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Autore: Yoko Hogawa    04/09/2012    8 recensioni
John, quante volte mi hai già visto morire?
Genere: Angst, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: Tutto ciò non mi appartiene, ma è stato inventato da sir Doyle e successivamente scritturato da Moffat e Gatiss. Non scrivo a pagamento (anche se farebbe comodo XD).

 

Note: E con questo la mia sanità mentale va in ferie.

I credits dell’idea, dell’ispirazione e della follia che mi ha assalito vanno a Steins;Gate, anime splendido. Guardatelo perché merita. Chi l’ha visto si sarà già fatto un’idea 8D

Ci sarà un po’ di Fisica varia, soprattutto paradossi e multiverso, ma farò del mio meglio per spiegare tutto ;D viva le note a fondo pagina.

Gli avvertimenti... beh: Death!Fic, post-Reichenbach, GreatReturn, What if?, Missing Moments, Canon!Sherlock, ACDTribute, Johnlock, Husbandlock e Parentlock tutto insieme in un modo un po’ contorto.

I primi capitoli sono un po’ una noia, ma dopo dovrebbe movimentarsi.

 

E adesso mi fermo XD grazie per aver sopportato le terrificanti note del male.

A chi vorrà, ovviamente, buona lettura

______________________________________________________________________________________________________

 

If you believe or not

 

 

 

 

 

« Addio, John ».

Non è certo di cosa sia quel rumore.

Un respiro che si smorza. Un cuore che si spezza, forse? Il sibilo dell’aria ad un’accelerazione di 9,8 m/s2.

Il suo impatto contro l’asfalto, le sue ossa che si rompono, il suo cranio che si spacca. Un battito di ciglia.

Il rumore del tempo che si ferma. Il boato dell’unico ticchettio d’orologio che ha spezzato il silenzio nel momento in cui l’ha visto precipitare.

Una piccola, semplice, goccia di pioggia nel sangue.

Non lo sa, John, cosa sia quel rumore. John non sa più niente.

John non sa il suo nome, nonostante lo stia pronunciando, sussurrandolo.

« Sherlock... »

Incredulo.

« Sherlock ».

Confuso, rifiuta la realtà. Ciò che gli occhi vedono. Ciò che le orecchie sentono. Ciò che le mani toccano.

I suoi occhi azzurri fissi nel vuoto. I rivoli scarlatti di sangue sulla pelle pallida – ancora più pallida.

L’assenza di battito nel suo polso che tiene fra le dita, nonostante le persone intorno a lui cerchino di impedirgli di toccarlo – lo sorreggono, lo confortano, lo trattengono. Ombre, solo ombre. Non hanno volto, non hanno voce.

John non sa cos’è Dio. Non lo sapeva più da tanto, tanto tempo. Eppure ne pronuncia il nome.

« Oh, Gesù... »

Implorando.

« Dio, no ».

John non sa più niente, ma sa che tra poco ricorderà e vorrà dimenticare ciò che sa.

Teme che non gli sarà permesso.

È l’abitudine della guerra a tenerlo in piedi, l’orgoglio di non mostrarsi ferito, debole, confuso, preda di tutto, padrone di niente. Osserva da lontano una barella sparire dentro al St. Barts e sente solo silenzio – dentro, fuori, ovunque, intorno, ovunque.

John non sa più niente.

 

 

 

 

Era circondato da gente che, per un motivo o per l’altro, non si meritava di essere lì.

Le sedie in acciaio del corridoio dell’obitorio erano scomode come si ricordava. L’unico modo per sedersi con l’illusione di non sentire la schiena piegarsi a fisarmonica era quello di divaricare le ginocchia e scivolare in basso con il bacino. Il dolore lo si sente dopo, al momento di alzarsi in piedi, ma lui prevedeva comunque che non lo avrebbe fatto molto presto.

La gente che non si meritava di essere lì sarebbe entrata prima di lui, lasciandolo su quel pidocchioso tentativo di sedia ad aspettare.

Il corridoio era immerso in un completo silenzio. Bianco, ovattato, dolorante. Un silenzio d’ospedale. Anche quello era uguale ovunque.

L’ultima volta che si era seduto su sedie uguali a quelle, in file identiche a quelle e attaccate con viti grosse a muri che non avevano niente da invidiare a quelli di altri ospedali, aveva Harry a sinistra e sua madre a destra. Portava ancora i pantaloncini con le bretelle e i capelli a scodella. Aveva gli occhi grandi e non capiva perché papà non usciva dalla porta verde: voleva davvero andare a casa ed era stanco e bagnato.

Anche in quel momento John era stanco. E bagnato. Ma non aveva gli occhi grandi e il taglio a scodella; i suoi occhi erano sottili e fissi in un punto vuoto davanti a sé, apparentemente fra il muro e la porta con sopra scritto “Obitorio – vietato l’ingresso alle persone non autorizzate”.

Cambiavano anche le persone.

Alla sua sinistra, Mycroft. In piedi, avvolto da uno dei suoi stomachevoli e costosissimi completi di alta sartoria, ombrello a fianco della gamba con la punta a terra, un cappotto nero a doppio petto chiuso nonostante il riscaldamento acceso. Espressione immobile e imperturbata.

Alla sua destra, seduto un paio di sgabelli più in là, Lestrade. L’impermeabile sgualcito sovrastava uno dei suoi soliti abiti da lavoro neri a taglio classico, non troppo costosi ma non di seconda mano. Agitato. Muoveva ritmicamente il piede appoggiato al ginocchio dell’altra gamba e le labbra erano strette nell’espressione che la gente fa quando è a disagio.

Il traditore e il codardo. Chi lo aveva venduto e chi non gli aveva creduto abbastanza. Il fratello e l’ispettore.

Che diritto avevano, loro, di vederlo prima di lui? Quale diritto? Perché contavano sempre e solo i pezzi di carta, in quelle occasioni?

Mycroft aveva il diritto d’entrare prima di lui perché era un parente. Il parente. Sarebbe rimasto in piedi a guardarlo senza dire niente, senza l’ombra di un emozione se non il rammarico, due minuti in totale forse meno, e poi se ne sarebbe andato con quel suo fastidioso passo cadenzato frammezzato dal ticchettio metallico della punta dell’ombrello sulle piastrelle.

Poi sarebbe entrato Lestrade, perché c’era un’indagine in corso. Perché Sherlock era un fuggitivo, dopotutto. Perché, come al solito, Scotland Yard doveva chiarire una faccenda in cui non c’era più niente da chiarire. Greg sarebbe entrato, lo avrebbe riconosciuto, avrebbe sentito recitare a memoria causa della morte e dichiarazione di decesso, avrebbe preso atto dell’ovvio tralasciando tutto l’importante. Cinque minuti, e poi sarebbe uscito di nuovo e se ne sarebbe andato, forse fermandosi a guardare lui, forse ricordandogli che aveva preso a pugni il Soprintendente Capo. Più probabilmente avrebbe avuto pena di lui e l’avrebbe lasciato stare.

E dopo, solo dopo, sarebbe toccato a lui, entrare a salutare Sherlock.

Lui che aveva creduto fino alla fine – e ancora credeva. Lui che aveva corso con lui, che lo aveva seguito in manette, che gli aveva tenuto la mano, che aveva convissuto con il suo genio e la sua eccentricità, che lo aveva visto vacillare e rialzarsi in piedi, che aveva avuto il coraggio di sopportare e l’onore di essergli amico.

Lui che sapeva come amava prendere il tè ed il caffè, che aveva imparato a decifrare il suo umore dal pezzo suonato con il violino alle tre di notte, che gli aveva impedito di riprendere a fumare, che lo aveva accompagnato ovunque volesse portarlo con sé.

Lui che aveva riavuto la vita dalla persona che se l’era tolta, lo avrebbe visto solo dopo. Perché lui non era niente.

Per gli occhi della legge, gli amici non sono mai niente.

Non era giusto.

Voleva essere egoista, per una volta. Ammettere a se stesso che la persona più meritevole di entrare per primo, lì dentro, era lui, John Watson. Perché loro erano diventati Watson-e-Holmes. Sherlock-e-John. E non era giusto che quella congiunzione che univa i loro nomi non potesse unire anche le loro volontà.

Non era giusto che gente che lo aveva venduto al nemico, gente che lo aveva lasciato da solo nel momento del bisogno, lo vedesse prima di lui, che non lo aveva tradito mai e mai lo aveva abbandonato.

Non riusciva a capire dove fosse la giustizia, in tutto quello.

Strinse le arcate dentarie l’una contro l’altra talmente forte che sentì i muscoli della mascella tremare e il labbro superiore scoprire i denti. Una rabbia imponente e profonda annebbiargli la vista come, forse, avrebbero dovuto fare le lacrime che non aveva ancora versato. Strinse l’una nell’altra le mani che teneva unite in grembo, facendo sbiancare le nocche e tremare i nervi sotto la pelle. Imponendosi una calma che non aveva, un contegno che non desiderava.

Ma c’era il suo migliore amico, di là, e stava dormendo, per una volta. Non poteva svegliarlo.

La porta si aprì senza nessuno scricchiolino, solo il rumore della maniglia a riempire l’aria statica e silenziosa. John non si era chiesto che coraggio avesse avuto Molly a fare quell’autopsia, ma quando vide i suoi occhi castani rossi e gonfi e residui di lacrime lungo le guance capì che ovunque fosse stato quel coraggio, lo aveva ormai perso.

« Signor Holmes... » chiamò piano, la voce bassa e rotta, scostandosi dalla porta per lasciare lo spazio a Mycroft.

Molly e John si guardarono, per un istante. Disperazione nel vuoto. E non era John, quello disperato.

La patologa distolse subito lo sguardo, come bruciata. John si chiese cosa c’era di così brutto, sporco, rotto nei suoi occhi da poter fare quell’effetto. Ma smise di farsi quelle domande inutili nel momento in cui, con due passi e senza emettere alcun suono, Mycroft Holmes si prese il suo diritto di vedere per primo il fratello.

Il silenzio calò di nuovo nel corridoio.

Lestrade si mosse a disagio sulla sedia, appoggiando ora entrambi i piedi a terra. Si girò in sua direzione. John non lo calcolò minimamente.

Prese fiato, Greg. Parlò. Forse tranquillizzato dal fatto che fossero soli, che si conoscessero, che fossero amici.

« John... » cominciò, indeciso.

Watson non si mosse di un millimetro.

No, Greg, pensò. No.

« John, senti, io volevo... Dio, non lo so cosa volevo fare » disse, sospirando e passandosi le mani nei capelli brizzolati.

Non dire quella parola.

« Forse volevo... »

Non osare dire quella parola.

« ...scusarmi ».

Il pugno di John scattò così veloce e potente, che quando colpì con un rumore sordo di metallo e ossa la sedia alla sua destra l’ispettore sobbalzò. John continuava a guardare avanti, il volto deformato in un’espressione di pura ira, il braccio teso verso l’esterno con il pugno chiuso quasi incassato nel poggia schiena del seggiolino, tanta era stata la forza di quel colpo. Lestrade tacque.

La porta si aprì di nuovo.

Due minuti esatti, come John aveva immaginato. Mycroft uscì dall’obitorio, lanciò un’occhiata sia a lui che a Lestrade (John non la restituì) prima di andarsene – passi cadenzati frammezzati dal ticchettio in metallo della punta dell’ombrello sulle piastrelle.

« Ispettore, prego... » sussurrò Molly, indicandogli la porta.

Greg lo guardò ancora un istante, prima di alzarsi e seguire la patologa in sala autopsie. John rimase solo.

Non ne aveva voglia. Sapeva cosa c’era oltre quella porta, cosa avrebbe trovato, cosa avrebbe visto.

Ne aveva visti tanti. Con o senza divisa, con o senza sangue, con o senza parti del corpo. Troppi. Era stato l’unico del corso a non svenire alla sua prima autopsia, l’unico dei commilitoni ad avere il fegato di chiudere decine di cadaveri al giorno in sacchi di plastica nera ed ammucchiarli in una tenda raffreddata a malapena, l’unico a sopportare la puzza della decomposizione per riportare in patria qualcosa che la famiglia di quei poveracci avrebbe potuto seppellire ed onorare.

Sapeva cosa c’era oltre quella porta. Ma questa volta, questa immagine, non voleva proprio vederla.

Non aspettò i cinque minuti di Lestrade. Il suo turno non arrivò mai.

Semplicemente si alzò e, con lo sguardo basso, si mise le mani in tasca e camminò lungo in corridoio in direzione dell’uscita.

Non ce la faceva, a dirgli addio. Non ora.

Non ancora.

 

 

Sherlock non credeva in Dio. In realtà, Sherlock non credeva in niente che non fosse se stesso. Era agnostico (o forse era solo uno scienziato, chissà).

A John piaceva pensare che fosse per quello, che il funerale si svolse con rito civile. Non perché era un suicida.2 Non perché era un impostore.

Lo celebrarono al mausoleo di Highgate, un manipolo di persone vestite di nero sotto ad ombrelli neri. Un funzionario incaricato dal Governo recitò le frasi di rito, dando alla bara di legno nero tutti gli onori che poteva conferirgli – pochi, troppo pochi rispetto a quelli che meritava davvero – e li accompagnò a passo lento fino al luogo scelto per seppellirlo: un pezzo di giardino dall’erba verde, un po’ isolato, ai piedi di una collinetta, invisibile dal sentiero, introvabile se non si cerca e se non si sa che è lì.

Da solo, praticamente. Odiò Mycroft anche per questo.

Erano poco più di dieci e John sentiva che solo Molly, Mike Stamford e mrs. Hudson avevano davvero il diritto di essere lì. Non Mycroft, che teneva l’ombrello calato sugli occhi. Non Lestrade, che si mordeva il labbro con gli occhi lucidi e non sapeva se guardare la tomba, la lapide o l’uomo che parlava. Non gli esigui agenti di Scotland Yard che John sapeva di aver già visto in giro per la centrale. Voi lo avete tradito, lo avete insultato, gli avete dato dell’assassino infanticida e rapitore, CHE DIRITTO AVETE?! Avrebbe voluto urlare, ma era una persona di rispetto e il suo migliore amico stava dormendo, davanti a lui, in quella bara. Non poteva svegliarlo.

Gli addetti delle Pompe Funebri sistemarono la bara sulla fossa, pronti a calarla. Il bouquet di gigli bianchi stava cominciando a disfarsi a causa della pioggia, che gonfiava d’acqua la spugna per fiori che teneva insieme la composizione, ammorbidendola e facendole perdere presa. Non se ne accorse nessuno, solo John, e ovviamente solo a lui suscitò un incredibile squallore.

John non aveva ancora pianto. Non aveva ancora urlato, non si era arrabbiato, non aveva ancora buttato a terra niente o rotto qualcosa con l’intenzione di farlo. Non pianse nemmeno ai piedi della fossa, con la lapide di marmo nero e lettere dorate così nuova e così sgradita alla vista, mentre mrs. Hudson singhiozzava ancorata al suo braccio sinistro e Molly si nascondeva il volto fra le mani a pochi passi sulla sua destra. Nemmeno quando il funzionario chiese se ci fosse qualcuno intenzionato a dire due parole, ad accompagnare con qualche aneddoto la discesa della salma, e le teste di tutti si girarono in sua direzione, in attesa.

John li ignorò. Non era la vedova di nessuno, tanto meno di Sherlock Holmes.

Non era ancora il momento.

Poggiò la mano destra, quella libera, su quella di mrs. Hudson appoggiata al proprio braccio. Le lasciò l’ombrello con un lieve sorriso. Poi, voltando le spalle sia alla bara che a tutti gli altri, si incamminò sotto la pioggia verso l’uscita del cimitero, il passo lento ma il portamento da soldato.

Non era ancora pronto a dirgli addio. Non ora.

Non ancora.

 

 

Aveva aiutato mrs. Hudson a riporre tutte le sue cose negli scatoloni.

Il microscopio e varie lenti e vetrini. Tutta l’attrezzatura scientifica che infestava la cucina negli angoli più inimmaginabili. I becher, le provette, i fornelletti ad alcool, i composti chimici (quelli non pericolosi, gli altri erano stati buttati). Il set di bisturi. Il seghetto per ossa. La sua tazza bianca a righe nere.

Aveva trovato un sacchetto di denti nel frigorifero. Una lingua sotto formalina in mezzo alle salamoie e alla verdura sottaceto. Cartellini con la sua calligrafia sottile caduti da vasi che erano stati ripuliti e riutilizzati. Un suo capello, riccio e nero, incastrato nell’angolo del tavolo.

Mrs. Hudson aveva pianto, ad un certo punto. Lui no. Era ancora troppo presto.

Lo aveva perso – no, se ne era andato – da poco più di quarantotto ore e non capiva, non percepiva ancora la sua assenza. Gli sembrava ancora che dovesse tornare. Che sarebbe piombato in cucina da un momento all’altro in uno svolazzare di cappotto scuro blaterando riguardo ad un caso, o ad un esperimento, o a quanto sono interessanti da osservare gli esseri umani in fila alle Poste. Come se lui non fosse uno di loro – non lo era mai stato ma a quanto pare riusciva a morire come loro, a spezzarsi come loro, proprio come loro (proprio come lui).

Aveva chiuso negli scatoloni tutto il mondo che pian piano lui e Sherlock avevano costruito intorno a loro.

Tutti i suoi libri, i suoi resoconti, i suoi studi, le sue relazioni. Il coltello a serramanico, il tabellone del Cluedo. I quadri con le farfalle e con altri insetti in bella vista sul caminetto. Tolse la batteria al suo laptop e lo chiuse nella relativa valigetta nera, mettendolo nell’armadio della sua stanza insieme al pigiama e alla vestaglia da camera. Insieme al violino, rinchiuso con cura nella sua custodia. Un paio di cartine antitarme ed due giri di chiave.

Scotland Yard aveva ancora il cappotto, e il cellulare. I vestiti che aveva indosso, probabilmente, erano stati buttati. Mycroft gli aveva fatto avere l’orologio da polso, il doppione delle chiavi dell’appartamento, il portafogli. Gli effetti personali che Sherlock aveva con sé e che l’obitorio aveva restituito al parente più stretto.

Mycroft aveva anche precisato che non voleva nulla, della roba di Sherlock, e che sarebbe dovuta rimanere al 221B. Aveva parlato anche dell’appartamento stesso, con mrs. Hudson, ma John aveva smesso di ascoltare. Gli faceva troppa rabbia, che il fratello maggiore non volesse nulla della sua roba, ma al contempo provava soddisfazione al pensiero che le sue mani grassocce e colpevoli non avrebbero toccato niente di suo.

Quando finirono, l’appartamento non aveva più nulla di loro. Sulle mensole erano rimaste solo le poche cose di John, quei pezzi di vita che era così abituato a raccogliere ed impacchettare e che erano sempre quelli, e solo in quel momento il medico si rese conto che tutto ciò che aveva avuto fino a quel momento faceva parte di Sherlock, e che Sherlock non c’era più.

Seduto sulla propria poltrona, un paio di jeans e una camicia a scozzese, a piedi scalzi guardò la poltrona di fronte a sé e si rese conto di quanto fosse vuota. Come l’appartamento. Come tutto il resto.

Dunque, John fece l’unica cosa che era capace di fare quando la vita gli voltava le spalle: le valigie.

Impacchettò le sue cose nei due borsoni che da sempre avevano rappresentato tutto ciò che di sé portava con sé. Svuotò l’armadio, disfò il letto, smontò le tende e le piegò per riporle nella cassapanca. Coprì con lenzuola bianche ogni mobile del salotto e della cucina. Si assicurò di aver chiuso il gas e staccato le prese di tutti gli elettrodomestici. Spense la fiamma pilota della caldaia nell’antibagno.

Non toccò la camera di Sherlock, che rimase esattamente così com’era. Lasciò di sé solo la propria tazza, il maglioncino a righe bianche e blu scuro che non sarebbe più stato in grado di indossare e che non meritava di essere dimenticato sul fondo di un cassetto, e il bastone. Non gli sarebbe servito, lo sapeva: non aveva intenzione di sprecare ciò che Sherlock gli aveva regalato, permettendo alla propria mente di soggiogarlo ancora con il dolore. Non era così debole, vivendo con Sherlock aveva capito anche quello.

La decisione di lasciare anche le sue dogtag fu la più sofferta. Era legato a quegli oggetti da un filo spinato a doppia corda, con un’anima ferita che aveva trovato nell’esercito l’unica ragione di vita, attraverso gli occhi di un uomo che non vede due piastrine con nome, cognome, credo religioso e gruppo sanguigno, ma che piuttosto sente il tremore residuo dei colpi di mortaio e l’odore di sangue e sudore. Ma ciò che stringeva fra le mani non erano altro che ricordi pieni di incubi, e Sherlock era riuscito a togliere anche quelli. Sherlock aveva preso tutto ciò che John reputava immutabile e ne aveva fatto degli aeroplanini di carta.

Fu appoggiando le dogtag sul cuscino di Holmes che lasciò il 221B di Baker Street. Finse che fosse una decisione temporanea, ma sapeva benissimo che non ci sarebbe tornato mai più, che non ne avrebbe trovato mai il coraggio, o la forza necessari. Non senza di lui.

Mrs. Hudson capì.

 

 

« Ci sono cose che avrebbe voluto dire... ma che non ha detto? ».

John guardò Ella e gli mancò la voce.

«» sussurrò.

La pioggia contro i vetri dello studio era l’unica cosa che rompeva il silenzio.

« Le dica ora ».

« No » si rifiutò, la voce che faticava ancora ad uscire.

Si prese un istante per ritrovarla. « Mi dispiace, non ci riesco ».

Scosse il capo e abbassò lo sguardo, sconfitto.

 

 

Aveva rifiutato l’offerta di Mycroft di farsi firmare un assegno per avere un appartamento in una zona decente di Londra, considerando il suo recente trasloco in un ostello – situazione temporanea finché non avesse trovato qualcosa che poteva permettersi. Quando gli aveva chiesto, John, da dove scaturiva tutto quell’altruismo, l’altro aveva sollevato il labbro in quella sua espressione di sufficienza da padrone dell’universo.

« Lei è stato un fedele compagno per mio fratello, dottore. Sarei dispiaciuto se non dovesse continuare la sua vita quantomeno agevolmente » gli aveva risposto.

John aveva fatto fatica a trattenersi dall’esplicare, nel più vivido e diretto turpiloquio da bassifondi militari, dove poteva infilarsi l’assegno, magari arrotolato intorno alla punta del suo prezioso ombrello. Si limitò a dirgli che conosceva un paio di figli di buona donna che potevano pagare bene, per il culo di un signorotto arrogante d’alta borghesia come lui. E non necessariamente evitò di usare il suddetto turpiloquio da bassifondi militari.

Inoltre, John non sapeva quale coraggio aveva avuto Greg ad offrirgli la seconda camera del suo appartamento – ormai vuoto dato che la moglie lo aveva definitivamente lasciato per un insegnante di ginnastica – ma lo sguardo con cui John lo squadrò convinse l’ispettore a salutarlo e a fare dietrofront ancora prima che potesse esprimersi (e no, non gli avrebbe risparmiato niente).

Riusciva a capire l’urgenza che aveva Greg di vederlo, di chiedergli perdono; davvero ci riusciva. I sensi di colpa uscivano dallo Yarder come ectoplasma viscoso e denso, appiccicandosi addosso a lui, e John non aveva voglia, davvero non ne aveva, di sopportare anche quello. Non adesso.

Adesso stava incolpando il mondo, adesso doveva incolpare il mondo, perché il lutto funziona così. Altro che cinque fasi. È infinitamente più semplice: prima ti incazzi con gli altri, poi te la prendi con te stesso, infine dai la colpa al morto perché tanto è morto, dunque è l’unico che della tua colpa non se ne fa davvero proprio niente.

Perciò no, Mycroft, non voglio la tua pietà. Non esiste universo in cui io accetterò mai un pezzo di carta con qualche zero per sciogliere il piccolo nodo che la mia presenza su questa Terra ti ha lasciato da qualche parte – dato che dubito tu abbia un cuore, o una coscienza.

E no, Lestrade, non verrò ad abitare con te per sorriderti e dirti che va tutto bene, che hai fatto solo il tuo lavoro e hai eseguito degli ordini ed eri solo un soldato in una guerra giocata fra Titani. Lo erano anche i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma a Norimberga non gli andò liscia comunque.3

Era arrabbiato, John. Ancora. Dopo cinque giorni dal momento in cui aveva trattenuto il fiato e sperato che fosse tutto un brutto sogno. Dal momento in cui si era rifiutato di vedere il suo cadavere steso su una barella d’acciaio.

Cinque giorni in cui non aveva mai smesso di dire “no” e “non può essere” e “non ci credo”. Una continua lotta tra la parte di lui che aveva accettato il tutto, la parte dura, quella che aveva attraversato la guerra tenendolo in piedi ogni santo giorno, contro l’altra parte di lui, quella che quando morì suo padre si rintanò in un angolo con le mani sulle orecchie e da quell’anfratto non uscì mai più.

E ora si trovava in un monolocale da poco, senza muffa alle pareti o condizioni igienico-sanitarie da terzo mondo ma vuoto e piatto, ammobiliato solo per l’essenziale: scrivania, cucinino, bagno, armadio, letto, lampada da lettura, prese di corrente, stendipanni sul balconcino. Lui, i suoi due borsoni e la nuova vita che doveva cominciare, l’ennesima che aveva pescato dal mucchio quando aveva capito che avrebbe dovuto rifare tutto quanto da capo – un’altra volta.

Sbuffò, chiudendo gli occhi per un istante e tentando di fare una lista mentale di ciò che necessitava di essere fatto.

Il frigorifero era vuoto, la caldaia da accendere, doveva controllare se la doccia era davvero pulita, se c’erano perdite da qualche parte, se i precedenti inquilini non si erano ammazzati a vicenda con un paio di forbici trinciapollo, perché avrebbe giustificato il prezzo così basso di un appartamento all’apparenza messo abbastanza bene.

Doveva fare molte cose, ma l’unica che riuscì effettivamente a fare fu estrarre il suo portatile, collegarlo alla rete elettrica e ad Internet, aprire la pagina d’aggiornamento del proprio blog e restare lì, seduto, immobile a fissare il cursore lampeggiare nel riquadro bianco.

Come appena tornato dalla guerra, non sapeva cosa scrivere. Come a quel tempo, in realtà, di cose da scrivere ne aveva talmente tante che avrebbe potuto riempire la stanza di fogli scritti a mano, tappezzarne pareti e soffitto, e non sarebbe stato abbastanza.

Avrebbe voluto dire di quanto fosse arrabbiato. Furioso. Di quanto Sherlock non meritasse la merda che gli avevano gratuitamente spalato addosso. Dell’uomo che era veramente, nonostante i suoi alti e bassi, la sua eccentricità, le sue stranezze, le sue ossessioni. Voleva raccontare degli attimi in cui facevano colazione leggendo due giornali diversi che poi si scambiavano, del luccichio nei suoi occhi azzurri quando riusciva a dedurre il meccanismo di un crimine o di un rompicapo, di quando cenavano da Angelo e John tentava in tutti i modi di non parlare di morti ammazzati per non spaventare quelli dei tavoli vicini, ma non c’era verso. Aveva un intero mondo di sfumature, John, in quella sua mente: un puzzle fatto di tasselli intagliati a mano ed intrecciati come stoffa colorata a creare qualcosa di unico... qualcosa che non aveva più.

Ne era geloso. E, al contempo, pensava che quelli là fuori non se lo meritassero. Che credessero o meno, nessuna delle persone là fuori, affamate di notizie o semplicemente curiose o forse morbose, si meritava di sapere altro su Sherlock. Era stato denudato della sua vita, preso in giro, trasformato da persona per bene a criminale... no. Nessuno si meritava niente. Ciò che di buono Sherlock Holmes aveva viveva, ora, dentro di lui: e dentro di lui sarebbe rimasto.

Da quella decisione, seguì quella di abbandonare il suo blog. Non aveva intenzione di incontrare di nuovo Ella ma, soprattutto, quel blog esisteva per raccontare di Sherlock, dunque era inutile che continuasse ad aggiornarlo.

Prima di mettersi a scrivere il suo ultimo post, cancellò tutti i messaggi privati che aveva ricevuto senza leggerne nemmeno uno, poi disabilitò i commenti e l’avvertimento automatico tramite mail che gli arrivava in casella quando qualcuno commentava uno dei suoi post.

Infine, cominciò a digitare. E scrisse l’unica cosa che, scavando dentro di sé, trovò la forza di esprimere a parole.

“Era il mio migliore amico e crederò sempre in lui.”

Quando la pubblicò, si rese conto dell’inevitabile.

Quella frase sapeva d’addio... e non solo al blog. Era una sentenza. Era una “cosa fatta”. Stava cominciando a lasciarlo andare.

Deglutendo, chiuse la pagina e cancellò l’indirizzo dai preferiti e dalla cronologia. Inutile, se con una ricerca su Google poteva trovarlo facilmente, ma aveva la convinzione che, comunque, avrebbe fatto in modo di non cercarlo.

Stava chiudendo un capitolo della sua vita. L’ultima cosa che gli rimaneva da fare, era voltare la pagina.

 

 

La prima notte in cui riuscì a dormire per più di tre ore di seguito non fu clemente, con lui.

Sognò il cielo grigio ed una figura scura che si stagliava al suo orizzonte, sul ciglio di un cornicione. Lo skyline di Londra sembrava prenderli in giro entrambi.

Era dietro di lui e lo vedeva di spalle buttare a terra il cellulare. John lo chiamava, urlava, gli pregava di non farlo, di non buttarsi. Sherlock girava piano il volto, sorrideva. Uno di quei sorrisi dolci che John aveva sempre pensato fosse in grado di fare ma che, in realtà, non gli aveva mai visto sulle labbra.

« Addio, John » gli diceva, sbilanciandosi in avanti.

E John scattava, la mano tesa, l’intenzione di prenderlo prima che cadesse, di impedire che avvenisse. Ma quando la sua mano era a qualche centimetro da toccare il cappotto, nel momento in cui era teso in direzione del detective cadente, la prospettiva cambiava e lui si trovava sul marciapiede sotto al Barts, e Sherlock precipitava, e il silenzio si riempiva del rumore delle sua ossa rotte, del suo cuore fermo, del suo cranio spaccato. E John cominciava a correre ma cadeva anche lui, sentendo asfalto sotto le mani e a contatto con il viso, vedendo solo sangue e occhi azzurri fissi nel vuoto, fissi su di lui.

Si svegliò con un principio di tachicardia e fradicio di sudore. La maglietta a mezze maniche gli si era appiccicata alla schiena, sentiva i capelli incollati alla nuca e piccole gocce di sudore corrergli sul collo verso il colletto bagnato della t-shirt.

Respirò profondamente un paio di volte, ricadendo sul letto e mettendosi subito le mani sugli occhi. Mugugnò qualcosa di incoerente mentre ricacciava indietro le lacrime e la paura, cercando di convincere se stesso che non era niente, che sarebbe passato tutto.

Ma aveva già percorso quella strada una volta, e sapeva fin troppo bene che non era così. Prima erano i sogni, le notti passate dormendo poco e male, poi c’era lui che si attorcigliava attorno ad una gamba che marciva e che non riusciva a tenere in mano un bicchiere d’acqua senza rovesciarlo.

Almeno, una volta era la guerra. Era il convincersi che fosse qualcosa di troppo grande da affrontare. Era razionalizzare, trovare un motivo per giustificare tutto quel tormento auto-inflitto.

Questa volta, era solo Sherlock Holmes.

E quello di cui aveva davvero il terrore, era che potesse diventare un supplizio ancora più grande.

 

 

Le cose più semplici erano, in realtà, le più difficili.

Come dover prendere la metropolitana, o l’autobus. Di solito con Sherlock usava i taxi, ma si era trasferito da poco ed era senza lavoro, il taxi era un lusso che faceva meglio a non permettersi. Dunque metro. Dunque autobus.

In mezza giornata, era già andato due volte dalla parte sbagliata. Aveva preso una linea che non doveva prendere. Un autobus che non si dirigeva nemmeno lontanamente nella zona del suo nuovo appartamento. Per mezza giornata, il suo istinto lo aveva voluto portare a Baker Street ed era stato solo per un colpo di fortuna se si era accorto, ogni volta, dell’errore quando era solo a metà strada.

Aveva dovuto fare il giro dei reparti tre volte, da Tesco.

Prendeva latte, uova, formaggio, maionese, yogurt al caffè, tre pacchi di pasta, una confezione di English Breakfast e una di Earl Grey, caramelle alla frutta. Salvo poi accorgersi che aveva preso troppo latte (due litri), troppe uova (una dozzina), un formaggio che a lui non era mai piaciuto, la maionese che usava raramente, lo yogurt al caffè che non era lui a mangiare, troppa pasta per un solo uomo, l’English Breakfast che non era mai stato il suo tè, le caramelle alla frutta quando a lui non piacevano i dolci.

Si accorgeva di aver preso le cose che piacevano a Sherlock e allora tornava indietro, rimettendole a posto o posando gli eccessi. Poi passava al reparto frutta e verdura e dimenticava tutto, e prendeva le mele sbagliate, troppe carote, due buste di plastica per non far entrare in contatto le patate e la mano in decomposizione sul secondo ripiano del frigorifero; si fermava sui broccoli e si chiedeva come cucinarli per riuscire a farli mangiare a Sherlock senza che si accorgesse di cosa fossero.

Poi qualcuno sussurrava qualcosa su di un detective impostore, a qualche scaffale di distanza da lui, e John tornava con i piedi per terra.

Serrava forte le labbra. Tirava su il mento. Stringeva i denti fino a farsi male alle gengive. Rimetteva a posto la spesa.

Usciva da Tesco senza niente in mano.

 

 

Rientrò a casa verso il tramonto con un sacchetto di carta odorante di patatine fritte proveniente da Burger King. Aprì con una delle tre chiavi del suo nuovo mazzo il portone di vetro ed acciaio del condominio, lasciando che si richiudesse alle sue spalle.

Dal vetro della portineria sulla destra, il portinaio lo fermò mentre si puliva le scarpe sullo zerbino. « Ehi, aspetti! Dottor... Wilson? ».4

« Watson » corresse automaticamente John, sospirando. Non gliene faceva una colpa. Nemmeno lui ricordava minimamente come si chiamasse il portinaio, nonostante si fosse presentato il primo giorno in cui aveva messo piede in quel condominio.

« Watson » ripeté quello come una scusa, afferrando qualcosa da una mensola al suo fianco e passandola a John dalla porta: « oggi pomeriggio è venuto un corriere per lei, ho ritirato il pacco al suo posto » gli disse semplicemente, sorridendogli.

John lo ringraziò con un sorriso che non rifletteva niente. Nemmeno cortesia. Era solo un limitato stiracchiarsi di labbra. Ma l’uomo della portineria sembrò non accorgersene, dandogli la buona sera e rientrando al suo posto.

Salendo le scale fino alla porta del suo appartamento – terzo piano senza ascensore – osservò distrattamente il pacchetto che gli era stato recapitato.

Era pesante, quadrato, più o meno delle dimensioni di una scatola da scarpe. Era ricoperto da una carta marrone plastificata e chiuso con diversi giri di scotch. In alto a destra vi era lo stemma di uno studio notarile ed il timbro postale  indicava una cittadina dell’East Sussex: Crowborough.5

Cosa voleva da lui uno studio notarile dell’East Sussex?

Con le sopracciglia aggrottate in un’espressione accigliata, aprì la porta e accese la luce, appoggiando le chiavi sul mobiletto all’entrata e chiudendo bene la porta con chiavistello e catenina. Si diresse poi verso il cucinino, appoggiò il pacco sul tavolo, si tolse il cappotto e si dedicò all’apertura del misterioso recapito.

Tolse con calma la carta, curioso, scoprendo il pacchetto fatto di cartone chiuso con nastro adesivo da imballaggio. Con l’aiuto di un coltello tagliò il nastro che intrappolava i lati apribili, rimuovendo poi il primo foglio di plastica paraurti.

Quello che si trovò davanti, fu una sottospecie di scatola per sigari ricoperta da un fazzoletto ricamato che aveva l’aria di essere molto vecchio. Era stato avvolto con cura attorno alla scatola e l’angolo lasciato in alto riportava le iniziali corsive “H.W.H.” perfettamente ricamate in un tono di rosso tendente al scarlatto. Sopra ad esso, adagiata in modo che potesse vedersi il destinatario (“Alla cortese attenzione del dr. John H. Watson”) e, nuovamente, il timbro dello studio notarile, vi era una busta chiusa.

Nonostante la sua curiosità cominciasse ad essere morbosa e puntasse completamente sulla scatola sotto al fazzoletto, decise di seguire l’ordine logico e aprì prima la busta. Ne estrasse un foglio piegato in tre parti che spiegò con un movimento del polso ed un fragore di carta.

« “Alla cortese attenzione del dottor John H. Watson dallo studio notarile Harderbrook & Whale di Crowborough, East Sussex” » cominciò a leggere John in un mormorio, le lettera tenuta con entrambe le mani: « “Le recapitiamo, secondo le volontà testamentarie...” volontà testamentarie? » domandò retoricamente, ancora più confuso di quando aveva visto il timbro postale.

Una persona aveva scritto un testamento e aveva lasciato qualcosa a suo nome. Da Crowborough, a quanto sembrava. Già. Peccato che non conoscesse nessuno, di Crowborough, né dell’intero Sussex. La sua famiglia veniva tutta dal nord e non sapeva di parenti prossimi ricchi e facoltosi pronti a passare all’altro mondo, altrimenti Harry sarebbe stata la prima a trasferirsi nel Sussex.

Accigliato e con il dubbio che ci fosse stato un terribile errore, magari un gravissimo caso di omonimia, continuò a leggere in silenzio.

Il testamento era di un certo Sir Arthur Conan Doyle e ciò che gli aveva lasciato, nominato lungo tutta la lettera come “oggetto numero 7” e mai descritto realmente, era stato, per volere del signor Doyle stesso, chiuso a chiave con ordine tassativo di non essere aperto se non dal...

« “se non dal dottor John Hamish Watson, ex Capitano del Quinto Fucilieri di Northumberland, rintracciabile presso mr. Sherlock Holmes, 221B di Baker Street, Londra” » lesse.

No, nessun caso di omonimia. Cercavano proprio lui.

Qualcuno doveva averli avvertiti del cambio indirizzo, probabilmente. La domanda era chi, però. Non lo aveva detto a nessuno se non, per l’appunto, a mrs. Hudson. Forse avevano telefonato a lei? Possibile.

Si allungò sul tavolo per prendere la carta marrone tolta in precedenza, osservando la data di invio. Era precedente al suo trasferimento. Precedente.

Non era possibile. Come facevano a sapere dove inviare il pacchetto? Ma soprattutto, come facevano a sapere il suo grado militare ed il reggimento in cui aveva combattuto? Passi per dove abitava prima, dopotutto Sherlock era diventato... beh, tristemente famigerato, e John con lui. Ma persino il suo secondo nome? Persino “Hamish”?! Non lo usava mai, firmava sempre con la seconda iniziale puntata...

Non sapeva cosa pensare. Nell’indecisione dell’essere terrorizzato o semplicemente stranito, continuò la lettura.

Non ricordava di conoscere nessun Conan Doyle, né in relazione alla propria famiglia né volando con la mente a quelle dei nonni sia da parte di madre che paterni. Nessun commilitone, nessun superiore, nessun ex compagno di scuola o di università, nessun amico d’infanzia. Nessuno, nella sua vita, aveva mai portato il nome Conan Doyle.

Continuò a scorrere con gli occhi il testo, arrivando alla fine senza averci capito molto. Non si diceva quando fosse morto, di cosa, perché. L’unica cosa che c’era, e che gli fece trattenere il respiro ed accelerare il cuore, era la firma del famigliare che aveva garantito la lettura dell’atto notarile e aveva dato il consenso all’invio del pacchetto.

La voce gli uscì tremula, quando lesse: « “Crowborough, 12 luglio 1930. In fede, Adrian Conan Doyle” ».

1930. Lui non era nemmeno nato, nel 1930. Il suo nome, quel “John Hamish Watson” scritto in bella grafia poche righe prima, non esisteva, nel 1930.

Solo in quel momento si accorse che la busta era di vecchia fattura, e che la lettera era scritta a mano nella sua interezza, con quello che doveva essere sicuramente stato un pennino o una penna stilografica. Rilesse con foga il testo e trovò una riga in cui si parlava di “spedizione posticipata dell’oggetto in lascito” e di “custodia dello studio notarile fino alla data riportata nelle ultime volontà”.

In altre parole, la lettera era stata scritta nel 1930 e spedita postuma. E considerando che era un testamento, il che presupponeva che qualcuno fosse morto, e che il foglio che teneva ancora in mano era stato firmato da un certo “Adrian” (il figlio di Arthur?), probabilmente la morte del suddetto Arthur Conan Doyle doveva essere avvenuta nei primi di luglio del 1930.

A quel punto, John aveva rimasto poco in cui credere. Non era semplicemente possibile.

L’indomani mattina, come prima cosa, avrebbe cercato il numero dello studio notarile e avrebbe chiamato per farsi dare spiegazioni. Semplicemente perché una cosa del genere era completamente impossibile. E poi perché voleva chiarire la faccenda di dove avessero trovato informazioni a suo riguardo così dettagliate.

Ripiegò la lettera e la inserì di nuovo nella busta, più confuso di quando l’aveva aperta. Senza pensarci due volte, poi, prese la scatola e gli tolse il fazzoletto.

Era una semplice scatola di legno di ciliegio lavorato e laccato, contornata di fiori di ferro simili a rose ed incisa con motivi di gigli sul centro del coperchio. Dava l’idea di un accessorio lussuoso ma privato e, considerando che il legno di ciliegio era ancora uno dei più pregiati, probabilmente lo era davvero. Era chiusa da un piccolo lucchetto facente parte del legno la cui chiave era stata unita alla lettera scritta a mano, intrappolata con la ceralacca e quello che doveva essere lo stemma di famiglia dei Conan Doyle.

John rimase nel dubbio per qualche istante. Se domani, chiamando, gli avessero detto che era stato tutto un errore burocratico, sicuramente avrebbe dovuto rimandare indietro tutto. Dunque, tecnicamente, non avrebbe dovuto affatto spezzare il sigillo di ceralacca e prendere la chiave per aprire il portagioie.

Ma c’era una voce, dentro di sé – una voce maledettamente simile a quella di Sherlock e che gli faceva pungere il cuore di dolore – che gli sottolineava quanto fosse impossibile il contrario; c’era il suo nome su quel documento, dunque aveva il diritto di fare ciò che voleva con il portagioie.

Diede retta a quella voce (come aveva sempre fatto). Staccò con cura la chiave dalla carta, rompendo il sigillo di ceralacca, inserendola nella piccola serratura e sbloccando il coperchio – il meccanismo doveva essere un po’ arrugginito, dato che dovette fare un po’ di forza per far fare due giri alla piccola chiave.

All’interno non c’era molto. Anzi, non cera praticamente niente.

Le uniche cose che vi trovò, furono un taccuino di pelle dall’aria antica di quelli che si chiudevano ancora con i lacci, un orologio da taschino più grande del normale – quasi quanto il palmo della sua mano – con in rilievo un piccolo giglio fiorentino sul coperchio, ed un foglio ingiallito da tempo piegato in quattro parti.

Soffiando sulla polvere posatasi sugli oggetti, prese il foglio e lo spiegò.

Una sola frase campeggiava nel centro esatto, scritta in una grafia sottile ed allungata ma molto elegante.

 

Che tu ci creda o no.

               H.W.H.

 

John fissò per molto tempo quella semplice frase, cercando qualcosa che nemmeno lui sapeva cosa fosse.

Non trovò nessuna risposta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1. 9,8 m/s2 è la costante "g", alias l'accelerazione di gravità valida sul pianeta Terra. Fisica elementare: ogni pianeta ha una propria forza di gravità che dipende dalla composizione del nucleo (soprattutto da quali metalli è composto), quella terrestre attira qualsiasi cosa verso il centro del pianeta con una certa forza che fa "cadere" un corpo con un'accelerazione "g" sopra quantificata.

 

2. Il Suicidio è definito dalla Chiesa come peccato mortale (la Religione cristiana vieta all'uomo di togliersi la vita che Dio gli ha donato ecc...), motivo per cui i suicidi non hanno diritto ad avere un rito funebre cristiano/cattolico. Se il suicida stesso non lascia direttive in merito alla funzione, di solito si procede con un rito civile.

 

3. Riferito al Processo di Norimberga, svoltosi fra il 1945 e il 1946 per punire i criminali di guerra nazisti e della Shoah. La giuria era composta da esponenti militari degli USA, dell'Unione Sovietica, del Regno Unito e della Francia. Fu il luogo e l'occasione in cui nacque il reato di "crimini contro l'umanità" di cui furono accusati molti dei più alti esponenti del partito Nazista. Caso particolare fu la considerazione legislativa del ritenere la maggior parte dei militari di basso rango impegnati nella campagna tedesca innocenti perché eseguivano ordini dall'alto senza la possibilità di potersi rifiutare.

 

4. Chi ha detto Dr.House? XD Dato che House e Wilson sono ispirati a Holmes e Watson, mi sembrava giusto ricambiare la cosa almeno un po'.

 

5. La tomba di sir Arthur Conan Doyle si trova proprio a Crowborough, East Sussex. C'è un perché anche a livello di trama, ma lo capirete solo più avanti ;D (Spoilers ♪)

   
 
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