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Autore: MelethielMinastauriel    18/09/2012    0 recensioni
Mi chiamo Anna Armstrong e sono una semplice studentessa. La mia vita però viene stravolta dall'arrivo di un gatto, innocuo all'apparenza, trovato per caso nello sgabuzzino di casa mia (ancora non capisco come ci sia finito lì!) Non avrei mai pensato a tutto ciò che sarebbe successo dopo...
Fanfiction sclero ideata da me e da Carola durante le noiose lezioni di un Liceo Classico. Non mancheranno parodie ed imitazioni di prof e/o fatti realmente accaduti!
Genere: Commedia, Demenziale, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VII: In quattro gatti

Trascorsero alcuni giorni dall’incidente del povero veterinario. Da allora, la mia rutine quotidiana si poteva riassumere in poche ma cicliche fasi: scuola, pranzo, compiti, e svago serale. Tra una cosa e l’altra, mi assicuravo che tutto filasse liscio come l’olio con il Gatto.
I miei genitori erano sempre al lavoro, super impegnati come sempre, lasciandomi a casa da sola la maggior parte dei giorni della settimana. Tuttavia, nel poco tempo libero che aveva avuto, mamma si era preoccupata di dare al Gatto tutto il necessario per renderlo domestico a tutti gli effetti. Così acquistò, al negozio d’animali più vicino, una lettiera, una ciotola di un bel azzurro brillante con una scritta idiota sopra che recitava “micio miao” (quando me n’ero accorta non sapevo se ridere o piangere: mia madre non si era smentita neppure quella volta!), dei bocconcini di pollo, una spazzola per pulire il pelo dell’animale ed infine un collarino antipulci di color rosso con una targhetta.
Per rendervi meglio l’idea di quanto fosse assurda quella situazione, vi dirò di più: la targhetta in questione venne fatta incidere dall’unico orafo della città. Mia madre aveva insistito tanto per fare le cose come si deve, e quando disse all’uomo che il nome del gatto era, beh, Gatto, lui scoppiò a ridere. Ma, accorgendosi che mia mamma stava diventando rossa dalla rabbia e, realizzando che da lì a poco si sarebbe ritrovato una cinquina in faccia senza ricavare alcun profitto dalla cliente, si mise subito al lavoro.
Così, nel giro di pochi giorni, il Gatto divenne ufficialmente il gatto di famiglia, tra mia madre che commentava ogni sua azione, anche la più stupida, come quella di sedersi o pulirsi una zampa, con la stessa meraviglia di una bimba di cinque anni, e mio padre che borbottava e bofonchiava maledizioni e bestemmie sul pelo bianco lasciato praticamente ovunque. A volte capitava che gli venisse da starnutire proprio mentre di lì passava il gatto: e allora giù imprecazioni varie, accusando il povero (povero?!?) felino di colpe che non aveva, come portatore di assurde malattie. Poi mio padre, accortosi che l’animale era più sano di tutti noi tre messi assieme, cominciò a convincersi di essere allergico al pelo del gatto.
Insomma, per farla breve, cercava in tutti i modi di cacciare quella bestia di casa, ma ovviamente mia madre lo ignorava, alzando gli occhi al cielo e sospirando di tanto in tanto.

In verità, il gatto in quei giorni era stranamente tranquillo e non lo si poteva accusare proprio di nulla e trascorreva la maggior parte del tempo a esplorare la sua nuova casa e a ordire un piano per conquistare il mondo, come ne ero assolutamente convinta io, sapendo come erano andati i fatti di tutte le sue birichinate. Sapendo già che, se lasciato libero, quel gatto sarebbe potuto diventare un potenziale delinquente, lo controllavo giorno dopo giorno, con un’ attenzione quasi maniacale. E invece in parve accadere nulla in quei giorni e puntualmente le mie aspettative di trovarlo ancora una volta a scrivere sui fogli o fare cose assurde per un gatto venivano deluse.
Ma io sentivo, sì esatto, sentivo che prima o poi la sua vera natura sarebbe venuta di nuovo fuori e mi avrebbe stupito con qualcosa di nuovo e ai confini della legalità, trascinandomi chissà in quale altro pasticcio o problemi con la legge. Era solo questione di tempo.

E infatti questo avvenne. Le acque cominciarono presto a muoversi. Ma vi giuro che non mi sarei mai aspettata di ritrovarmi coinvolta in cose assurde come quelle che mi capitarono. Ma andiamo con ordine.
Dunque, si sa che i gatti non sono animali da tenere chiusi in casa per l’eternità. Infatti, spesso lo trovavamo appollaiato dietro le finestre intento a guardare fuori, oppure a strusciarsi vicino la porta chiusa. Dopotutto, non sapevamo da dove venisse di preciso, se fosse randagio o scappato da chissà quale casa del quartiere. Quando lo trovai in cantina, cosa che tra l’altro non riuscii mai a spiegarmi senza mettere in dubbio la mia sanità mentale, non aveva alcun collarino e il pelo non era così sporco e spelacchiato come quello di un gatto di strada.
Cominciammo con il permettergli di andare fuori a fare qualche passeggiata. Spesso ero proprio io ad andare con lui, con la scusa di prendermi una pausa tra un libro e un altro da studiare.
La prima cosa che notai, era la destrezza con cui voltava gli angoli e la sicurezza che ostentava nel percorrere dei vicoli che neppure sapevo che ci fossero. Questo dimostrava come conoscesse molto bene quelle strade, molto più di quanto non immaginassi (e qui ci sta un no shit, Sherlock!). Cominciai col chiedermi se non fosse infastidito dalla mia presenza, così presi a camminare con passo più lento ed aumentare la distanza tra me e lui. Delle volte dovetti stare attenta a non perderlo proprio dietro l’angolo e mi sorse il dubbio che non lo stesse facendo di proposito proprio per far perdere le proprie tracce.

Non feci neppure in tempo a pensarlo che lo persi di vista e del gatto bianco, che camminava con altrettanta spavalderia tra un marciapiede e un cassonetto, non vi era più traccia.
Il mio primo pensiero andò al se fosse stato in grado di tornare a casa da solo e possibilmente, senza rischiare di finire in qualche guaio. E se invece sapesse dove stesse andando? Forse aveva deciso di tornare alla sua vecchia casa dalla quale era scappato?
Non sapendo cosa fare, feci dietro front e mi allontanai il più in fretta possibile da quella zona poco sicura per una ragazzina come me e temevo che da ogni angolo potesse sbucare fuori qualche malintenzionato.
Quando tornai a casa, sperai con tutta me stessa che il gatto sarebbe tornato almeno prima dell’ora di cena e che mia madre non si fosse accorta della sua assenza. Se così fosse stato, mia madre di sicuro mi avrebbe rimproverato, dato che più lei, tra tutti noi, si  era affezionata a quella bestiola, nonostante l’animale non avesse mai dato segni di affetto nei suoi confronti. Anzi, mio padre lo scansava come la peste, con mia madre faceva l’opportunista miagolandole in modo dolce solo quando lei maneggiava la scatola del cibo, e quanto a me, beh, si divertiva a provocarmi o a coinvolgermi in brutte avventure che non augurerei a nessuna ragazzina della mia età, dico sul serio.
Vorrei vedere voi come reagireste se un gatto infilzasse un ago nel braccio del veterinario giusto davanti ai vostri occhi per poi comportarsi come se nulla fosse mai accaduto.

Passarono le ore e il sole andò via. Da lì a poco sarebbero tornati i miei genitori dal lavoro e avremmo cenato tutti assieme, e per tutti assieme intendo dire gatto compreso. Solo che in gatto non c’era ancora.
Cominciai a preoccuparmi sul serio e la mia mente a viaggiare tra le ipotesi più impensabili: forse era tornato a casa sua, forse aveva ingannato un’altra famiglia e ora si trovava sotto un altro tetto o, peggio ancora, era stato investito. In men che non si dica mi venne tanta tristezza perché sì, quel gatto era il Diavolo incarnato in un felino e per colpa sua ne avevo passati di guai, ma era come se avesse portato una ventata di nuovo in famiglia. E ora, al pensiero che probabilmente non sarebbe tornato più…
Sgusciai fuori dalla cameretta, buttando in aria i libri. Nel tema in classe del giorno dopo avrei parlato di come fossi riuscita a salvare un gatto anziché sulla corte di Carlo V, prendendo un ottimo voto solo per l’originalità.
Mi munii di chiavi e aprii la porta per gettarmi fuori in una corsa che mi avrebbe lacerato i polmoni.
Già mi vedevo io, tutta sola, intenta a chiamare a squarciagola un gatto di nome Gatto, mentre i vicini di casa si apprestavano a chiamare il 118 e magari sì, sarebbe pure venuto a piovere e avrei rischiato di prendere una broncopolmonite pur di riportare a casa il micione e saremmo tornati a casa, tutti felici e contenti.
In un universo parallelo sarei potuta diventare un’ottima regista.

E invece non accadde nulla di tutto questo. Il Gatto stava in giardino, davanti l’entrata e non era solo. Assieme a lui c’erano bel altri 3 felini di aspetto molto diverso l’uno dall’altro. La prima era una gatta, probabilmente di razza Peterbald data la sua quasi assenza di pelo, che io, da lì a qualche giorno cominciai con chiamare Gatta di marmo perché sembrava fredda e inespressiva, poi ce n’era un altro rosso tigrato con una grossa cicatrice sull’occhio destro e reso perciò inutilizzabile, oltre che altre ferite lungo il muso e altre parti. Quello per me prese il nome di Gatto Morto, perché aveva l’aria di uno davvero poco raccomandabile. Infine ce n’era uno grasso, ma così grasso, che sembrava che avesse mangiato un altro gatto. Le zampe erano tozze e corte perché buona parte di quelle erano coperte dal grosso strato di adipe e pelliccia; per distinguerlo dagli altri lo chiamai Gatto di Piombo, che aveva a che fare sì con la sua natura, ma nulla a che vedere col colore del suo pelo che era di un caldo marrone scuro.

Insomma, nel mio giardino c’erano quattro gatti che parevano dei brutti ceffi e stavano complottando chissà che cosa tra un soffio e un miagolio.
Qualcosa mi disse che quello nel giardino di casa mia era un clan, e che Gatto, il mio gatto, fosse il capo e che tutti gli altri tre fossero appena stati reclutati durante quella passeggiata pomeridiana.
E qualcosa mi disse anche che i miei guai erano appena cominciati.
   
 
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