Premettendo
che, se si mette la canzone citata nel
brano e la si ascolta nel mentre, la scena rende molto meglio
(http://www.youtube.com/watch?v=tOc1O1OYO0U) , l’intera storia, a
partire dal
prologo, prende ispirazione al famoso manga/anime unicamente per alcuni
dati
tecnici, non vi sono quindi personaggi della trama medesima et
similari, è
perfettamente a sé stante.
Grazie
per l’attenzione, vi auguro buona lettura.
*§*EvilGrin*§*
Pro Filiis
De Sanguine - Prologo
Una coltre
di nebbia ricopre con il suo candore statico, putrescente il suolo di
quella
terra bagnata, violata dai corpi morti di chi vi giace in pace. Le
palpebre
calate, le labbra piegate in un’espressione serena, la pelle tesa, a
tratti
rigonfia, le dita intrecciate in una posa eterna, impossibile da
sciogliere,
come se quell’animo avesse trovato la propria fine in se stesso. Nato
tra le
lacrime e morto con un sorriso dipinto sulle labbra, dipinto come fosse
stato
tracciato dal tratto morbido ed accompagnato di un autentico pittore,
scolpito
per i secoli a venire, perché non possa mai abbandonare quel volto
figlio del
marmo. Un involucro vuoto, vestito come il principe di una festa, della
sua
festa, una festa volta a farlo apparire come il migliore degli angeli
anche se
il suo passato si fosse macchiato più e più volte di acceso vermiglio.
La fine,
quando arriva la fine non c’è nessuno che, a modo suo, non abbia avuto
modo di
essere stato un santo in vita, se ne raccontano le vicende, gli atti,
le azioni,
ritti su un piccolo banchetto in legno, con gli occhi celati da una
patina
lucida che ne offusca la vista, non solo quella che osserva i presenti,
ma
anche quella che ha guardato quello stesso corpo camminare e compiere
atti
meschini; quella patina lucida li cancella, li nasconde per un giorno,
donando
anche a chi non ne è degno, il suo giorno di gloria. Quel foglio
poggiato su un
banchetto, spiegazzato, bagnato da quelle sottili gocce di pioggia che
cadono
verso il basso, macchiando di piccoli aloni gli abiti lunghi e sfarzosi
delle
dame, rigando la chiara pelle dei volti dei loro mariti e figli. Gli
occhi
cerchiati da occhiaie di un rosso opaco, le labbra che tremano nel
pronunciare
quelle parole. Mentre Lui, Lui, sdraiato in quel letto di legno, il
capo ed il
corpo che affonda nella seta più morbida, i petali bianchi delle rose
che
denunciano un candore mai posseduto; Lui sembra sbeffeggiare tutte
quelle anime
perse, incupite dai loro abiti neri, sembra prenderli in giro con quel
suo
sorriso pacifico in volto, lui che deve star meglio lì dentro, che in
loro
compagnia.
Quella
coltre di nebbia pallida che ristagna ai piedi di quei figuri
slanciati,
fasciati di nero, con veli che scendono di fronte al viso, oscurandolo
e
coprendo i volti avviliti e quelli soddisfatti. Tra di loro vi è forse
anche il
suo assassino, la sua pelle chiara saluta i pochi raggi di Luna che
penetrano
tra le nubi più dense. La sua pelle li attira, li cattura, li trattiene
a sé,
mostrandosi, figlio di Giuda, nel più sfarzoso suo aspetto. Il suo
sorriso è
pacifico e candido al pari di quello di chi giace inerte nella più
ricca delle
bare. Le lacrime di pioggia cadono sul suo velo, rimanendo intrappolate
in una
malinconica ragnatela, quegli occhi scuri riflettono la posa statica di
colui
che è stato amante e vittima di quel predatore. Le sue mani, congiunte
e
poggiate con la più aggraziata dell’eleganza sulla stoffa nera e
soffice della
seta che ne fascia il corpo morbido e stretto in un corsetto che
delinea una
vita sottile, perfetta. Le labbra rosee sembrano quasi biasimare quel
figlio
disperato che sibila parole al vento su quel suo padre morto, ucciso
dal
peggiore dei veleni: la triste vecchiaia. Dietro di lui, in piedi come
piccole
statue di un presepe, si ergono giovani voci bianche, che attendono
solo il
loro momento. Quel momento in cui quel figlio devoto pronuncia le sue
ultime
parole, quel momento in cui china il capo in avanti, quel momento in
cui le
dita mascoline si stringono nella più pura ed innocente delle
disperazioni attorno
a quel foglio, piegandolo, accartocciandolo. Quel momento in cui le
lacrime non
sono dettate solo dalle gocce di pioggia che scivolano lungo il viso,
solcando
profondamente guance che non avevano mai saggiato il loro sapore
salato. Quel
momento in cui le gambe tremano e non reggono più l’effimero peso di un
corpo
quindicenne. Quel momento in cui una delle ginocchia si piega ed
incontra in un
attimo il legno umido di quello stesso banchetto su cui prima stava
ritto. Quel
momento in cui il suo respiro viene rotto da un pianto non più
discreto, non
più sommesso, che si sente, che viene portato via dal vento, portato
alle
orecchie di chi partecipa a quella cerimonia con il corpo e chi con la
consistenza eterea di quel che rimane della propria anima. Gli ospiti
di quel
luogo non possono non accogliere quel nuovo uomo, quella nuova ombra,
quella
storia che avrà da raccontare quando qualcuno la cercherà.
La nebbia
soffice avvolge ed attutisce ogni cosa. Ella chiude la festa in una
bolla dove
non v’è limite di spazio, dove il tempo rimane fermo in un lungo
attimo. Un
attimo speciale, vacuo, con le labbra di quelle stesse anime, bianche
pari ad
angeli, che iniziano a sussurrare poche parole, sibili taglienti che
sferzano
l’aria fredda di fine autunno, lasciando scivolare quei versi nel
vento,
cullati, accompagnati, nel loro essere penetranti, risultano come lievi
e
soffici sussurri, che si accavallano l’un l’altro. La pioggia che
sembra le
stia quasi udendo, fiato dopo fiato, a mano a mano che quelle gocce si
fanno
sempre più corpose, sempre più presenti e sempre di più appesantiscono
i veli,
bagnano le carni, costringono ad aprire pesanti e grandi ombrelli del
medesimo
colore dei loro abiti. È come vivere un sogno, è come guardare
dall’alto una
docile danza, è come sentire sulla pelle i loro lamenti inespressi, i
pianti
sommessi e strozzati delle donne, gli occhi rossi degli uomini, che non
osano
versar lacrime, in onore del loro ruolo. È come osservare dall’alto,
come Dio,
quei corpi ammantati di nero rabbrividire, la loro pelle accapponarsi,
non per
il freddo, non per il dolore, ma per quei sospiri cullati dal vento che
divengono voci, quel canto sottile che prende forma e spinge ad
ascoltare
quella pioggia che cade, la quale invita a godere del suono dei tuoni e
della
luce dei lampi, come fossero sacri.
«
Listen to each Drop of Rain, whispering Secrets in
Rain…»
Ogni
goccia, ogni pianto di angeli invisibili al cieco occhio umano, ogni
pensiero,
ogni segreto cade, impregnando quella terra sacra di un misticismo mai
avuto
prima. Solcando quelle terre si saggiano le urla, i lamenti, le risa,
la gioia,
la rabbia, la frustrazione e l’insofferenza di quegli stessi sospiri,
caduti a
terra, che rimarranno sigillati sin quando qualcuno non sarà in grado
di
poterli udire, di poterli ascoltare con l’attenzione di un bambino, che
dischiude le labbra nel sentire la più magica delle storie. Sgrana gli
occhi,
si siede sotto l’ombra di un ciliegio in fiore, raccoglie le gambe al
petto, ed
ammutolito, annichilito ed estasiato allo stesso tempo, ascolterà con
pura
gioia di fanciullo nel cuore le storie di vita passata di quell’anima
che
mostra la propria essenza ai chiari raggi di luna, che ne disegnano il
volto
afflitto, costretto a camminare su quelle tristi terre ancora per
molto.
«
Frantically searching for Someone to hear that Story
be more than it Hides. Please, don’t let go. Can’t we stay for a while?
It’s
just too hard to say Goodbye. Listen to the Rain»
Ogni anima
peccatrice che giace in quel luogo ha bisogno di un animo puro che
sappia
ascoltare quello che ha da narrare senza che scappi, traviato dalle
leggende,
dalle storie che macchiano la reputazione di quegli esseri traslucidi,
veri
solo a metà, solo nella voce, poiché privi di quel corpo che giace
nella terra,
violato e dilaniato dai vermi e dal tempo che passa, dall’acqua che
penetra il
terreno e gonfia il
legno, sino a
passarvi attraverso, rovinando quello che di sacro c’è lì dentro.
Sottraggono
prima la vista, portandone via gli occhi, si impossessano del gusto e
di ogni
loro sensazione, perché non possano più percepire nulla di ciò che
hanno
intorno, perché non possano udire, saggiare, vedere, toccare o essere
toccati.
Sono esseri ciechi che cantano le loro disperazioni al vento, sperando
che vi
sia colui che non fuggirà, al quale non dovranno dire “addio” per
l’ennesima
volta, attraverso il quale potranno tornare a vedere, toccare e
percepire, per
un solo secondo, ma sarà la gioia di un momento a donar loro la
salvezza
eterna. La pioggia decanta i loro peccati, li elenca uno ad uno, ma non
li
biasima, ricorda ai passanti che ognuno di loro versa ancora lacrime
dagli
occhi bui, per quanto ha compiuto, esattamente come quella pioggia
limpida
attraversa con estenuante lentezza i volti dei vivi. Quella pioggia che
vuol
essere ascoltata e che, per farlo, si riversa su di loro con la
violenza di un
uragano. Ma loro la rifuggono, non comprendono ed aprono gli ombrelli,
danzando
come Demoni nella notte più scura.
«I
stand Alone in the Storm, suddenly sweet Words take
hold…»
Le parole
dolci che corrono via dalle labbra di quella figura dalla pelle candida
almeno
quanto i raggi lunari che si riflettono in essa, invidiandola, alle
volte.
Parole che si perdono in quel canto, mentr’ella compie pochi e leggeri
passi
verso quel letto di mogano e seta, china il capo, mentre le mani
coperte di
nero pizzo afferrano i lembi più esterni di quell’abito sontuoso e
scuro,
tirandolo verso l’esterno, tendendo i merletti delle rifiniture sino a
stenderli quasi completamente. Il busto che si piega di poco in avanti,
il capo
chino, le palpebre socchiuse, in quella lenta riverenza, attenta ad
ogni
singolo movimento. Ogni suo gesto, ogni suo movimento è scandito e
disegnato da
una leggerezza angelica, come se il suo camminare o spostarsi fosse
paragonabile
al gesto fluido del battito d’ali di una nera farfalla, che, lieve, si
poggia
sul terreno su cui cammina. Le labbra carnose che si muovono lente a
proferir
parole ai più incomprensibili, che vengono coperte dal canto e dal
sibilo del
vento, mentre quelle luci bianche continuano a dare una voce a quel
luogo.
«Pater Noster
qui es in cælis:
sanctificétur
Nomen Tuum;
advéniat
Regnum Tuum;
fiat volúntas
Tua,
sicut in cælo,
et in terra.»
Queste le
parole, quei sussurri appena accennati che si accavallano a quei canti
che,
invece, regnano sovrani in quel luogo, pur non deturpandolo nella sua
sacralità.
«
Hurry They stay for you haven't much Time, open your
Eyes to the Love around you…»
Quella
stessa figura, avanti agli altri, tra tutti la più vicina a quella
salma, alza
ora il capo, apre le palpebre che, sino a poco prima, stavano celando
quegli
occhi grandi, quasi da bambina, con le loro scure sfumature amaranto,
che
osservano quell’uomo. Le mani rilasciano la stoffa della gonna ampia.
Solleva la
mano destra, avvicinandosi al cappello nero che copre i crini castani,
opportunamente acconciati. La stoffa nera della manica del vestito
scivola
lungo il braccio, liberando il polso e lasciando intravedere quella
pelle pallida
pari al marmo. Le dita si muovono abili e veloci a sfilare una delle
rose finte
che sono infilate come spilli su quel copricapo. Si sposta di lato a
quella
stessa bara, con le dita sapienti che sfiorano il bordo della bara, con
una
leggerezza ed un’eleganza che avrebbero fatto invidia a chiunque.
«Pro Filiis
De Sanguine.»
Lo sibila,
un sibilo che si ode meglio di quel padre nostro pronunciato poco
prima, ora
che poggia quella rosa nera sul petto di colui che Morfeo ha portato
via per
sempre, lo ha portato in dono ad una dea che non conosce perdono, una
dea che
ha per nome quello della morte, ma se qualcuno conoscesse davvero
quella
parola, non vi sarebbe scampo per la sua salvezza. Lo sguardo rimane
fisso su
quell’uomo che giace sereno, giunto al termine della sua vita.
«You
may feel you’re Alone, but I’m here still with
You. You can do what you Dream, just remember to Listen to the Rain.»
Le ultime
parole cantate da quegli angeli mortali, poco prima di un lieve coro,
continuo,
al quale le labbra rosee di quella figura si piegano in un sorriso
sereno. Da
le spalle agli altri, ma non impiega troppo tempo a voltarsi verso di
loro. Le
braccia che si allargano verso l’esterno, nemmeno invocasse un’eterna
preghiera, ma l’unica cosa che viene fuori da quella serenità è una
voce più
melodiosa di quelle che sono alle sue spalle, adesso, è più armoniosa,
ammaliatrice e demoniaca nel suo apparire tremendamente angelica.
«
Listen to each Drop of Rain, whispering Secrets in
Rain…»
Ripete,
mentre alle sue spalle tornano a sovrapporsi uno con l’altro i sospiri
di
quelle che non hanno più niente delle voci che erano, sono solo aliti
di vento
che cercano uno spazio in quel silenzio angosciante. Ma qualcos’altro
disturba
quella quiete e trasforma la placida ombra in una rete, filamenti
sottili
almeno quanto quelli della tela di un ragno si diffondono per la zona,
di loro
altro non si vede che il chiaro riflesso del chiaro di luna riverso su
loro
medesimi, a mano a mano che inquinano quella zona con la loro
blasfemia, a mano
a mano che avvolgono le braccia ed i colli di ognuno dei presenti,
strozzando
quei sospiri, spegnendo quelle luci e quelle voci, che riempivano
quella bolla
di attutito silenzio di una gioia nuova. Per ogni cosa che muore, ve
n’è una
che nasce, nuova, più forte dell’altra. Le labbra della donna si
chiudono per
un momento, le palpebre cadono inesorabili e l’udito si nutre di quei
dolci
lamenti, le urla di chi non sa come cacciare quella sensazione
opprimente, quel
sangue che cola dalle loro gole, che vengono tagliate ogni secondo di
più,
dilaniate e lacerate da quelle fila scure, sino a diffondere nell’aria
un forte
e dolce odore di sangue. Lo sente, il suo cuore non batte nessun
rintocco,
scandisce il tempo infinito di quel momento, quello in cui ognuno dei
presenti
passa sotto la crudeltà di una donna sola, di un Demone con l’aspetto
di un
Angelo. Le grida vengono meno a mano a mano che quelle forze li
abbandonano,
uno dietro l’altro, i bambini per primi, poi le donne ed i loro
rigogliosi
petti macchiati del loro stesso sangue ed infine gli uomini, che con
dolore
osservano le donne ed i figli spirare quell’ultimo alito di vita. Il
dolore,
mai emerso così prepotentemente. I loro corpi che si agitano, in preda
al più
profondo istinto di sopravvivenza, le loro mani cercano salvezza, i
loro
polmoni cercano aria, che è lì…la possono sentire addosso, ma non
arriverà mai
a soddisfarli, a placare quella Bestia che stavolta si dibatte nei loro
petti
vivi.
«I
stand Alone in the Storm…»
Quella voce
tremendamente soave quanto acuta e tagliente spezza quel momento in cui
è più
il sangue versato che le parole spese per farlo. Quando tutto tace e la
sete di
sangue di quell’essere viene placato inesorabilmente da quel forte
odore,
allora la sua stessa figura sembra esser in pace con se stessa, come se
avesse
compiuto ciò che doveva e niente di più. Quei sottili filamenti che
scivolano
via dai corpi come se fossero serpi velenose, che hanno appena carpito
l’ultimo
alito vitale di tutte quelle persone, dame, messeri, i loro figli,
senza provare
pietà nemmeno per i volti disperati dei piccoli. Quella medesima figura
che
abbassa solo adesso le braccia, piano, nel pieno della sua
soddisfazione, così
come riapre gli occhi scuri, perché possano godere dello spettacolo che
le sue
stesse forze hanno messo in piedi ed hanno risolto. Nel silenzio si può
sentire
la pioggia cadere incessante, un tuono rimbombare nell’aria, la luce di
un
lampo illuminare in maniera quasi spettrale quel macabro spettacolo.
Passi
leggeri la conducono sino al fianco di una donna riversa a terra, la
trachea
recisa, dolci fiotti di sangue che sgorgano in maniera irregolare da
quel
collo; l’espressione orribilmente deturpata da quella di paura di lei:
gli
occhi spalancati, le labbra dischiuse e la pelle contratta nella più
dolorosa delle
smorfie. Sorride beffarda quella dea, mentre si china a chiuder le dita
sottili
ed immortali attorno al manico dell’ombrello che le giace accanto,
ancora
aperto. Lo solleva, lo sguardo scuro della donna torna sul volto del
corpo
defunto, le dita gelide che si avvicinano a quel volto sconvolto e
passano
sulle palpebre, chiudendole con la delicatezza con cui, poco prima, ha
posato
quella rosa nera sul petto di quell’uomo vestito a festa. Lui, che
fissa con
sorriso beffardo e presuntuoso i corpi dei suoi familiari. Lui, il più
soddisfatto tra tutti, li guarda e non piange come avrebbero fatto loro
per
lui. Si rialza la donna, tornando a guardare quell’uomo, che adesso
nessuno
chiama più eroe, egli si mostra anzi per la sua natura meschina e
traditrice, come
doveva essere sin dall’inizio.
Nel silenzio di quel luogo, con quell’ombrello che ricopre un cappello ed un abito oramai zuppi, quella vedova cammina a passi lenti sulla ghiaia bianca per abbandonar quel luogo e lasciar finalmente riposare le sue anime, pronta ad ascoltare quelle lacrime malinconiche una volta ancora, in futuro, pianger per loro e lucidare le loro lapidi, se ve ne fosse bisogno...