spianato dal continuo uso di
botulino sembrava quello di un manichino. Quel giorno ne aveva vista una
sorridere – o provarci – ed era stato tentato di fermarla per timore che potesse
esplodere qualcosa dalle parti delle orecchie.
Un
paio ci avevano anche provato con lui. Classici trucchi da femme fatale: occhiate fisse, lingua sulle labbra, apertura e
successivo accavallamento di gambe alla Basic Instinct.
Ma
era un uomo professionale. Aveva sempre diffidato delle donne che ricorrevano
alla chirurgia plastica e, fra il lavoro e rischiare di trovare un paio di
labbra a canotto sotto ad un cervello da gallina, aveva preferito il lavoro.
• 8 Aprile ‘32
A quanto pare la
capacità di lamentarsi per ogni piccola cosa è parte integrante dell’esistenza
di ogni professore, non importa a quale grado scolastico insegni.
Se tu scrivi in
modo sbagliato una formula e sbagli il problema davanti a cento studenti, non è
colpa mia. Nemmeno se ti correggo ad alta voce e, sfidato, vinco il confronto
risolvendo il problema in metà del tempo, non è colpa mia. Non è nemmeno colpa
mia se sto seguendo lezioni del secondo anno a sette mesi dalla mia iscrizione:
dannazione, gli esami del primo li ho già dati tutti, cosa devo fare, girarmi i
pollici?
A quanto pare il
Rettore non era d’accordo con me. Oppure il Rettore è semplicemente dalla parte
dei suoi insegnanti a causa di vincoli monetari e/o di prestigio. Queste cose
non cambiano mai.
...l’ho detto a
papà. Lui... lui mi ha appoggiato la mano sulla testa e ha detto che devo
ancora imparare ad essere più calmo ed educato.
Tutto qui.
Nessuna lamentela,
nessuna sgridata. Me le faceva sempre, anche al liceo, anche dopo. Prima che
morisse mio padre, per lo meno.
Si sta spegnendo.
E io non so cosa fare.
Le
cose su Londra che c’erano da sapere, John Watson le sapeva tutte.
Dove
comprare cose. Dove vedere gente. Dove trovare piaceri.
Una
persona, ad un certo punto, queste cose viene a saperle e basta.
Con
una Oyster3 arrivare a Soho non è un problema nemmeno alle due di
notte. Alle due di una notte insonne. Alle due di una notte divenuta insonne
perché costellata di incubi.
Andavano
e venivano a seconda della stanchezza. Dormiva tre ore per notte finché non era
esausto e, quando la mente non riusciva più a tenere il passo con la veglia,
crollava sul divano non appena rientrato a casa e dormiva anche per dieci o
dodici ore di fila.
Cominciava
a non riconoscere più gli orari dei pasti, e a dimenticarseli. Non ricordava
mai se aveva mangiato, cosa aveva
mangiato e se il frigorifero era vuoto o pieno. Gli sembrava di vivere a
cavallo fra realtà e dormiveglia, oppure fra realtà ed incubo.
Quella
notte, Sherlock era venuto a trovarlo. Gli aveva detto addio per l’ennesima
volta e, per l’ennesima volta, si era buttato dal tetto del Barts.
Era stanco di mangiare asfalto ogni notte, asfalto che sapeva di sabbia, e
l’odore del sangue che era sempre lo stesso indipendentemente dal sogno.
Era
stanco e basta.
Il
club si chiamava “The Eden’s Apple” e, nonostante
l’insegna al neon rossa un po’ consunta e l’aspetto stropicciato e smunto
dell’entrata, era il locale più raccomandabile e “pulito” della sua specie. Lo
aveva frequentato in gioventù insieme ad alcuni amici dell’università che lo
avevano introdotto per primi ad un tipo di piacere che non richiedeva cene,
avances, parole dolci o tentativi seri di relazione.
John
non voleva niente di tutto ciò, in quel momento. L’unica volta in cui l’idea di
trovarsi una brava ragazza lo aveva sfiorato, il pensiero “tanto Sherlock la
farà scappare prima di un mese” era arrivato prima del ricordo del fatto che
l’amico fosse morto. E John sapeva cosa voleva dire: era fottuto.
Il
consumismo era un buon ripiego. Sesso senza domande. Senza spiegazioni,
riguardi, rimorsi. Voleva qualche ora di pace dai suoi incubi, era chiedere
troppo?
Entrò
nel locale guardandosi discretamente intorno, il colletto del giubbotto nero
alzato contro il vento e la pioggerellina fine. Fece un cenno di saluto al
portiere passandogli una banconota da 50 sterline, lasciandosi perquisire dal
buttafuori in cerca di armi o droga – normale amministrazione.
Una
volta dentro, la musica assordante lo colpì con violenza. L’Eden’s Apple era una discoteca
nonostante il servizio principale fosse un altro, ovvero quello nascosto dai
separé sulla destra, verso i quali John si diresse senza nemmeno fermarsi al
bar per prendere uno (o due) drink.
Con
le mani in tasca percorse velocemente il breve tragitto che lo separava dai
separé con disegni orientali di uccelli dalle lunghe code, dietro ai quali vi
era una porta che aprì e poi si richiuse alle spalle.
Si
fermò all’inizio di un corridoio con dodici porte nere, sei per lato, davanti
alcune delle quali erano appoggiate ragazze di diverso aspetto e a malapena
vestite; sorridenti ed ammalianti nei loro babydoll di seta o nella biancheria
nera di pizzo, tacchi alti e profumi sensuali sui polsi e sul collo. Le stanze
già occupate avevano la porta chiusa, ma i muri non permettevano di coprire suoni
e gemiti come faceva invece il rimbombo della musica della sala accanto. L’aria
era calda, bollente, e John si sentiva già addosso un velo viscoso ed
appiccicaticcio di sudore misto ad incenso.
Aveva
un tipo, John. Bionda con gli occhi azzurri. Rebecca, la prima con cui era
andato ai tempi del liceo, era esattamente così: bionda e con gli occhi azzurri.
Era stata la sua preferita per molto tempo, almeno finché non si trovò
finalmente una ragazza fissa e ci diede un taglio con i sabato sera all’insegna
della frenesia pura.
Ora
non era più un giovane ragazzo, ma sapeva benissimo che a quelle ragazze non
importava. Era il loro lavoro, accontentare tutti. Se non lo avessero voluto lì
dentro lo avrebbero bloccato direttamente all’entrata. Il lavoro del portiere e
del buttafuori, in realtà, era proprio quello.
Si
diede una breve occhiata intorno, passando in rassegna i volti e le
caratteristiche di ogni ragazza. Cinque di loro erano libere e, fortunatamente,
fra le cinque nessuna era il suo tipo. Passi i capelli biondi, ma aveva un
problema nuovo di zecca con gli occhi azzurri. E non poteva di certo chiedere a
sé stesso lo sforzo di osservarne un paio intrisi di piacere e malizia sotto di
sé fra le lenzuola. No, non poteva proprio.
Mora
con gli occhi castani sarebbe andata benissimo. Fece attenzione a sceglierla
con i capelli lisci, però.
« Ciao dolcezza... » miagolò la sua
prescelta quando John si avvicinò, le mani ancora nelle tasche della giacca,
l’espressione di un abituè che tale non era davvero
(era semplicemente la sua espressione disillusa e delusa dalla vita, quella).
« Ciao » si sforzò di
rispondere John, prima di cominciare una rapida trattativa: « qual è il tuo
prezzo? » domandò.
La
donna sorrise, sensuale, portandosi una ciocca di lunghi capelli lisci dietro
la spalla con un movimento aggraziato della mano. « Ciò che hai
pagato all’ingresso » gli rispose.
Lo
presumeva. « Già, sì... certo.
Ma sappiamo tutti e due che certi servizi non sono compresi in quel prezzo » ribatté.
La
donna sorrise ancora più maliziosa di prima. « Dipende da cosa vuoi, tesoro » mormorò,
passandogli un dito sul petto lungo i bottoni della camicia: « per l’anal, c’è un supplemento di quaranta sterline. Venti se
vuoi un lavoretto di bocca. Saliamo a sessanta se hai particolari tipi di fetish, o per il bondage, ma non
faccio total bondage. E poi, beh... » una piccola pausa
in cui si avvicinò a lui, facendo attenzione a sfiorargli l’orecchio con le
labbra, da vera esperta, mentre sussurrava: « ...per altri tipi di divertimento, si
arriva anche oltre i cento ».
Il
medico respirò il suo odore vanigliato e lo trovò francamente stomachevole. Ma
era sicuro che entro dieci minuti si sarebbe dimenticato sia il profumo che il
proprio nome. Quello di lei non voleva saperlo.
« Quale tipo di divertimento? » domandò, a sua volta
in un sussurro, osservandola attento mentre, a pochissimi centimetri da lui, si
faceva scivolare due dita della mano destra dentro una coppa del reggiseno e ne
estraeva un piccolo sacchettino trasparente con dentro vari grammi di polvere
bianca.
« Cocaina? » chiese John.
Quella annuì con occhi brillanti.
Sherlock. Era una
persecuzione.
Il
medico scosse la testa, occhi chiusi.
Lei
fece spallucce, nascondendo la droga nel pugno chiuso della mano. « Ho diversi tipi
di preservativo, se sei un fanatico » disse poi, leccandosi le labbra in un
modo quasi osceno.
« Ho i miei » tagliò corto
John, diffidente. « Hai qualcosa in
contrario al sesso violento? » domandò però subito dopo, sguardo fermo negli occhi
di lei che gli rispose con un sorrisetto.
« Il mio
preferito... » ribatté lei,
lasciva.
Estrasse
dalla tasca sinistra del giubbotto una banconota da venti che la donna prese
con un sorrisetto, accarezzandogli le dita con le proprie.
« Vuoi che chiami
il tuo nome, mentre vengo? » domandò lei.
John
sogghignò. Era disperato, non un povero illuso.
Non
le rispose e lei non se ne lamentò. Gli fece solo segno di accomodarsi
all’interno, precedendolo ancheggiando.
Watson
sentì di gettarsi alle spalle qualcosa di più della dignità, ma non gli
importò. Oblio, questo voleva. La possibilità di fare finta di essere in un
altro posto, in un altro luogo, in un altro tempo.
La
possibilità di non essere più se stesso almeno per qualche ora.
• 21 Luglio ‘32
Il mio professore
di Fisica mi ha voluto con sé all’interno di un gruppo di studiosi selezionati
da tutte le maggiori università della Gran Bretagna. Non ho ancora capito che
tipo di gruppo di ricerca sia, ma so solamente che sono l’unico studente ed il
più giovane di tutti. Suppongo che mio padre ne sarebbe fiero.
Dice di essere
rimasto impressionato dalla mia ricerca sui buchi neri di Kerr
e sull’Orizzonte degli Eventi.5 Mi aveva già detto più volte di
essere impressionato dalle mie capacità in Fisica ed Astrofisica, ma da qui a
farmi fare parte in quello che ha tutta l’aria di essere un progetto super
segreto...
Ho chiesto allo
zio per prudenza, ma stranamente anche lui non ne sapeva nulla. Il che mi sta
dando da pensare.
Molti
pensano che l’orgoglio di una persona si infranga in momenti epici, dolorosi e
pieni di risentimento.
Probabilmente
è colpa dei film americani, che sembrano riciclare all’infinito il cliché del
protagonista urlante sul cadavere del co-protagonista di turno, con le lacrime
agli occhi e la disperazione nelle voce. Forse è per questo che, in
collegamento a certe immagini, la letteratura preferisce descrivere la morte
dell’orgoglio paragonandolo ad un infrangersi di vetri, o di porcellane, o di
qualsiasi cosa possa infrangersi e lasciare in giro delle schegge.
In
realtà non è così. In realtà l’orgoglio è qualcosa di pesante, ferroso, scuro
ed arrugginito. Cadendo non si rompe affatto, fa solo un gran casino. Rimbomba
nel petto come una bomba a mano e la fatica che si deve fare non è quella di
rimetterlo insieme, ma quella di risollevarlo.
L’orgoglio
non si spezza: quello è l’animo umano. L’orgoglio se ne sta sul fondo del pozzo
ad affondare, e più si aspetta più affonda, e più affonda più si fa difficile
tirarlo via.
E
no, l’orgoglio che cade non ha suono se non quando tocca il fondo. Non succede
in momenti epici, non è accompagnato da urla e grida e, per Dio, nemmeno da
lacrime.
John
Watson ne sapeva qualcosa.
La
seconda volta che l’orgoglio di John cadde con un tonfo, lui era seduto sul
letto del suo nuovo appartamento a fissare lo schermo della televisione spenta.
Niente momenti carichi di pathos e scene da protagonista melanconico. Solo un
sospiro e un leggero scuotere del capo.
John
si era sempre creduto un uomo onesto con gli altri, ma poco con se stesso. Tutte
le volte in cui doveva guardarsi dentro ed ammettere di avere bisogno di aiuto,
però, lo aveva fatto. A volte in ritardo, quello è vero – la prima volta che il
suo orgoglio cadde, aveva aspettato un anno prima di provare a tirarlo su di
nuovo – ma fortunatamente era anche uno che imparava dai propri errori.
Non
poteva continuare ad essere solo. Aveva respinto tutti coloro che avevano
tentato di aiutarlo e, nel suo rifiuto, aveva finito per punire persone che,
forse, non centravano niente. O non se lo meritavano.
Non
avrebbe perdonato Mycroft, no, la sua colpa era
legittima. Ma Lestrade... Greg... quale responsabilità poteva avere Greg in concreto? Forse era proprio come uno
di quei soldati che, a Norimberga, dicendo di non avere avuto altra possibilità
se non obbedire dicevano solo la verità.
Gli
mancava. Greg era diventato una sorta di strano amico, peculiare ma sincero, e
si erano riscoperti persone affini, in un qualche modo. Di sicuro potevano
parlare alle spalle di Sherlock Holmes con cognizione di causa, quando andavano
a bere una pinta al pub, e probabilmente erano gli unici a poterlo fare sul
serio. Gli unici che sarebbero stati in diritto di indossare una maglietta con
la scritta “ho frequentato Sherlock Holmes per più di 24 ore e sono
sopravvissuto”.
Sorrise
appena a quel pensiero, John, e questa volta non aspettò che l’orgoglio
marcisse, prima di cominciare ad issarlo. Raggiunse il cellulare e, scorrendo
la lista contatti, arrivò al nome di Lestrade.
Forse,
era il momento di chiedere scusa. Di perdonare.
Di
perdonare almeno Lestrade.
Fece
partire la chiamata.
•
4 Agosto ‘32
Il professor Schneider
mi ha finalmente spiegato a cosa fosse dovuta tutta quella segretezza e,
sinceramente, non ho parole. Non credevo che il Governo Inglese potesse
arrivare a tanto. Ho sentito che al progetto collaborano anche l’Irlanda del
Nord e la Scozia. Tutto il Regno è concentrato su questo progetto che, se
riesce, potrebbe riportare alla nazione i lustri di quando era un Impero temuto
e rispettato da mezzo mondo.
Non so se sono
tutti impazziti o se sono tutti dei geni. Papà dice sempre, però, che genio e follia
molto spesso collimano (e che mio padre ne era l’esempio vivente).
Papà. Con questo,
non potrò mantenere la promessa di prendermi cura di lui. Sarò troppo
impegnato, probabilmente, anche se sarò comunque a Londra, a portata di
telefonata.
Lui è fiero di me.
Lui è sempre fiero di me. Non ricordo ci sia stato un solo istante della mia
vita in cui lui non sia stati fiero di me, nonostante tutti i guai e i problemi
e le liti.
Spero solo che si
riprenda. Ho il brutto presentimento che si stia lasciando andare...
______________________________________________________________________________________
1.
Questi sono tutti dialoghi presi dalla 2x03, gli ultimi minuti, al cimitero.
Siccome non ho avuto il fegato di riascoltarli e tradurli ad orecchio, ho usato
la versione dei sottotitoli di Itasa. E non mi ha
fatto soffrire di meno.
2.
Nonostante l'età di Holmes e Watson sia ancora un argomento parecchio discusso,
alcune teorie danno Holmes nato nel 1854 e Watson nel 1852. Mi informa Wikipedia che le prime avventure, ovvero "Uno Studio
in Rosso" e "Il Segno dei Quattro", sono da datarsi a poco dopo
il 1880, anno in cui Watson è ancora in combattimento. Assumo per buon senso
(che potrebbe fare cilecca) che siano almeno due anni dopo. Ora, secondo i miei
calcoli, Holmes e Watson dovrebbero avere circa una trentina d'anni
(precisamente: 30 Watson e 28 Holmes).
Trasportata
ai giorni d'oggi ammetto di avere alzato l'età probabile di un paio d'anni a
tutti e due, portando Holmes a 30 e Watson a 32 (al primo incontro). È lo
stesso John a dire poi, in "The Reichenbach Fall", che ha convissuto con Sherlock per 18 mesi (un
anno e mezzo); il che porta Sherlock a 31/32 anni e John a 33/34. Facendo un
paio di conti a ritroso dal 2011, Watson mi risulta nato nel 1977 e Holmes nel
1979.
Ricordate
che la matematica non è un'opinione ma io sono in grado di renderla tale ;D
3.
La Oyster Card è una carta ricaricabile che ti
permette di salire su ogni tipo di trasporto nell'area urbana di Londra. Ovvero
tram, metropolitana ed autobus.
4.
La prostituzione in Inghilterra non è vietata. Eh già. Lo è solo se esercitata
in luoghi pubblici e nelle aree urbane, secondo la legge inglese, il che rende
luoghi come L'Eden's Apple perfettamente legali.
5.
Non sarebbe questo il capitolo adatto a spiegare cosa sono i buchi neri di Kerr e l'orizzonte degli eventi (dato che potrebbero anche
essere indizi...) ma dato che esiste Wikipedia e di
sicuro non aggiornerò mai troppo presto, tanto vale iniziare il primo dei
grandi papiri di Fisica Relativistica che chi sarà abbastanza pazzo da
continuare a leggere si beccherà ogni tanto. Esatto, si parla di Teoria della
Relatività, dunque del caro zio Einstein (e seguaci).
Penso
che si sappia cos'è un buco nero, ma per chi non va molto d'accordo con la
Fisica, la spiegazione semplice è che un buco nero sia una stella morta ed
implosa la cui gravità, collassando, ha creato una singolarità in grado di
"risucchiare" tutto: masse, luce e addirittura tempo.
Detto
questo, molti scienziati hanno elaborato delle teorie per capire l'origine di
quella singolarità. La più papabile pare quella di Kerr,
che immagina il suo buco nero causato da più masse rotanti non cariche
elettricamente che creano una singolarità anulare. Banalizzando: immaginatevi
la vera nuziale di vostra madre in scala 20milioni-di-miliardi:1 che gira
talmente veloce da fare collassare la gravità.
Da
qui, l'orizzonte degli eventi è una porzione di spazio che circonda la
singolarità del buco nero in cui lo spazio-tempo viene piegato. Vi risparmerò i termini strettamente fisici, ma praticamente è
quel punto oltre il quale qualsiasi cosa cessa di esistere così com'è, perché
le leggi della Fisica non hanno più senso. (I buchi neri di Kerr
ne hanno 2 di orizzonti, tipo 8D).