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Autore: Ayla_    15/09/2012    0 recensioni
Julie ha sei anni quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale.
È una bambina ebrea, per questo lei e la sua famiglia verranno prese di mira.
Dal testo:
"Julie aveva solo sei anni quando la guerra scoppiò. Lo dicevano alla radio, ne parlavano i giornali che lei non sapeva ancora leggere, lo sussurravano i suoi compagni di classe nelle pause.
Si spaventò, le avevano detto molte e molte volte che la guerra era una cosa brutta, che faceva del male alle persone. Esternò queste paure alla madre, che sorridendo bonariamente le disse di non preoccuparsi, che la guerra era una cosa da grandi e che si faceva fra i grandi. Sempre sorridendo le aveva detto che i bambini non c’entravano e che poteva dormire tranquillamente.
Julie si era fidata come sempre del giudizio di sua madre."
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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Per non dimenticare.

 
Julie aveva solo sei anni quando la guerra scoppiò. Lo dicevano alla radio, ne parlavano i giornali che lei non sapeva ancora leggere, lo sussurravano i suoi compagni di classe nelle pause.
Si spaventò, le avevano detto molte e molte volte che la guerra era una cosa brutta, che faceva del male alle persone. Esternò queste paure alla madre, che sorridendo bonariamente le disse di non preoccuparsi, che la guerra era una cosa da grandi e che si faceva fra i grandi. Sempre sorridendo le aveva detto che  i bambini non c’entravano e che poteva dormire tranquillamente.

Julie si era fidata come sempre del giudizio di sua madre.

Andava tranquillamente a scuola, mentre le notizie che i Nazisti si avvicinavano sempre più a Parigi preoccupavano sua madre e suo padre, stancandoli quasi come un secondo lavoro.
Perché si, loro erano una famiglia con un cognome ebreo, ma solo il cognome. Erano molte generazioni che nessuno della famiglia era ebreo credente.

Intanto Julie cresceva, arrivando ad avere nove anni.

Un giorno ci furono tantissime esplosioni, e persone ferite che dovevano essere portate con urgenza all’ospedale. Julie si spaventò, di nuovo, e chiese alla madre se quella era la guerra.
La madre le disse di non preoccuparsi, che i bambini in guerra li lasciavano stare, che lei poteva dormire sonni tranquilli.

E ci credeva Julie, anche quando sua madre le aveva detto di utilizzare il suo cognome da nubile.
Ci credeva anche quando la obbligarono a portare una stella di Davide gialla all’altezza del cuore.
Ci credeva persino quando dei bambini la presero da parte a scuola e insultandola la picchiarono.
Ci credeva anche quando le fu interdetto l’accesso a molti posti, come la scuola, il mercato, i parchi o le piscine.
Ci credeva anche quando suo padre venne licenziato dalla fabbrica dove lavorava e furono costretti a cercarsi un’altra casa.
Ci credeva anche quando, per strada, incontrava le sue vecchie amiche di scuola che la guardavano come schifate e se ne andavano ignorandola o
insultandola.
Ci credeva anche quando venne l’inverno, freddo come pochi prima d’allora, e nessuno li aiutò ad avere un po’ di cibo o di legna.
Ci credeva anche quando sua madre si ammalò e suo padre non poté rivolgersi a nessun medico.
Ci credeva anche quando un giorno, all’improvviso, bussarono veementemente alla porta.
Suo padre ormai esausto andò ad aprire cautamente la porta.
Questa si spalancò, facendo irrompere all’interno dell’appartamento quattro Capo, armati di tutto punto, che gli ordinarono di preparare le valigie, che gli avrebbero portati in un posto adatto a loro.
Julie continuava a crederci, doveva crederci, anche quando sua madre, mentre tossiva almeno tre volte in un minuto, preparava le valigie piangendo.

Julie il giorno dopo avrebbe compiuto undici anni.

Li caricarono in macchina, portandoli chissà dove.
Li fecero scendere, e Julie si rese conto di essere in un vecchio magazzino.
Presero il padre, strattonandolo e mandandolo verso un altro camion pieno di persone, dicendo che lo avrebbero portato in miniera.
Le chiusero in quel magazzino per un giorno intero, senza ne cibo ne acqua ne bagni, mentre sua madre peggiorava sempre di più.
Le caricarono su un treno, venivano trattate come bestie o peggio. Erano stipati in una quantità esagerata di persone nel vagone merci di un treno, e non avevano mangiato da due giorni quando arrivarono.

All’arrivo esaminarono tutti, e poi le divisero.
Mandarono sua madre a fare una doccia, mentre lei la portarono in quella che sarebbe stata la sua casa.

Aveva la sensazione che non l’avrebbe mai più rivista e così fu.

Lavorava molto Julie, come tutti in quel posto.
I Capo e le SS non permettevano distrazioni, oppure la punizione era severissima.
Lavorava più di dodici ore al giorno, ricevendo come colazione e cena un pezzo di pane spesso secco e ammuffito e quando era fortunata della zuppa. Non appena accennava a fermarsi due secondi per riprendere fiato oppure diceva una sola parola veniva picchiata e per punizione non aveva cena o colazione.

Imparò presto a consolarsi, e a consolare gli altri bambini più piccoli.

Era lei la più grande fra i bambini, gli altri erano già considerati adulti.
Per cercare di far dimenticare per quanto possibile ciò che succedeva durante il giorno Julie la sera raccontava storie. Inventava fiabe, con principesse e castelli, con bambine e bambini che giocavano dalla mattina alla sera.

Passavano i mesi, Julie aveva dodici anni ora.

Una mattina, molto prima dell’ora della sveglia, li fecero alzare e sbattendoli malamente verso l’edificio delle docce.
La confusione era moltissima, SS e Capo che correvano da una parte all’altra del campo. Julie era sempre più impaurita, ma strinse la mano della piccola Marie che era vicino a lei per farle coraggio.
D’un tratto s’alzò un grido chiaro sopra agli altri.

“Stanno venendo a liberarci!”

A quelle parole la maggior parte della gente si ribellò. Trovarono il coraggio di ribellarsi, e la confusione fece in modo che Julie, Marie e un altro paio di bambini riuscirono a sgattaiolare a nascondersi.
La rivolta fu sedata presto e, fortunatamente senza accorgersi dell’assenza dei bambini, furono portati tutti alle docce.
Julie sentì esplosioni, spari, urla disumane percorrere il campo. Strinse a se Marie e gli altri bambini, cercando di rassicurarli e tranquillizzarli, anche se lei per prima aveva una paura folle.

D’un tratto tutto cessò, e dopo qualche minuto si azzardò a mettere la testa fuori dal nascondiglio.
Uomini in divisa stavano perlustrando la zona, quando un ragazzo abbastanza giovane la vide.
Lei si tirò immediatamente indietro, spaventata, ma non sentì nessun “prendetela!” o cose simili.
Riprovò a sbirciare e si ritrovò faccia a faccia col soldato.
Quest’ultimo la tratto con dolcezza e delicatezza, e le chiese con un accento un po’ strano se sapeva dov’erano tutti gli altri.
Julie non voleva parlare, quindi si limitò a indicargli l’edificio mezzo distrutto.
Lui la ringraziò, poi le disse che li avrebbe affidati ad un suo amico, un uomo simpatico.
Fece avvicinare un soldato (perché di quello si trattavano, Julie lo aveva capito) con una strana barba e gli affidò i bambini dicendogli di portarli alla base.
Per tutto il tragitto Julie strinse a se Marie, Sebastian e Thomas. Per tutto il tragitto si limitò a fissare incredula il paesaggio fuori dall’auto. Si era dimenticata che esisteva un mondo all’infuori del campo. Anche se era devastato da bombe e corpi le sembrò la cosa più bella che avesse mai visto.
Venne portata in un accampamento nelle vicinanze di una città. Le venne dato un alloggio dove dormire insieme ai tre bambini, che non potevano credere di avere la fortuna di poter dormire su un letto vero, anche se era solo una brandina metallica con su un materassino.
L’uomo con la barba uscì e al suo posto entrò una donna abbastanza anziana, che indossava il camice da infermiera.
Chiese il permesso e fece alcune analisi, constatando che erano affetti da malnutrizione e disidratazione.
Poi gli fece fare un bagno, gli diede dei vestiti nuovi e gli portò dei piatti con qualcosa da mangiare e dell’acqua.
Si scusò, dicendo che al momento erano senza troppe provviste, ma che la guerra volgeva al termine e che sarebbe stato più facile chiederne altre.

Ma a Julie rimase una domanda: dov’era il soldato misterioso, quello che l’aveva trovata?

Dopo essersi accertata che gli altri bambini stessero dormendo si mise seduta sul suo letto. Perse la cognizione del tempo quando sentì delle voci fuori dalla loro tenda.

“Si, sono qui. Stanno dormendo. Hanno avuto una bella fortuna a salvarsi. Per fortuna li avete trovati voi e non gli ultimi sopravvissuti nazisti.”

“Come stanno?”

Julie la riconobbe, era la voce dell’uomo che l’aveva trovata.

“Malnutriti, disidratati, pieni di lividi e ferite, la minore ha un principio di infezione all’occhio destro ma nulla di grave. Più che altro la maggiore non parla. Non ha detto una parola, solo cenni col capo. Gli altri stanno tutto sommato bene.”

Julie si alzò. Non aveva parlato perché non aveva nulla da dire. Ma ora qualcosa da dire ce l’aveva.
Uscì dalla tenda, guardò il soldato che le sorrise e disse semplicemente:

“Grazie.”

Poi scoppiò in un pianto disperato.
Piangeva per la tensione accumulata in tutto quel tempo.
Piangeva perché voleva i suoi genitori.
Piangeva perché aveva tenuto dentro tutto e si era mostrata forte di fronte agli altri bambini.
Piangeva perché non riusciva a credere che fosse tutto finito.
Piangeva perché credeva che fosse tutto un sogno troppo bello, e che da un momento all’altro si sarebbe svegliata nel campo.
Piangeva, come non aveva mai fatto, di un dolore così adulto che stonava sui suoi tratti delicati da bambina.
Il soldato si limitò ad abbracciarla, e la tenne stretta a se a lungo.

Julie si trovò nella sua brandina la mattina dopo. Si alzò, constatando che i bambini non erano più con lei. Si fece prendere dal panico e corse fuori. Si scontrò con l’infermiera del giorno prima, che le sorrise e la portò nella mensa, dicendo che i suoi amici erano li.
Julie si sedette, contenta come non mai.
Appena finito tornarono tutti nella loro tenda. Si riaddormentarono, mentre Julie si chiedeva cosa ne sarebbe stato di loro. Insomma, non avrebbero potuto vivere per sempre in quell’accampamento, erano solo un peso.

Qualcuno la scosse piano, svegliandola.
Era il soldato, che aveva scoperto chiamarsi Jack. Le fece cenno di fare silenzio e di seguirlo e lei obbedì, ancora mezza addormentata.
Appena furono fuori dalla tenda lui le disse:

“I miei superiori dicono che non potete restare qui per sempre. Dicono che non è l’ambiente adatto per crescere dei bambini e che voi, se non avete più parenti,”

Julie scosse la testa. Erano tutti morti.

“dovreste andare in un orfanotrofio. Ma vedi, io ci sono cresciuto in uno di quei cosi e ti assicuro, non è bello.”

A Julie si riempirono gli occhi di lacrime, ma non lo fece vedere. L’importante per lei era stare insieme a Marie, Sebastian e Thomas.

“Per cui ho chiesto il congedo anticipato per via della gamba che mi è stato concesso e ho deciso di portarvi con me in America. Ovviamente non potrò tenervi tutti e quattro, ma la moglie di mio fratello non può avere figli e ha sempre desiderato averne. Se a voi va bene, ovvio.”

Julie era d’accordo, eccome. Avrebbero avuto una casa, tutti quanti. Jack si era appena offerto di adottare due ragazzine sconosciute e che sarebbero state sicuramente difficili da crescere. Così aveva appena fatto anche suo fratello.

Le lacrime scorsero, ma stavolta di gratitudine.
Guardò la gamba di Jack, e si accorse che in effetti era fasciata e che lui zoppicava. Ieri non se n’era accorta.

Partirono dopo una settimana.

Julie era felice, per quanto i ricordi e le paure continuassero a tormentarla. Jack ed Elisabeth furono dei bravi genitori con lei e Marie, e così furono anche Peter, il fratello di Jack, e Gwen. La famiglia era unita, e di questo lei era felice.
Sognava spesso la guerra, ma anche i suoi genitori che erano felici.
 
 
Julie si sposò e visse una vita tranquilla, avendo due figli e cinque nipoti. Morì nel sonno, con un sorriso che l’accompagnava e sembrava dire a chi la guardava:

Non ti preoccupare e non piangere. Io non sono triste.
 

 
 
 


Oddio, non so da dove mi è uscita una cosa così triste.
Sapete, mentre la scrivevo mi sono quasi commossa, davvero.
Comunque, l’ho scritta perché mi premeva contro le dita, dicendomi di scriverla, e per non dimenticare.
Ci tengo a precisare che é finita bene perché mi è uscita così, ma ricordate che non c’è quasi mai stato un lieto fine per chi è stato messo nei campi di concentramento.
Personalmente trovo orribile quello che degli uomini (inteso come umanità) hanno potuto fare ad altri uomini e che purtroppo in altre parti del mondo continua a succedere.
P.S: ditemi se il rating arancione è troppo. Personalmente lo credo, ma non so...
Un bacio,
Ayla_
 
  
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