Disclaimer:
naturalmente i personaggi non sono di mia proprietà.
~
“Ma
anche altri venti, meno costanti, che mutano direzione, che abbattono cavallo e
cavaliere, per riorientarsi in senso antiorario.”
Michael
Ondaatje, Il paziente
inglese
Venti
contrari
[di
grazia e violenza]
La
pallida figura sembra a prima vista stonare eccessivamente con l’ambiente che la
circonda. Troppo buio, e troppo sfocato per occhi che sono abituati a capire e a
delineare in fretta le immagini. Troppo evanescente per una casa così concreta,
troppo eterea e apparentemente candida per gli abiti che la
rivestono.
E
le mosche bianche muoiono in fretta.
Alza
un braccio con un movimento svagato, volutamente distante dal mondo, le dita
scorrono sui tomi impolverati e segnati da un tempo che a lei sembra esser
diventato estraneo. Si sporcano appena, giusto un fantasma di grigio sui
polpastrelli morbidi.
Porta
giù un libro a caso dallo scaffale e scende per la scaletta con gli occhi bassi,
fa quasi per cadere, poi ritrova l’equilibrio. Esce dalla stanza della
biblioteca e si porta lontano dai suoi appartamenti. Ha solo voglia di cambiare
un po’ l’aria perché a volte
l’atmosfera in quella casa diventa davvero irrespirabile.
Per
quanto sia possibile.
Il
libro è leggero come un soffio di vento, eppure a lei sembra pesare più di
quanto si possa immaginare. Si trascina per quei corridoi a cui lancia occhiate
fugaci e disinteressate in quanto, per lei, c’è soltanto lo spiraglio di
luce che entra da quella porta, lontana, ma stabilmente sicura in una dimensione
in cui ormai si fa a fatica a riconoscere la realtà e il confine con il sogno si
fa così labile da portarti a dire di si ad ogni cosa.
E
per lei era stato un po’ così: avete presente il
vento?
Datoo
Hinata
aveva chiuso la porta dietro di se e aveva lasciato che la luce di un bianco
accecante la avvolgesse: sorrise beata, quasi di nascosto, grata al tempo per averle
concesso una giornata così bella. Lei le stava quasi dimenticando, quindi non
poteva che essere felice. In quella dannata casa la luce sembrava quasi venire
risucchiata, veniva filtrata dai vetri opachi o veniva deviata da un so che di
maligno. Anche lei preferiva girarne
al largo. Più che comprensibile.
Come
stiamo toccando il fondo
Raggiunse
la sedia e il tavolo che miracolosamente avevano retto all’inspiegabile
decomposizione che era invece così estranea alla casa e al suo interno. L’abito
di Hinata si sporcò con la ruggine, macchiandosi ai bordi e poi con la terra
brulla che difendeva strenuamente quel poco di naturale che le era rimasto. D’altro
canto quello era il suo spazio privato e seppure lei si stesse ormai,
inesorabilmente spegnendo, la fragranza della sua presenza restava. Come se il
Datoo soffiasse continuamente, con la sua leggerezza e il suo tipico profumo.
Proteggendo quello spazio che non era realtà, che non era
sogno.
Come
un fragile giardino ai confini del mondo
Aprì
il libro e se lo portò in grembo, e lasciò che le orecchie catturassero suoni
banali come lo sporadico canto di qualche uccellino che, in maniera avventata si
era spinto fino a quella casa. Con i suoi occhi bianchi lo scorse su un ramo
lontano, oltre le mura che circondavano il primo anello che ospitava il suo
giardino. Avrebbe voluto tenere un uccellino, o un gatto. Un qualsiasi essere
vivente che le tenesse compagnia. Un tempo lo avrebbe desiderato con tutta se
stessa, ma adesso mai vorrebbe qualcuno da trascinare nel suo baratro, in quella
casa dominata dall’ombra di lui.
I
venti velenosi sanno sempre cosa vogliono.
Riportò
la propria attenzione sulle pagine
ingiallite, su cronache di clan i cui nomi erano ormai disegni sulla sabbia,
pronti a sparire alla prima mareggiata più violenta delle altre. Ma non che
Hinata fosse poi così interessata al libro: aveva solo bisogno di pensare con
tutte le sue forze.
Quando
per la prima volta aveva incontrato Itachi Uchiha aveva appena 16 anni e nulla
alle spalle. Se fosse scappata da Konoha non avrebbe lasciato niente: una
famiglia [che non la riconosceva],
amici [che dormivano un sonno
infinito] e una casa [il termine
stesso imbevuto d’ipocrisia].
Ma
non per questo non tentò di sfuggirgli. Aveva dei principi,
lei.
L’esito?
Scontato, anche troppo. Ed il viaggio verso la dimora dell’Uchiha fu il semplice
sostare in un sogno transitorio.
Un
giardino, lui aveva scelto per lei un giardino. Una piccola accortezza, quasi il
fantasma di una cortesia.
Hinata
sollevò gli occhi dal libro e riguardò il cielo. Si stava oscurando, perché una
grossa nuvola aveva ricoperto il sole e le ombre sembrarono ad un tratto calare
più in fretta. Assottigliò gli occhi e si portò una giacca sulle spalle nude.
Lei
poteva essere debole, ma non stupida e sapeva bene perché Hitachi l’aveva
portata fin lì.
Itachi
Uchiha voleva il segreto dei suoi occhi.
Tornò
istintivamente alla sua lettura: era un trattato sui venti. Che cose strane, i
venti. Ci sono quelli regolari, quelli
periodici e poi ci sono quelli che di regole, proprio non ne hanno. Certi
venti che sembrano avere coscienza propria.
Soffiano
dove pare loro e con i loro gemiti turbano le notti delle persone, rendendole
insonni. E magari ci godono anche nel vederli agitarsi tra le lenzuola,
affascinati e inorriditi da quelle urla e da quegli spifferi che penetrano fin
sotto la carne. Hinata si ricordava
che quando il vento soffiava, il calore delle coperte sembrava essere
risucchiato fuori.
Eppure
per quanto paura le facesse, quel vento che spirava così forte da est, non
poteva assolutamente fare a meno di ascoltarlo.
Fece
scorrere gli occhi più giù, leggendo lentamente, poi dopo aver letto l’ultima
riga decise di chiudere il libro e tornare dentro.
C’era
un’altra notte che l’aspettava e il vento ormai si era
alzato.
Un
vento che la spingeva in un’altra direzione
Lui
era arrivato, lo aveva visto giungere, da lontano. Hinata chiuse il libro,
donandogli ancora un’ultima occhiata vagamente interessata, si alzò e spinse la
sedia sotto il tavolo. Chiuse la porta del suo giardino e tornò in quella che era
la loro casa.
E
Hinata nemmeno ci pensava più in fin dei conti. Vivevano insieme e lei era
sua.
Hitachi
era nella stanza, in piedi e si soffermò a guardarla per un attimo
appena
Non
lei, ma i suoi occhi.
Ad
Hinata piace credere questo.
Lei
deve crederlo.
Le
unghie appena sporche di sangue, di polvere rossiccia e l’odore che aveva
addosso la diceva lunga. Lasciò cadere la sua borsa a terra e si avvicinò a lei.
Le si avvicinò in maniera quasi assoluta, come un qualcosa che non
prendeva nemmeno in considerazione compromessi o peggio, rifiuti. Ad Hinata il
libro le sfuggì di mano mentre sentiva il suo corpo schiacciato al muro,
bloccato tra la parete e quello di lui. Tempo fa avrebbe tremato, avrebbe
urlato, pregando di scomparire così, come se nulla fosse. Adesso sperava
soltanto che l’odore della brezza fresca che l’aveva circondata non sparisse
subito dal suo corpo. Naruto-kun
una volta le aveva detto che aveva un buon profumo addosso, un profumo lontano,
con un che di salato, di marino.
[Lei sa di non dover
fuggire]
Si
trovò sdraiata sul letto senza nemmeno rendersene conto. Era lì, immobile,
mentre Itachi si spogliava del suo lungo cappotto nero abbandonandolo su una
vecchia sedia.
Hinata
poteva indovinare sempre cosa pensava, e forse questo era quello che Itachi più
odiava di lei. Quando la spingeva sul letto, lo faceva sempre con una violenza
inaudita: il materasso riceveva Hinata altrettanto duramente quasi per un tacito
accordo stipulato con l’Uchiha. Le lenzuola le irritavano la pelle, il letto era
troppo morbido, l’aria troppo soffocante per un vento così
dolce.
[che
sa penetrare da sotto le porte. Odioso.]
Se
c’è una cosa che lui adora è accarezzarle la pelle attorno agli occhi. Con le
dita traccia linee di sangue sulle palpebre, scivolando sulle tempie e poi
ritornando sul viso, quasi a volerla segnare, a gridare a tutto il mondo che
quella parvenza di donna era sua e di nessun altro e che solo lui aveva il
diritto di piegarla. Perché Hinata non si spezzava mai: simile al giunco, ogni
male le scorreva addosso come il più flebile vento.
[Odioso,
quel vento impercettibile ma costante]
Lui
continuò a spogliarla, mentre lei guardava il soffitto, come se quello che
stesse avvenendo non la toccasse, la denudava con una rabbia che a fatica
riusciva a celare. Cos’era quella sensazione? Quegli occhi distanti sembravano
perforargli l’animo, sembravano sussurrargli parole di conforto troppo tristi da
udire, troppo emotive e
consolatorie.
La
seta del kimono scivolò via, con i fruscii sommessi che le sono propri, una
ruvida carezza per la pelle di Hinata prima della violenza del suo
amante.
[Amante]
Itachi
quando la possiede l’investe, sembra quasi volerle divorare l’animo. Le
stravolge il corpo, i sensi, le tortura ogni centimetro di pelle nuda: è come se
scavasse in lei per cercare un
qualche segreto che i suoi occhi tacciono.
Hinata
quando è posseduta lo avvolge, sembra quasi volerlo accogliere nella sua anima.
Lo circonda con le sue braccia e porta la sua testa sulla sua spalla bianca,
sembra quasi cullarlo, quasi a voler disperdere il veleno che lo intossica. È
come un sussurro di redenzione che Itachi vorrebbe poter udire.
Samiel
Le
labbra di lui andarono per l’ennesima volta ai suoi occhi, la testa di Hinata
quasi intrappolata tra quella di Itachi e le sua mani che le accarezzavano i
capelli. L’odore del sangue le giungeva stranamente dilatato andando a formare nella sue
mente immagini crudeli, di corpi straziati con estrema eleganza.
Se
c’era un vento che somigliava ad Hitachi, pensò Hinata memore della lettura
interrotta qualche ora prima, era il Samiel.
[Vento e veleno]
è
strano a dirsi, ma il piacere in quel momento li avvolse entrambi. Strano a
credere che due persone così diverse potessero giacere nello stesso letto.
Hinata non ha paura quando è con lui, anche se a volte le fa male, anche quando
il sangue lascia impronte nascoste su di lei, difficili da lavare. Potrebbe
quasi essergli grata per averla
portata via da quel grigiore. Potrebbe e in fin dei conti può. Lontana dalla
morale non ha nulla da temere, nemmeno un amore sbagliato. Non ci sono occhi
bianchi pronti a giudicarla, né tantomeno sguardi commiseratori. In quella casa
è sola, con se stessa e lui. E i loro segreti e ricordi del passato che si
trasformano insieme a loro.
E
lui era proprio come quel vento, il Samiel, e devoto alla sua natura l’aveva
portata via, lontano.
Quando
Hitachi appoggia la testa alla spalla di lei, Hinata sente il suo corpo quasi
fremere, scosso selvaggiamente da quel vento d’oriente, che solcando il deserto
strappa via dai fiori petali avvelenati e infuria contro le città dei
potenti. E Hinata non può non
nascondere una punta d’orgoglio pensando che quella furia è tra le sua braccia e
che solo lei può fronteggiarla.
[Che lei sola può restargli
accanto]
Si
sente forte, come in vita sua non lo è stata mai. Hinata non ha mai saputo cosa
significasse sostenere qualcuno, e ancora non sa bene cosa comporti essere forza
per se stessi e per gli altri, ma scoprirlo, ecco, questo non le fa paura. E
vorrebbe andare avanti. Itachi non avrebbe mai immaginato di giacere accanto a
qualcuno. Ne tantomeno di lasciare che avvenisse qualcosa di paurosamente simile ad un abbraccio e
questo Hinata lo sa, e solo per questo le sue braccia lo cingono più forte,
quasi a sussurrargli non cadrai, non
cadrai.
[Ci
sono io, questa volta]
Ogni
volta che finiscono, Hinata comincia a parlare.
Parla,
Hinata parla. Quando lei parla la memoria di Itachi torna indietro nel tempo,
fin quando non si ferma in una giornata assolata, arida, con le cicale a frinire
in sottofondo e le immagini a svanire, ad evanescere, nel caldo. Lui era lì, ombra
sbagliata appena visibile e lei gli era davanti, pallida figurina addormentata
ai piedi di un albero lontano dalla tenuta Hyuuga. Non una sola goccia di sudore
le scivolava dalla fronte, lo yukata candido non aveva una piega: se ne stava
lì, perfetta [come un animaletto di
vetro. Si guarda, ma non si tocca], solo per essere guardata, vietato anche
solo sfiorarla con il pensiero.
Lei,
la Hyuuga, sola come sempre, fuori da un mondo che non ha mai capito, [che non l’ha mai
capita].
Hitachi
si era avvicinato e la sua ombra si era fusa con quella dell’albero, aveva
coperto con passi misurati la distanza che li separava e si era inginocchiato
davanti a lei, avvicinandosi al suo volto addormentato. Le dita erano andate a
sfiorare le labbra sottili, le guance e poi quegli occhi, quelle palpebre chiuse
e coprire il nulla [il candore del
vuoto] che Hitachi poche volte aveva visto. Aveva aspettato così, immobile,
finchè non si era svegliata, giusto il tempo di ammirare i suoi occhi bianchi e
farle credere che solo per quello
l’avrebbe portata via. E Hitachi forse crede che per lei sia ancora così. Anche
lui, come lei, deve crederlo.
[Perché non può esserci amore tra due persone
così]
Silenzio.
Il ricordo di quel giardino ancora aleggiante tra di loro, un fantasma di grazia
per un gesto di apparente violenza.
La
bocca di Hinata si chiuse, piegandosi in un sorriso che Hitachi non vide morire,
le mani di entrambi si andarono a cercare in sincrono, riuscendo a raggiungersi
e a stringersi per una volta ancora, in quel giorno. Le dita ad accarezzarsi per qualche attimo,
quasi giocando tra di loro,
disegnando nell’aria un vorticare[di
venti contrari].
E
rimasero così, per minuti, ore, tempo infinito, gustandosi una tregua mai
chiesta ma sempre ben accetta.
Hinata
diceva sempre che l’uomo che l’ascoltava sempre parlare così a lungo [almeno lui l’ascoltava] era come il
Samiel che soffiava da Est e che divorava tutto al suo passaggio, strappando il
veleno alla sua pianta e diffondendolo nell’aria. Lui era il vento che corrodeva
i corpi e gli animi e che lasciava al suo passaggio solo la polvere rossa del
deserto, su scheletri abbandonati nel nulla.
Itachi
diceva che la donna che teneva in gabbia [gli costava troppo chiamarla casa,
quella] era come il Datoo, il vento che soffia fragrante da ovest, che
sfiora le onde del mare, rubandone il sapore e portandolo con se, verso posti
sempre più lontani. Il vento che riempie anche le più sporche abitazioni,
facendo ondeggiare le tende come fossero bianche vele.
Sanno
entrambi che non è amore il loro, quello che consumano la notte tra i sospiri, e
nel giorno con i silenzi, ma solo un incontrarsi di venti contrari,
incompatibili e quindi destinati a soccombere l’uno
all’altro.
Venti
contrari