Desclaimer:
Tutto ciò non mi appartiene, ma è stato inventato da sir Doyle e
successivamente scritturato da Moffat e Gatiss. Non scrivo a pagamento (anche
se farebbe comodo XD).
Note: E
con questo la mia sanità mentale va in ferie.
I credits dell’idea,
dell’ispirazione e della follia che mi ha assalito vanno a Steins;Gate, anime splendido. Guardatelo perché merita. Chi l’ha
visto si sarà già fatto un’idea 8D
Ci sarà un po’ di Fisica
varia, soprattutto paradossi e multiverso, ma farò del mio meglio per spiegare
tutto ;D viva le note a fondo pagina.
Gli avvertimenti... beh: Death!Fic,
post-Reichenbach, GreatReturn, What if?, Missing Moments, Canon!Sherlock,
ACDTribute, Johnlock, Husbandlock e Parentlock tutto insieme in un modo un
po’ contorto.
I primi capitoli sono un
po’ una noia, ma dopo dovrebbe movimentarsi.
E adesso mi fermo XD
grazie per aver sopportato le terrificanti note del male.
A chi vorrà, ovviamente,
buona lettura ♥
______________________________________________________________________________________________________
If you believe or not
« Addio, John ».
Non è certo di
cosa sia quel rumore.
Un respiro che si
smorza. Un cuore che si spezza, forse? Il sibilo dell’aria ad un’accelerazione
di 9,8 m/s2.
Il suo impatto
contro l’asfalto, le sue ossa che si rompono, il suo cranio che si spacca. Un
battito di ciglia.
Il rumore del
tempo che si ferma. Il boato dell’unico ticchettio d’orologio che ha spezzato
il silenzio nel momento in cui l’ha visto precipitare.
Una piccola, semplice,
goccia di pioggia nel sangue.
Non lo sa, John,
cosa sia quel rumore. John non sa più niente.
John non sa il suo nome, nonostante lo stia
pronunciando, sussurrandolo.
« Sherlock... »
Incredulo.
« Sherlock ».
Confuso, rifiuta
la realtà. Ciò che gli occhi vedono. Ciò che le orecchie sentono. Ciò che le
mani toccano.
I suoi occhi
azzurri fissi nel vuoto. I rivoli scarlatti di sangue sulla pelle pallida –
ancora più pallida.
L’assenza di
battito nel suo polso che tiene fra le dita, nonostante le persone intorno a
lui cerchino di impedirgli di toccarlo – lo sorreggono, lo confortano, lo
trattengono. Ombre, solo ombre. Non hanno volto, non hanno voce.
John non sa cos’è
Dio. Non lo sapeva più da tanto, tanto tempo. Eppure ne pronuncia il nome.
« Oh, Gesù... »
Implorando.
« Dio, no ».
John non sa più
niente, ma sa che tra poco ricorderà e vorrà dimenticare ciò che sa.
Teme che non gli
sarà permesso.
È l’abitudine
della guerra a tenerlo in piedi, l’orgoglio di non mostrarsi ferito, debole,
confuso, preda di tutto, padrone di niente. Osserva da lontano una barella
sparire dentro al St. Barts e sente solo silenzio – dentro, fuori, ovunque,
intorno, ovunque.
John non sa più
niente.
Era
circondato da gente che, per un motivo o per l’altro, non si meritava di essere
lì.
Le
sedie in acciaio del corridoio dell’obitorio erano scomode come si ricordava.
L’unico modo per sedersi con l’illusione di non sentire la schiena piegarsi a
fisarmonica era quello di divaricare le ginocchia e scivolare in basso con il
bacino. Il dolore lo si sente dopo, al momento di alzarsi in piedi, ma lui
prevedeva comunque che non lo avrebbe fatto molto presto.
La
gente che non si meritava di essere lì sarebbe entrata prima di lui,
lasciandolo su quel pidocchioso tentativo di sedia ad aspettare.
Il
corridoio era immerso in un completo silenzio. Bianco, ovattato, dolorante. Un
silenzio d’ospedale. Anche quello era uguale ovunque.
L’ultima
volta che si era seduto su sedie uguali a quelle, in file identiche a quelle e
attaccate con viti grosse a muri che non avevano niente da invidiare a quelli
di altri ospedali, aveva Harry a sinistra e sua madre a destra. Portava ancora
i pantaloncini con le bretelle e i capelli a scodella. Aveva gli occhi grandi e
non capiva perché papà non usciva dalla porta verde: voleva davvero andare a
casa ed era stanco e bagnato.
Anche
in quel momento John era stanco. E bagnato. Ma non aveva gli occhi grandi e il
taglio a scodella; i suoi occhi erano sottili e fissi in un punto vuoto davanti
a sé, apparentemente fra il muro e la porta con sopra scritto “Obitorio –
vietato l’ingresso alle persone non autorizzate”.
Cambiavano
anche le persone.
Alla
sua sinistra, Mycroft. In piedi, avvolto da uno dei suoi stomachevoli e
costosissimi completi di alta sartoria, ombrello a fianco della gamba con la
punta a terra, un cappotto nero a doppio petto chiuso nonostante il
riscaldamento acceso. Espressione immobile e imperturbata.
Alla
sua destra, seduto un paio di sgabelli più in là, Lestrade. L’impermeabile sgualcito
sovrastava uno dei suoi soliti abiti da lavoro neri a taglio classico, non
troppo costosi ma non di seconda mano. Agitato. Muoveva ritmicamente il piede
appoggiato al ginocchio dell’altra gamba e le labbra erano strette
nell’espressione che la gente fa quando è a disagio.
Il
traditore e il codardo. Chi lo aveva venduto e chi non gli aveva creduto
abbastanza. Il fratello e l’ispettore.
Che
diritto avevano, loro, di vederlo prima di lui? Quale diritto? Perché contavano sempre e solo i pezzi di carta, in
quelle occasioni?
Mycroft
aveva il diritto d’entrare prima di lui perché era un parente. Il parente. Sarebbe rimasto in piedi a
guardarlo senza dire niente, senza l’ombra di un emozione se non il rammarico,
due minuti in totale forse meno, e poi se ne sarebbe andato con quel suo
fastidioso passo cadenzato frammezzato dal ticchettio metallico della punta
dell’ombrello sulle piastrelle.
Poi
sarebbe entrato Lestrade, perché c’era un’indagine in corso. Perché Sherlock
era un fuggitivo, dopotutto. Perché, come al solito, Scotland Yard doveva
chiarire una faccenda in cui non c’era più niente da chiarire. Greg sarebbe
entrato, lo avrebbe riconosciuto, avrebbe sentito recitare a memoria causa
della morte e dichiarazione di decesso, avrebbe preso atto dell’ovvio tralasciando
tutto l’importante. Cinque minuti, e poi sarebbe uscito di nuovo e se ne
sarebbe andato, forse fermandosi a guardare lui, forse ricordandogli che aveva
preso a pugni il Soprintendente Capo. Più probabilmente avrebbe avuto pena di
lui e l’avrebbe lasciato stare.
E
dopo, solo dopo, sarebbe toccato a
lui, entrare a salutare Sherlock.
Lui
che aveva creduto fino alla fine – e ancora credeva. Lui che aveva corso con
lui, che lo aveva seguito in manette, che gli aveva tenuto la mano, che aveva
convissuto con il suo genio e la sua eccentricità, che lo aveva visto vacillare
e rialzarsi in piedi, che aveva avuto il coraggio di sopportare e l’onore di
essergli amico.
Lui
che sapeva come amava prendere il tè ed il caffè, che aveva imparato a
decifrare il suo umore dal pezzo suonato con il violino alle tre di notte, che
gli aveva impedito di riprendere a fumare, che lo aveva accompagnato ovunque
volesse portarlo con sé.
Lui
che aveva riavuto la vita dalla persona che se l’era tolta, lo avrebbe visto
solo dopo. Perché lui non era niente.
Per
gli occhi della legge, gli amici non sono mai niente.
Non
era giusto.
Voleva
essere egoista, per una volta. Ammettere a se stesso che la persona più
meritevole di entrare per primo, lì dentro, era lui, John Watson. Perché loro
erano diventati Watson-e-Holmes. Sherlock-e-John. E non era giusto che quella
congiunzione che univa i loro nomi non potesse unire anche le loro volontà.
Non
era giusto che gente che lo aveva venduto al nemico, gente che lo aveva
lasciato da solo nel momento del bisogno, lo vedesse prima di lui, che non lo
aveva tradito mai e mai lo aveva abbandonato.
Non
riusciva a capire dove fosse la giustizia, in tutto quello.
Strinse
le arcate dentarie l’una contro l’altra talmente forte che sentì i muscoli
della mascella tremare e il labbro superiore scoprire i denti. Una rabbia
imponente e profonda annebbiargli la vista come, forse, avrebbero dovuto fare
le lacrime che non aveva ancora versato. Strinse l’una nell’altra le mani che
teneva unite in grembo, facendo sbiancare le nocche e tremare i nervi sotto la
pelle. Imponendosi una calma che non aveva, un contegno che non desiderava.
Ma c’era il suo
migliore amico, di là, e stava dormendo, per una volta. Non poteva svegliarlo.
La
porta si aprì senza nessuno scricchiolino, solo il rumore della maniglia a
riempire l’aria statica e silenziosa. John non si era chiesto che coraggio
avesse avuto Molly a fare quell’autopsia, ma quando vide i suoi occhi castani
rossi e gonfi e residui di lacrime lungo le guance capì che ovunque fosse stato
quel coraggio, lo aveva ormai perso.
« Signor Holmes... » chiamò piano, la
voce bassa e rotta, scostandosi dalla porta per lasciare lo spazio a Mycroft.
Molly
e John si guardarono, per un istante. Disperazione nel vuoto. E non era John,
quello disperato.
La
patologa distolse subito lo sguardo, come bruciata. John si chiese cosa c’era
di così brutto, sporco, rotto nei
suoi occhi da poter fare quell’effetto. Ma smise di farsi quelle domande
inutili nel momento in cui, con due passi e senza emettere alcun suono, Mycroft
Holmes si prese il suo diritto di vedere per primo il fratello.
Il
silenzio calò di nuovo nel corridoio.
Lestrade
si mosse a disagio sulla sedia, appoggiando ora entrambi i piedi a terra. Si
girò in sua direzione. John non lo calcolò minimamente.
Prese
fiato, Greg. Parlò. Forse tranquillizzato dal fatto che fossero soli, che si
conoscessero, che fossero amici.
« John... » cominciò,
indeciso.
Watson
non si mosse di un millimetro.
No, Greg, pensò. No.
« John, senti, io
volevo... Dio, non lo so cosa volevo fare » disse, sospirando e passandosi le mani
nei capelli brizzolati.
Non dire quella
parola.
« Forse volevo... »
Non osare dire
quella parola.
« ...scusarmi ».
Il
pugno di John scattò così veloce e potente, che quando colpì con un rumore
sordo di metallo e ossa la sedia alla sua destra l’ispettore sobbalzò. John
continuava a guardare avanti, il volto deformato in un’espressione di pura ira,
il braccio teso verso l’esterno con il pugno chiuso quasi incassato nel poggia
schiena del seggiolino, tanta era stata la forza di quel colpo. Lestrade
tacque.
La
porta si aprì di nuovo.
Due
minuti esatti, come John aveva immaginato. Mycroft uscì dall’obitorio, lanciò
un’occhiata sia a lui che a Lestrade (John non la restituì) prima di andarsene
– passi cadenzati frammezzati dal ticchettio in metallo della punta
dell’ombrello sulle piastrelle.
« Ispettore,
prego... » sussurrò Molly,
indicandogli la porta.
Greg
lo guardò ancora un istante, prima di alzarsi e seguire la patologa in sala
autopsie. John rimase solo.
Non
ne aveva voglia. Sapeva cosa c’era oltre quella porta, cosa avrebbe trovato,
cosa avrebbe visto.
Ne
aveva visti tanti. Con o senza divisa, con o senza sangue, con o senza parti
del corpo. Troppi. Era stato l’unico del corso a non svenire alla sua prima
autopsia, l’unico dei commilitoni ad avere il fegato di chiudere decine di
cadaveri al giorno in sacchi di plastica nera ed ammucchiarli in una tenda
raffreddata a malapena, l’unico a sopportare la puzza della decomposizione per
riportare in patria qualcosa che la famiglia di quei poveracci avrebbe potuto
seppellire ed onorare.
Sapeva
cosa c’era oltre quella porta. Ma questa volta, questa immagine, non voleva proprio vederla.
Non
aspettò i cinque minuti di Lestrade. Il suo turno non arrivò mai.
Semplicemente
si alzò e, con lo sguardo basso, si mise le mani in tasca e camminò lungo in
corridoio in direzione dell’uscita.
Non
ce la faceva, a dirgli addio. Non ora.
Non
ancora.
Sherlock
non credeva in Dio. In realtà, Sherlock non credeva in niente che non fosse se
stesso. Era agnostico (o forse era solo uno scienziato, chissà).
A
John piaceva pensare che fosse per quello, che il funerale si svolse con rito
civile. Non perché era un suicida.2 Non perché era un impostore.
Lo
celebrarono al mausoleo di Highgate, un manipolo di persone vestite di nero
sotto ad ombrelli neri. Un funzionario incaricato dal Governo recitò le frasi
di rito, dando alla bara di legno nero tutti gli onori che poteva conferirgli –
pochi, troppo pochi rispetto a quelli che meritava davvero – e li accompagnò a
passo lento fino al luogo scelto per seppellirlo: un pezzo di giardino
dall’erba verde, un po’ isolato, ai piedi di una collinetta, invisibile dal
sentiero, introvabile se non si cerca e se non si sa che è lì.
Da
solo, praticamente. Odiò Mycroft anche per questo.
Erano
poco più di dieci e John sentiva che solo Molly, Mike Stamford e mrs. Hudson
avevano davvero il diritto di essere lì. Non Mycroft, che teneva l’ombrello
calato sugli occhi. Non Lestrade, che si mordeva il labbro con gli occhi lucidi
e non sapeva se guardare la tomba, la lapide o l’uomo che parlava. Non gli
esigui agenti di Scotland Yard che John sapeva di aver già visto in giro per la
centrale. Voi lo avete tradito, lo avete
insultato, gli avete dato dell’assassino infanticida e rapitore, CHE DIRITTO
AVETE?! Avrebbe voluto urlare, ma era una persona di rispetto e il suo
migliore amico stava dormendo, davanti a lui, in quella bara. Non poteva
svegliarlo.
Gli
addetti delle Pompe Funebri sistemarono la bara sulla fossa, pronti a calarla.
Il bouquet di gigli bianchi stava cominciando a disfarsi a causa della pioggia,
che gonfiava d’acqua la spugna per fiori che teneva insieme la composizione,
ammorbidendola e facendole perdere presa. Non se ne accorse nessuno, solo John,
e ovviamente solo a lui suscitò un incredibile squallore.
John
non aveva ancora pianto. Non aveva ancora urlato, non si era arrabbiato, non
aveva ancora buttato a terra niente o rotto qualcosa con l’intenzione di farlo.
Non pianse nemmeno ai piedi della fossa, con la lapide di marmo nero e lettere
dorate così nuova e così sgradita alla vista, mentre mrs. Hudson singhiozzava
ancorata al suo braccio sinistro e Molly si nascondeva il volto fra le mani a
pochi passi sulla sua destra. Nemmeno quando il funzionario chiese se ci fosse
qualcuno intenzionato a dire due parole, ad accompagnare con qualche aneddoto
la discesa della salma, e le teste di tutti si girarono in sua direzione, in
attesa.
John
li ignorò. Non era la vedova di nessuno, tanto meno di Sherlock Holmes.
Non
era ancora il momento.
Poggiò
la mano destra, quella libera, su quella di mrs. Hudson appoggiata al proprio
braccio. Le lasciò l’ombrello con un lieve sorriso. Poi, voltando le spalle sia
alla bara che a tutti gli altri, si incamminò sotto la pioggia verso l’uscita
del cimitero, il passo lento ma il portamento da soldato.
Non
era ancora pronto a dirgli addio. Non ora.
Non
ancora.
Aveva
aiutato mrs. Hudson a riporre tutte le sue
cose negli scatoloni.
Il
microscopio e varie lenti e vetrini. Tutta l’attrezzatura scientifica che
infestava la cucina negli angoli più inimmaginabili. I becher, le provette, i
fornelletti ad alcool, i composti chimici (quelli non pericolosi, gli altri
erano stati buttati). Il set di bisturi. Il seghetto per ossa. La sua tazza
bianca a righe nere.
Aveva
trovato un sacchetto di denti nel frigorifero. Una lingua sotto formalina in
mezzo alle salamoie e alla verdura sottaceto. Cartellini con la sua calligrafia
sottile caduti da vasi che erano stati ripuliti e riutilizzati. Un suo capello,
riccio e nero, incastrato nell’angolo del tavolo.
Mrs.
Hudson aveva pianto, ad un certo punto. Lui no. Era ancora troppo presto.
Lo
aveva perso – no, se ne era andato –
da poco più di quarantotto ore e non capiva, non percepiva ancora la sua
assenza. Gli sembrava ancora che dovesse tornare. Che sarebbe piombato in
cucina da un momento all’altro in uno svolazzare di cappotto scuro blaterando
riguardo ad un caso, o ad un esperimento, o a quanto sono interessanti da
osservare gli esseri umani in fila alle Poste. Come se lui non fosse uno di loro – non lo era mai stato ma a quanto pare
riusciva a morire come loro, a spezzarsi come loro, proprio come loro (proprio
come lui).
Aveva
chiuso negli scatoloni tutto il mondo che pian piano lui e Sherlock avevano
costruito intorno a loro.
Tutti
i suoi libri, i suoi resoconti, i suoi studi, le sue relazioni. Il coltello a
serramanico, il tabellone del Cluedo. I quadri con le farfalle e con altri
insetti in bella vista sul caminetto. Tolse la batteria al suo laptop e lo
chiuse nella relativa valigetta nera, mettendolo nell’armadio della sua stanza
insieme al pigiama e alla vestaglia da camera. Insieme al violino, rinchiuso
con cura nella sua custodia. Un paio di cartine antitarme ed due giri di
chiave.
Scotland
Yard aveva ancora il cappotto, e il cellulare. I vestiti che aveva indosso,
probabilmente, erano stati buttati. Mycroft gli aveva fatto avere l’orologio da
polso, il doppione delle chiavi dell’appartamento, il portafogli. Gli effetti
personali che Sherlock aveva con sé e che l’obitorio aveva restituito al
parente più stretto.
Mycroft
aveva anche precisato che non voleva nulla, della roba di Sherlock, e che sarebbe
dovuta rimanere al 221B. Aveva parlato anche dell’appartamento stesso, con mrs.
Hudson, ma John aveva smesso di ascoltare. Gli faceva troppa rabbia, che il
fratello maggiore non volesse nulla della sua roba, ma al contempo provava
soddisfazione al pensiero che le sue mani grassocce e colpevoli non avrebbero
toccato niente di suo.
Quando
finirono, l’appartamento non aveva più nulla di loro. Sulle mensole erano
rimaste solo le poche cose di John, quei pezzi di vita che era così abituato a
raccogliere ed impacchettare e che erano sempre quelli, e solo in quel momento
il medico si rese conto che tutto ciò che aveva avuto fino a quel momento
faceva parte di Sherlock, e che Sherlock non c’era più.
Seduto
sulla propria poltrona, un paio di jeans e una camicia a scozzese, a piedi
scalzi guardò la poltrona di fronte a sé e si rese conto di quanto fosse vuota. Come l’appartamento. Come tutto
il resto.
Dunque,
John fece l’unica cosa che era capace di fare quando la vita gli voltava le
spalle: le valigie.
Impacchettò
le sue cose nei due borsoni che da sempre avevano rappresentato tutto ciò che
di sé portava con sé. Svuotò l’armadio, disfò il letto, smontò le tende e le
piegò per riporle nella cassapanca. Coprì con lenzuola bianche ogni mobile del
salotto e della cucina. Si assicurò di aver chiuso il gas e staccato le prese
di tutti gli elettrodomestici. Spense la fiamma pilota della caldaia
nell’antibagno.
Non
toccò la camera di Sherlock, che rimase esattamente così com’era. Lasciò di sé
solo la propria tazza, il maglioncino a righe bianche e blu scuro che non
sarebbe più stato in grado di indossare e che non meritava di essere
dimenticato sul fondo di un cassetto, e il bastone. Non gli sarebbe servito, lo
sapeva: non aveva intenzione di sprecare ciò che Sherlock gli aveva regalato,
permettendo alla propria mente di soggiogarlo ancora con il dolore. Non era
così debole, vivendo con Sherlock aveva capito anche quello.
La
decisione di lasciare anche le sue dogtag fu la più sofferta. Era legato a
quegli oggetti da un filo spinato a doppia corda, con un’anima ferita che aveva
trovato nell’esercito l’unica ragione di vita, attraverso gli occhi di un uomo
che non vede due piastrine con nome, cognome, credo religioso e gruppo
sanguigno, ma che piuttosto sente il tremore residuo dei colpi di mortaio e
l’odore di sangue e sudore. Ma ciò che stringeva fra le mani non erano altro
che ricordi pieni di incubi, e Sherlock era riuscito a togliere anche quelli. Sherlock
aveva preso tutto ciò che John reputava immutabile e ne aveva fatto degli
aeroplanini di carta.
Fu
appoggiando le dogtag sul cuscino di Holmes che lasciò il 221B di Baker Street.
Finse che fosse una decisione temporanea, ma sapeva benissimo che non ci
sarebbe tornato mai più, che non ne avrebbe trovato mai il coraggio, o la forza
necessari. Non senza di lui.
Mrs.
Hudson capì.
« Ci sono cose che
avrebbe voluto dire... ma che non ha detto? ».
John
guardò Ella e gli mancò la voce.
« Sì » sussurrò.
La
pioggia contro i vetri dello studio era l’unica cosa che rompeva il silenzio.
« Le dica ora ».
« No » si rifiutò, la
voce che faticava ancora ad uscire.
Si
prese un istante per ritrovarla. « Mi dispiace, non ci riesco ».
Scosse
il capo e abbassò lo sguardo, sconfitto.
Aveva
rifiutato l’offerta di Mycroft di farsi firmare un assegno per avere un
appartamento in una zona decente di Londra, considerando il suo recente
trasloco in un ostello – situazione temporanea finché non avesse trovato
qualcosa che poteva permettersi. Quando gli aveva chiesto, John, da dove
scaturiva tutto quell’altruismo, l’altro aveva sollevato il labbro in quella
sua espressione di sufficienza da padrone dell’universo.
« Lei è stato un
fedele compagno per mio fratello, dottore. Sarei dispiaciuto se non dovesse
continuare la sua vita quantomeno agevolmente » gli aveva risposto.
John
aveva fatto fatica a trattenersi dall’esplicare, nel più vivido e diretto
turpiloquio da bassifondi militari, dove poteva infilarsi l’assegno, magari
arrotolato intorno alla punta del suo prezioso ombrello. Si limitò a dirgli che
conosceva un paio di figli di buona donna che potevano pagare bene, per il culo
di un signorotto arrogante d’alta borghesia come lui. E non necessariamente
evitò di usare il suddetto turpiloquio da bassifondi militari.
Inoltre,
John non sapeva quale coraggio aveva avuto Greg ad offrirgli la seconda camera
del suo appartamento – ormai vuoto dato che la moglie lo aveva definitivamente
lasciato per un insegnante di ginnastica – ma lo sguardo con cui John lo
squadrò convinse l’ispettore a salutarlo e a fare dietrofront ancora prima che
potesse esprimersi (e no, non gli avrebbe risparmiato niente).
Riusciva
a capire l’urgenza che aveva Greg di vederlo, di chiedergli perdono; davvero ci
riusciva. I sensi di colpa uscivano dallo Yarder come ectoplasma viscoso e
denso, appiccicandosi addosso a lui, e John non aveva voglia, davvero non ne
aveva, di sopportare anche quello. Non adesso.
Adesso
stava incolpando il mondo, adesso doveva
incolpare il mondo, perché il lutto funziona così. Altro che cinque fasi. È
infinitamente più semplice: prima ti incazzi con gli altri, poi te la prendi
con te stesso, infine dai la colpa al morto perché tanto è morto, dunque è
l’unico che della tua colpa non se ne fa davvero proprio niente.
Perciò
no, Mycroft, non voglio la tua pietà. Non esiste universo in cui io accetterò
mai un pezzo di carta con qualche zero per sciogliere il piccolo nodo che la
mia presenza su questa Terra ti ha lasciato da qualche parte – dato che dubito
tu abbia un cuore, o una coscienza.
E
no, Lestrade, non verrò ad abitare con te per sorriderti e dirti che va tutto
bene, che hai fatto solo il tuo lavoro e hai eseguito degli ordini ed eri solo
un soldato in una guerra giocata fra Titani. Lo erano anche i nazisti durante
la Seconda Guerra Mondiale, ma a Norimberga non gli andò liscia comunque.3
Era
arrabbiato, John. Ancora. Dopo cinque giorni dal momento in cui aveva
trattenuto il fiato e sperato che fosse tutto un brutto sogno. Dal momento in
cui si era rifiutato di vedere il suo cadavere steso su una barella d’acciaio.
Cinque
giorni in cui non aveva mai smesso di dire “no” e “non può essere” e “non ci
credo”. Una continua lotta tra la parte di lui che aveva accettato il tutto, la
parte dura, quella che aveva attraversato la guerra tenendolo in piedi ogni
santo giorno, contro l’altra parte di lui, quella che quando morì suo padre si
rintanò in un angolo con le mani sulle orecchie e da quell’anfratto non uscì
mai più.
E
ora si trovava in un monolocale da poco, senza muffa alle pareti o condizioni
igienico-sanitarie da terzo mondo ma vuoto e piatto, ammobiliato solo per
l’essenziale: scrivania, cucinino, bagno, armadio, letto, lampada da lettura,
prese di corrente, stendipanni sul balconcino. Lui, i suoi due borsoni e la
nuova vita che doveva cominciare, l’ennesima che aveva pescato dal mucchio quando
aveva capito che avrebbe dovuto rifare tutto quanto da capo – un’altra volta.
Sbuffò,
chiudendo gli occhi per un istante e tentando di fare una lista mentale di ciò
che necessitava di essere fatto.
Il
frigorifero era vuoto, la caldaia da accendere, doveva controllare se la doccia
era davvero pulita, se c’erano perdite da qualche parte, se i precedenti
inquilini non si erano ammazzati a vicenda con un paio di forbici trinciapollo,
perché avrebbe giustificato il prezzo così basso di un appartamento
all’apparenza messo abbastanza bene.
Doveva
fare molte cose, ma l’unica che riuscì effettivamente a fare fu estrarre il suo
portatile, collegarlo alla rete elettrica e ad Internet, aprire la pagina
d’aggiornamento del proprio blog e restare lì, seduto, immobile a fissare il
cursore lampeggiare nel riquadro bianco.
Come
appena tornato dalla guerra, non sapeva cosa scrivere. Come a quel tempo, in
realtà, di cose da scrivere ne aveva talmente tante che avrebbe potuto riempire
la stanza di fogli scritti a mano, tappezzarne pareti e soffitto, e non sarebbe
stato abbastanza.
Avrebbe
voluto dire di quanto fosse arrabbiato. Furioso. Di quanto Sherlock non
meritasse la merda che gli avevano gratuitamente spalato addosso. Dell’uomo che
era veramente, nonostante i suoi alti e bassi, la sua eccentricità, le sue
stranezze, le sue ossessioni. Voleva raccontare degli attimi in cui facevano
colazione leggendo due giornali diversi che poi si scambiavano, del luccichio
nei suoi occhi azzurri quando riusciva a dedurre il meccanismo di un crimine o
di un rompicapo, di quando cenavano da Angelo e John tentava in tutti i modi di
non parlare di morti ammazzati per non spaventare quelli dei tavoli vicini, ma
non c’era verso. Aveva un intero mondo di sfumature, John, in quella sua mente:
un puzzle fatto di tasselli intagliati a mano ed intrecciati come stoffa
colorata a creare qualcosa di unico... qualcosa che non aveva più.
Ne
era geloso. E, al contempo, pensava che quelli
là fuori non se lo meritassero. Che credessero o meno, nessuna delle
persone là fuori, affamate di notizie o semplicemente curiose o forse morbose,
si meritava di sapere altro su Sherlock. Era stato denudato della sua vita,
preso in giro, trasformato da persona per bene a criminale... no. Nessuno si
meritava niente. Ciò che di buono Sherlock Holmes aveva viveva, ora, dentro di
lui: e dentro di lui sarebbe rimasto.
Da
quella decisione, seguì quella di abbandonare il suo blog. Non aveva intenzione
di incontrare di nuovo Ella ma, soprattutto, quel blog esisteva per raccontare
di Sherlock, dunque era inutile che continuasse ad aggiornarlo.
Prima
di mettersi a scrivere il suo ultimo post, cancellò tutti i messaggi privati
che aveva ricevuto senza leggerne nemmeno uno, poi disabilitò i commenti e
l’avvertimento automatico tramite mail che gli arrivava in casella quando
qualcuno commentava uno dei suoi post.
Infine,
cominciò a digitare. E scrisse l’unica cosa che, scavando dentro di sé, trovò
la forza di esprimere a parole.
“Era il mio
migliore amico e crederò sempre in lui.”
Quando
la pubblicò, si rese conto dell’inevitabile.
Quella
frase sapeva d’addio... e non solo al blog. Era una sentenza. Era una “cosa
fatta”. Stava cominciando a lasciarlo andare.
Deglutendo,
chiuse la pagina e cancellò l’indirizzo dai preferiti e dalla cronologia. Inutile,
se con una ricerca su Google poteva trovarlo facilmente, ma aveva la
convinzione che, comunque, avrebbe fatto in modo di non cercarlo.
Stava
chiudendo un capitolo della sua vita. L’ultima cosa che gli rimaneva da fare,
era voltare la pagina.
La
prima notte in cui riuscì a dormire per più di tre ore di seguito non fu
clemente, con lui.
Sognò
il cielo grigio ed una figura scura che si stagliava al suo orizzonte, sul
ciglio di un cornicione. Lo skyline di Londra sembrava prenderli in giro
entrambi.
Era
dietro di lui e lo vedeva di spalle buttare a terra il cellulare. John lo
chiamava, urlava, gli pregava di non farlo, di non buttarsi. Sherlock girava
piano il volto, sorrideva. Uno di quei sorrisi dolci che John aveva sempre
pensato fosse in grado di fare ma che, in realtà, non gli aveva mai visto sulle
labbra.
« Addio, John » gli diceva,
sbilanciandosi in avanti.
E
John scattava, la mano tesa, l’intenzione di prenderlo prima che cadesse, di
impedire che avvenisse. Ma quando la sua mano era a qualche centimetro da
toccare il cappotto, nel momento in cui era teso in direzione del detective
cadente, la prospettiva cambiava e lui si trovava sul marciapiede sotto al
Barts, e Sherlock precipitava, e il silenzio si riempiva del rumore delle sua
ossa rotte, del suo cuore fermo, del suo cranio spaccato. E John cominciava a
correre ma cadeva anche lui, sentendo asfalto sotto le mani e a contatto con il
viso, vedendo solo sangue e occhi azzurri fissi nel vuoto, fissi su di lui.
Si
svegliò con un principio di tachicardia e fradicio di sudore. La maglietta a
mezze maniche gli si era appiccicata alla schiena, sentiva i capelli incollati
alla nuca e piccole gocce di sudore corrergli sul collo verso il colletto
bagnato della t-shirt.
Respirò
profondamente un paio di volte, ricadendo sul letto e mettendosi subito le mani
sugli occhi. Mugugnò qualcosa di incoerente mentre ricacciava indietro le
lacrime e la paura, cercando di convincere se stesso che non era niente, che
sarebbe passato tutto.
Ma
aveva già percorso quella strada una volta, e sapeva fin troppo bene che non
era così. Prima erano i sogni, le notti passate dormendo poco e male, poi c’era
lui che si attorcigliava attorno ad una gamba che marciva e che non riusciva a
tenere in mano un bicchiere d’acqua senza rovesciarlo.
Almeno,
una volta era la guerra. Era il convincersi che fosse qualcosa di troppo grande
da affrontare. Era razionalizzare, trovare un motivo per giustificare tutto
quel tormento auto-inflitto.
Questa
volta, era solo Sherlock Holmes.
E
quello di cui aveva davvero il terrore, era che potesse diventare un supplizio
ancora più grande.
Le
cose più semplici erano, in realtà, le più difficili.
Come
dover prendere la metropolitana, o l’autobus. Di solito con Sherlock usava i
taxi, ma si era trasferito da poco ed era senza lavoro, il taxi era un lusso
che faceva meglio a non permettersi. Dunque metro. Dunque autobus.
In
mezza giornata, era già andato due volte dalla parte sbagliata. Aveva preso una
linea che non doveva prendere. Un autobus che non si dirigeva nemmeno
lontanamente nella zona del suo nuovo appartamento. Per mezza giornata, il suo
istinto lo aveva voluto portare a Baker Street ed era stato solo per un colpo
di fortuna se si era accorto, ogni volta, dell’errore quando era solo a metà
strada.
Aveva
dovuto fare il giro dei reparti tre volte, da Tesco.
Prendeva
latte, uova, formaggio, maionese, yogurt al caffè, tre pacchi di pasta, una
confezione di English Breakfast e una di Earl Grey, caramelle alla frutta. Salvo
poi accorgersi che aveva preso troppo
latte (due litri), troppe uova (una dozzina), un formaggio che a lui non era
mai piaciuto, la maionese che usava raramente, lo yogurt al caffè che non era
lui a mangiare, troppa pasta per un solo uomo, l’English Breakfast che non era
mai stato il suo tè, le caramelle alla frutta quando a lui non piacevano i
dolci.
Si
accorgeva di aver preso le cose che piacevano a Sherlock e allora tornava
indietro, rimettendole a posto o posando gli eccessi. Poi passava al reparto
frutta e verdura e dimenticava tutto, e prendeva le mele sbagliate, troppe
carote, due buste di plastica per non far entrare in contatto le patate e la
mano in decomposizione sul secondo ripiano del frigorifero; si fermava sui
broccoli e si chiedeva come cucinarli per riuscire a farli mangiare a Sherlock
senza che si accorgesse di cosa fossero.
Poi
qualcuno sussurrava qualcosa su di un detective impostore, a qualche scaffale
di distanza da lui, e John tornava con i piedi per terra.
Serrava
forte le labbra. Tirava su il mento. Stringeva i denti fino a farsi male alle
gengive. Rimetteva a posto la spesa.
Usciva
da Tesco senza niente in mano.
Rientrò
a casa verso il tramonto con un sacchetto di carta odorante di patatine fritte
proveniente da Burger King. Aprì con una delle tre chiavi del suo nuovo mazzo
il portone di vetro ed acciaio del condominio, lasciando che si richiudesse
alle sue spalle.
Dal
vetro della portineria sulla destra, il portinaio lo fermò mentre si puliva le
scarpe sullo zerbino. « Ehi, aspetti!
Dottor... Wilson? ».4
« Watson » corresse
automaticamente John, sospirando. Non gliene faceva una colpa. Nemmeno lui
ricordava minimamente come si chiamasse il portinaio, nonostante si fosse
presentato il primo giorno in cui aveva messo piede in quel condominio.
« Watson » ripeté quello come
una scusa, afferrando qualcosa da una mensola al suo fianco e passandola a John
dalla porta: « oggi pomeriggio è
venuto un corriere per lei, ho ritirato il pacco al suo posto » gli disse
semplicemente, sorridendogli.
John
lo ringraziò con un sorriso che non rifletteva niente. Nemmeno cortesia. Era
solo un limitato stiracchiarsi di labbra. Ma l’uomo della portineria sembrò non
accorgersene, dandogli la buona sera e rientrando al suo posto.
Salendo
le scale fino alla porta del suo appartamento – terzo piano senza ascensore –
osservò distrattamente il pacchetto che gli era stato recapitato.
Era
pesante, quadrato, più o meno delle dimensioni di una scatola da scarpe. Era
ricoperto da una carta marrone plastificata e chiuso con diversi giri di
scotch. In alto a destra vi era lo stemma di uno studio notarile ed il timbro
postale indicava una cittadina dell’East
Sussex: Crowborough.5
Cosa
voleva da lui uno studio notarile dell’East Sussex?
Con
le sopracciglia aggrottate in un’espressione accigliata, aprì la porta e accese
la luce, appoggiando le chiavi sul mobiletto all’entrata e chiudendo bene la
porta con chiavistello e catenina. Si diresse poi verso il cucinino, appoggiò
il pacco sul tavolo, si tolse il cappotto e si dedicò all’apertura del
misterioso recapito.
Tolse
con calma la carta, curioso, scoprendo il pacchetto fatto di cartone chiuso con
nastro adesivo da imballaggio. Con l’aiuto di un coltello tagliò il nastro che
intrappolava i lati apribili, rimuovendo poi il primo foglio di plastica
paraurti.
Quello
che si trovò davanti, fu una sottospecie di scatola per sigari ricoperta da un
fazzoletto ricamato che aveva l’aria di essere molto vecchio. Era stato avvolto
con cura attorno alla scatola e l’angolo lasciato in alto riportava le iniziali
corsive “H.W.H.” perfettamente
ricamate in un tono di rosso tendente al scarlatto. Sopra ad esso, adagiata in
modo che potesse vedersi il destinatario (“Alla cortese attenzione del dr. John
H. Watson”) e, nuovamente, il timbro dello studio notarile, vi era una busta
chiusa.
Nonostante
la sua curiosità cominciasse ad essere morbosa e puntasse completamente sulla
scatola sotto al fazzoletto, decise di seguire l’ordine logico e aprì prima la
busta. Ne estrasse un foglio piegato in tre parti che spiegò con un movimento del
polso ed un fragore di carta.
« “Alla cortese
attenzione del dottor John H. Watson dallo studio notarile Harderbrook &
Whale di Crowborough, East Sussex” » cominciò a leggere John in un mormorio,
le lettera tenuta con entrambe le mani: « “Le recapitiamo, secondo le volontà
testamentarie...” volontà testamentarie? » domandò retoricamente, ancora più confuso
di quando aveva visto il timbro postale.
Una
persona aveva scritto un testamento e aveva lasciato qualcosa a suo nome. Da
Crowborough, a quanto sembrava. Già. Peccato che non conoscesse nessuno, di
Crowborough, né dell’intero Sussex. La sua famiglia veniva tutta dal nord e non
sapeva di parenti prossimi ricchi e facoltosi pronti a passare all’altro mondo,
altrimenti Harry sarebbe stata la prima a trasferirsi nel Sussex.
Accigliato
e con il dubbio che ci fosse stato un terribile errore, magari un gravissimo
caso di omonimia, continuò a leggere in silenzio.
Il
testamento era di un certo Sir Arthur Conan Doyle e ciò che gli aveva lasciato,
nominato lungo tutta la lettera come “oggetto numero 7” e mai descritto
realmente, era stato, per volere del signor Doyle stesso, chiuso a chiave con
ordine tassativo di non essere aperto se non dal...
« “se non dal dottor
John Hamish Watson, ex Capitano del Quinto Fucilieri di Northumberland, rintracciabile
presso mr. Sherlock Holmes, 221B di Baker Street, Londra” » lesse.
No,
nessun caso di omonimia. Cercavano proprio lui.
Qualcuno
doveva averli avvertiti del cambio indirizzo, probabilmente. La domanda era
chi, però. Non lo aveva detto a nessuno se non, per l’appunto, a mrs. Hudson.
Forse avevano telefonato a lei? Possibile.
Si
allungò sul tavolo per prendere la carta marrone tolta in precedenza,
osservando la data di invio. Era precedente al suo trasferimento. Precedente.
Non
era possibile. Come facevano a sapere dove inviare il pacchetto? Ma
soprattutto, come facevano a sapere il suo grado militare ed il reggimento in
cui aveva combattuto? Passi per dove abitava prima, dopotutto Sherlock era
diventato... beh, tristemente famigerato, e John con lui. Ma persino il suo
secondo nome? Persino “Hamish”?! Non lo usava mai, firmava sempre con la
seconda iniziale puntata...
Non
sapeva cosa pensare. Nell’indecisione dell’essere terrorizzato o semplicemente
stranito, continuò la lettura.
Non
ricordava di conoscere nessun Conan Doyle, né in relazione alla propria
famiglia né volando con la mente a quelle dei nonni sia da parte di madre che
paterni. Nessun commilitone, nessun superiore, nessun ex compagno di scuola o
di università, nessun amico d’infanzia. Nessuno, nella sua vita, aveva mai
portato il nome Conan Doyle.
Continuò
a scorrere con gli occhi il testo, arrivando alla fine senza averci capito
molto. Non si diceva quando fosse morto, di cosa, perché. L’unica cosa che
c’era, e che gli fece trattenere il respiro ed accelerare il cuore, era la
firma del famigliare che aveva garantito la lettura dell’atto notarile e aveva
dato il consenso all’invio del pacchetto.
La
voce gli uscì tremula, quando lesse: « “Crowborough, 12 luglio 1930. In fede,
Adrian Conan Doyle” ».
1930.
Lui non era nemmeno nato, nel 1930. Il suo nome, quel “John Hamish Watson”
scritto in bella grafia poche righe prima, non esisteva, nel 1930.
Solo
in quel momento si accorse che la busta era di vecchia fattura, e che la
lettera era scritta a mano nella sua interezza, con quello che doveva essere
sicuramente stato un pennino o una penna stilografica. Rilesse con foga il
testo e trovò una riga in cui si parlava di “spedizione posticipata
dell’oggetto in lascito” e di “custodia dello studio notarile fino alla data
riportata nelle ultime volontà”.
In
altre parole, la lettera era stata scritta nel 1930 e spedita postuma. E
considerando che era un testamento, il che presupponeva che qualcuno fosse
morto, e che il foglio che teneva ancora in mano era stato firmato da un certo
“Adrian” (il figlio di Arthur?), probabilmente la morte del suddetto Arthur
Conan Doyle doveva essere avvenuta nei primi di luglio del 1930.
A
quel punto, John aveva rimasto poco in cui credere. Non era semplicemente
possibile.
L’indomani
mattina, come prima cosa, avrebbe cercato il numero dello studio notarile e
avrebbe chiamato per farsi dare spiegazioni. Semplicemente perché una cosa del
genere era completamente impossibile. E poi perché voleva chiarire la faccenda
di dove avessero trovato informazioni
a suo riguardo così dettagliate.
Ripiegò
la lettera e la inserì di nuovo nella busta, più confuso di quando l’aveva
aperta. Senza pensarci due volte, poi, prese la scatola e gli tolse il
fazzoletto.
Era
una semplice scatola di legno di ciliegio lavorato e laccato, contornata di
fiori di ferro simili a rose ed incisa con motivi di gigli sul centro del
coperchio. Dava l’idea di un accessorio lussuoso ma privato e, considerando che
il legno di ciliegio era ancora uno dei più pregiati, probabilmente lo era
davvero. Era chiusa da un piccolo lucchetto facente parte del legno la cui
chiave era stata unita alla lettera scritta a mano, intrappolata con la
ceralacca e quello che doveva essere lo stemma di famiglia dei Conan Doyle.
John
rimase nel dubbio per qualche istante. Se domani, chiamando, gli avessero detto
che era stato tutto un errore burocratico, sicuramente avrebbe dovuto rimandare
indietro tutto. Dunque, tecnicamente, non avrebbe dovuto affatto spezzare il
sigillo di ceralacca e prendere la chiave per aprire il portagioie.
Ma
c’era una voce, dentro di sé – una voce maledettamente simile a quella di
Sherlock e che gli faceva pungere il cuore di dolore – che gli sottolineava
quanto fosse impossibile il contrario; c’era il suo nome su quel documento,
dunque aveva il diritto di fare ciò che voleva con il portagioie.
Diede
retta a quella voce (come aveva sempre
fatto). Staccò con cura la chiave dalla carta, rompendo il sigillo di
ceralacca, inserendola nella piccola serratura e sbloccando il coperchio – il
meccanismo doveva essere un po’ arrugginito, dato che dovette fare un po’ di
forza per far fare due giri alla piccola chiave.
All’interno
non c’era molto. Anzi, non cera praticamente niente.
Le
uniche cose che vi trovò, furono un taccuino di pelle dall’aria antica di
quelli che si chiudevano ancora con i lacci, un orologio da taschino più grande
del normale – quasi quanto il palmo della sua mano – con in rilievo un piccolo
giglio fiorentino sul coperchio, ed un foglio ingiallito da tempo piegato in
quattro parti.
Soffiando
sulla polvere posatasi sugli oggetti, prese il foglio e lo spiegò.
Una
sola frase campeggiava nel centro esatto, scritta in una grafia sottile ed
allungata ma molto elegante.
Che
tu ci creda o no.
H.W.H.
John
fissò per molto tempo quella semplice frase, cercando qualcosa che nemmeno lui
sapeva cosa fosse.
Non
trovò nessuna risposta.
_____________________________________________________________________________
1.
9,8 m/s2 è la costante "g", alias l'accelerazione di
gravità valida sul pianeta Terra. Fisica elementare: ogni pianeta ha una
propria forza di gravità che dipende dalla composizione del nucleo (soprattutto
da quali metalli è composto), quella terrestre attira qualsiasi cosa verso il
centro del pianeta con una certa forza che fa "cadere" un corpo con
un'accelerazione "g" sopra quantificata.
2.
Il Suicidio è definito dalla Chiesa come peccato mortale (la Religione
cristiana vieta all'uomo di togliersi la vita che Dio gli ha donato ecc...),
motivo per cui i suicidi non hanno diritto ad avere un rito funebre
cristiano/cattolico. Se il suicida stesso non lascia direttive in merito alla
funzione, di solito si procede con un rito civile.
3.
Riferito al Processo di Norimberga, svoltosi fra il 1945 e il 1946 per punire i
criminali di guerra nazisti e della Shoah. La giuria era composta da esponenti
militari degli USA, dell'Unione Sovietica, del Regno Unito e della Francia. Fu
il luogo e l'occasione in cui nacque il reato di "crimini contro
l'umanità" di cui furono accusati molti dei più alti esponenti del partito
Nazista. Caso particolare fu la considerazione legislativa del ritenere la
maggior parte dei militari di basso rango impegnati nella campagna tedesca
innocenti perché eseguivano ordini dall'alto senza la possibilità di potersi
rifiutare.
4.
Chi ha detto Dr.House? XD Dato che House e Wilson sono ispirati a Holmes e
Watson, mi sembrava giusto ricambiare la cosa almeno un po'.
5.
La tomba di sir Arthur Conan Doyle si trova proprio a Crowborough, East Sussex.
C'è un perché anche a livello di trama, ma lo capirete solo più avanti ;D
(Spoilers ♪)