I’m scared of losing you, you are worth to
much to lose.
La
prima volta che l’aveva vista non le era sembrata che una tra le tante.
Era
solo un’altra fan che credeva di amarlo e conoscerlo e, per quando ogni volta
che si trovava davanti a un tale genuino sentimento nei suoi confronti
ne rimaneva commosso, non era una gran novità.
L’aveva
trovata in un letto d’ospedale, il braccio destro steso passivamente su un
fianco sopra le coperte da cui erano attaccati dei fili che finivano in qualche
strano macchinario, i capelli legati in una coda spettinata, leggermente
sudati, che le scendevano sul viso senza un vero perché.
Aveva il viso bianco, stanco, le imperfezioni ben evidenti e i
grandi occhi neri assonnati, spenti in una luce di confusione mista a paura.
Quando
era entrato si era illuminata. Il suo volto si era
acceso, un sorriso sincero le era spuntato sul viso e, ai suoi occhi, si fece
immediatamente più carina – meno indifesa, meno spaventata, felice, almeno per
qualche secondo. Aveva aperto la bocca per dire qualcosa senza troppo successo
e aveva cercato di allungare la mano, poi aveva fatto una smorfia di dolore,
lanciandogli un’occhiata di comprensione, come si stesse scusando di qualcosa.
«Ciao», aveva
detto infine, nella sua lingua, con una voce rauca, come se non parlasse da tempo.
Gli aveva fatto
cenno di sedersi e lui lo aveva fatto – aveva preso una delle due sedie che erano infondo al suo letto e l’aveva avvicinata a lei,
osservando nel frattempo i numerosi fiori sul suo comodino che portavano un po’
di umanità in quell’anonima stanza di quell’anonimo ospedale.
Avevano
iniziato a parlare.
Le
aveva raccontato di come la sua migliore amica gli aveva mandato una lettera
chiedendogli di fare qualcosa – qualsiasi cosa – per lei e di come lui era
capitato in Italia per impegni di lavoro e aveva deciso di andarla a trovare.
Si era quasi emozionato quando gli occhi di lei si
erano bagnati di lacrime sincere al nome della sua migliore amica e di come si
era illuminata ancora di più quando le aveva detto di aver deciso di andarla a
trovare, quasi si rendesse solo conto solo ora che sì, lui era davvero Joe
Jonas e lei stava davvero parlando con lui.
Lei
le raccontò di come la sua musica l’aveva aiutata, nella vita, dei concerti a cui era andata («Do you remember?
The sixth of November 2009? I fall in love with your smile…») e di come
loro, lui e i suoi fratelli le avevano reso la vita migliore.
Lui era rimasto
ad ascoltare annuendo, un sorriso di circostanza in volto perché, davvero, aveva sentito altre mille volte quelle parole, aveva visto
mille altre volte quello sguardo e quell’emozione e lei non era altro che
un’altra fan.
Un’altra fan in
un letto d’ospedale che lottava per la vita per cui avrebbe dato qualunque cosa
perché, davvero, Joe Jonas amava talmente tanto i suoi fan, gli sentiva
talmente suoi, che avrebbe fatto di
tutto per loro. Ma era questo, lei, una fan.
Eppure, quando
giunse l’ora di salutarsi e lui si era avvicinato per un abbraccio o magari un
bacio sulla guancia e lei con voce tremante gli aveva
chiesto se sarebbe tornato, il giorno dopo, lui non aveva saputo dire di no.
Quando era
arrivato il secondo giorno, quella che si era ritrovato davanti non era la
stessa ragazza.
Si era lavata i
capelli, la frangetta era stata pettinata e i lunghi capelli lisci erano
sciolti, posati sul cuscino fin troppo elegantemente per essere un gesto
casuale.
Si era truccata.
Non troppo, ma lo aveva fatto, valorizzando quei suoi lineamenti dolci di una
vaga sensualità.
«Ciao», gli aveva
detto ancora una volta nella sua lingua con quel sorriso sincero e gli occhi
spaventati ora accesi di una luce diversa. Felicità,
almeno per un po’. «Sorry for the makeup and everything…
It’s just… I've waited for this forever. I had to.», aveva aggiunto poi,
forse perché lui stava indugiando un po’ troppo sul suo volto. Lui si sedette,
annuendo.
Gli chiese cosa
aveva fatto il giorno prima e – benché avesse il sospetto che lei lo sapesse
già – iniziò a vaneggiare a proposito di incontri con
i fan, un’intervista alla radio e una conferenza stampa per il nuovo cd. Lei
aveva annuito, alla fine, come se gli importasse davvero quel che diceva.
Gli piaceva
parlare con lei proprio per quello. Si sentiva come se pendesse dalle sua labbra, come se da quelle parole cercasse di
leggergli dentro, riuscendoci senza troppe difficoltà.
Quando arrivò il
momento di salutarsi e lui si era avvicinato per darle un bacio sulla fronte,
le aveva semplicemente sussurrato «See you tomorrow».
Lei gli aveva
sorriso e aveva annuito, come se se lo aspettasse.
Il terzo giorno
passò più o meno allo stesso modo. Era arrivato, gli occhi di lei si erano illuminati, lui le aveva sorriso, si
era seduto e poi avevano iniziato a parlare.
Ad un certo punto lei gli aveva afferrato
con dolcezza una mano, incrociando le proprie dita con le sue, lui aveva
iniziato a massaggiarle con il pollice il dorso della mano ed erano rimasti
così, finché lui non era alzato. Le aveva lasciato la mano lentamente, dopo
averla strinta più forte per qualche secondo, poi se
ne era andato, con la promessa che si sarebbero rivisti il giorno dopo.
Il quarto giorno
non fu molto diverso dai precedenti, fatta eccezione per il
fatto che parlò solo lei e che questa volta fu lui ad afferrarle la mano
per primo e ad non lasciarla fino a quando non se ne dovette andare.
La guardava,
mentre parlava della sua vita, dei suoi amici, della sua famiglia, della sua
normale vita in una normale città, dei suoi del tutto normali aneddoti e vedeva
in lei qualcosa che aveva colto poche volta prima
d’allora – solo quando si era emozionata per il gesto della sua migliore amica
o aveva accennato alla sua famiglia.
Era buona. Buona
davvero, di quella bontà naturale, non simulabile. Non c’era, in lei, niente di
speciale se non quello. Non era il tipo di ragazza con uno spiccato talento in
qualcosa in particolare, non era il tipo di ragazza che ti faceva girare mentre
passava per strada e non era di certo il tipo di ragazza che avrebbe notato in
altre circostanze. Era normale. Era perfetta nella sua normalità, ed era questa
la sua forza.
Era il tipo di
persona che scoprivi piano, di cui ti accorgevi lentamente, che ti travolgeva
giornalmente, senza nemmeno fartelo sapere.
Il tipo di
persona che un giorno guardi e ti accorgi di non poterne fare più a meno.
Quel quarto
giorno fu quel giorno per lui.
Il quinto giorno
si era svegliato con la consapevolezza che le cose erano cambiate.
Joe non seppe dire con certezza cosa, al tempo, ma la prima cosa
che aveva visto, appena aveva aperto gli occhi, era stato
il suo sguardo. Quello sguardo di sincerità e di gratuito affetto che lei gli
regalava ogni volta che erano nella stessa stanza.
Si era svegliato
con la voglia di parlare con lei, per sentire ancora una volta, ancora per un
po’, quelle parole incerte, quel suo accento straniero. Adorava ascoltare quei
suoi discorsi sorprendentemente profondi e nello stesso momento infantili,
adorava come mentre parlava si fermava per pensare al
termine giusto da usare o come coniugare un verbo e adorava come finiva poi col
correggere lui, nella coniugazione dei verbi, che d’ inglese teoricamente
avrebbe dovuto sapere di più ma che nel concreto… be’, non era così.
Lo spaventava un po’, questa cosa. Era risaputo che lui si innamorava
troppo velocemente e finiva per ferire le persone perché scopriva troppo tardi
– quando si era spinto troppo avanti con le dichiarazioni d’amore e i gesti
plateali – che, forse, non era innamorato veramente. Sapeva che, questa volta,
non avrebbe potuto farlo; questa volta non si trattava
di una star di Hollywood, non si trattava di scandali, di giornali o di fan
impazzite.
Si trattava di
una ragazza di diciassette anni («almost eighteen!», le parve sentirla, nella sua testa,
precisarlo), di una ragazza che aveva problemi ben più gravi di quelli, di una
ragazza che aveva ben altro a cui pensare.
Semplicemente non
era giusto. Non era giusto intromettersi in quel modo. Sapeva che probabilmente
l’avrebbe resa la ragazza più felice sulla terra – lo vedeva nei suoi occhi,
l’amore genuino e senza pretese che gli donava – ma semplicemente… non era
giusto. C’era una qualche spiritualità, in quella ragazza, un qualcosa di
superiore che lo faceva sentire come se non la meritasse. Come se lei fosse troppo.
Non sarebbe stato
giusto rendere vano quell’amore genuino e senza pretese che lei le donava,
semplicemente dicendole che “si era innamorato di lei”.
Perché sapeva
che, nonostante in quel momento si sentisse come se
fosse così, come se fosse davvero innamorato
di lei, nel profondo non era così. E lei si meritava la verità, la verità e molto di più.
Non era
abbastanza, il suo amore, per una ragazza così. Joe lo sapeva e sapeva che l’unico vero dono che le avrebbe potuto dare era
se stesso, per i giorni che li rimanevano, lui stesso per davvero, lui stesso
senza barriere, lui stesso e basta.
Quando era
arrivato, quel giorno, in ospedale, passando per quei corridoi che ormai
conosceva bene e salutando distrattamente le infermiere, si era ripromesso di
fare in modo di rendere gli ultimi giorni che rimanevano prima che dovesse andarsene i migliori della sua vita.
Quando era arrivato nella stanza – la 113 – però, l’aveva trovata
fastidiosamente vuota, fatta eccezione per un bambino di circa otto anni che se
ne stava seduto sul letto, le gambe penzoloni e la testa abbassata ad osservare
il vuoto.
Il bambino aveva
alzato la testa di scatto, nel momento in cui mise un piede dentro la stanza, e
lui si era ritrovato davanti quegli stessi grandi occhi neri che conosceva fin
troppo bene. Doveva essere suo fratello minore. Il bambino lo aveva guardato attentamente
per qualche secondo, poi aveva inclinato la testa e aveva detto «Tu sei Joe Jonas.
E’ secoli che mi dice che state insieme… Credevo fosse
una bugia. Invece sei qua».
Non aveva capito
un bel niente, ovviamente – tranne il suo nome, in un buffo e infantile accento
italiano.
«Uhm… What? Sorry,
kid, I can’t understand a thing».
Poi aveva capito.
C’era solo una spiegazione all’assenza di lei e alla
presenza di un bambino incustodito e stranamente calmo. Doveva essere successo
qualcosa a lei.
Sapeva che era
malata – era il motivo per cui lui era lì, dopo tutto
– ma non aveva mai pensato a lei come tale. Era sempre stata
talmente piena di vita, talmente sorridente, talmente spensierata, in quei
momenti che avevano passato insieme, che semplicemente gli era passato di mente.
Era diventato un qualcosa di astratto, un problema lontano, come l’inquinamento
- sai che esiste, che è reale, ma non pensi possa causare qualche tangibile
problema finché la natura non si ribella improvvisamente e ti chiedi se, forse,
avresti potuto fare qualcosa in più.
«Where i-is… Where is she?»,
l’aveva chiesto con voce tremante, quasi si aspettasse che quel bambino
riuscisse a capire e a rispondere. Sorprendentemente però, lo aveva fatto,
aveva capito. Forse era abituato a collegare quel tono e quello sguardo a sua
sorella… Fatto sta che gli indicò una porta alla fine del corridoio dove un
cartello che diceva “Sala operatoria”
non prometteva niente di buono.
Proprio in quel
momento una donna, stretta in un maglione troppo grande per lei, negli occhi un
dolore troppo grande e nei movimenti un passo incerto, si avvicinò. Capì subito
che era sua madre, avevano la stessa magnifica qualità di essere
straordinariamente normali.
Quando si accorse
chi era spalancò leggermente gli occhi, sorpresa, e gli disse con uno stentato
inglese che, davvero, gli erano grati
per tutto quello che aveva fatto ma che ora poteva andarsene, quel giorno non
si sarebbero potuti incontrare. Non gli disse altro ma
lesse in quegli occhi molte più parole di quante entrambi potevano esprimere. Forse non sarebbe riuscito a vederla mai più.
«No, I’ll stay».
Non aveva detto
altro. Aveva annullato tutti i suoi appuntamenti per quel giorno e per i giorni successivi, si era seduto da una parte, lontano dalla
famiglia, per non disturbare, per non invadere il loro spazio.
Furono molte ore,
cinque caffè schifosamente amari, una miriade di parenti e amici arrivati a
chiedere sue notizie dopo che Joe riuscì a rivederla.
Non sapeva
nemmeno perché era ancora lì, non sapeva cosa stava aspettando o cosa si
aspettava da lei, semplicemente sapeva che in quel momento non sarebbe voluto
essere in altro posto se non lì, il più vicino
possibile a lei.
Ed eccola lì, più
piccola che mai, persa in quel letto, i capelli spettinati, lo sguardo spaventato
e nonostante questo leggermente acceso di quella luce, quella luce che aveva ogni volta che lui era nella stessa stanza
con lei.
«Ciao», le aveva
detto, e a lui parve di essere tornato al primo giorno. Quel primo giorno che
sembrava lontano, distante, ma da cui non erano passati che cinque – strani,
stranissimi – giorni.
«Ciao», aveva
risposto lui, un accenno di sorriso sul volto, la mano che cercava quella di
lei «How are you?»
Lei aveva fatto
una smorfia, come per dire Sul serio
Joseph? Come pensi che io stia?, ma poi aveva
semplicemente annuito. Quel giorno non parlarono. Non ne avevano la forza, la
voglia e nemmeno la necessità. Lei era viva, era reale, la sua mano era stretta
nella sua, il respiro pesante mentre stava per addormentarsi e, davvero, andava
bene così.
L’unica cosa che
gli disse fu «Dormi con me?», lo aveva chiesto nella sua lingua, ma il tono
implorante e lo sguardo bisognoso gli avevano fatto fare
a meno di una traduzione. Si era tolto le scarpe, si era avvicinato a lei e un
minuto dopo se ne stava sdraiato sul letto, un braccio intorno alla vita di lei, l’altro perso ad accarezzarle passivamente la
testa.
Andava tutto
bene, si ripeteva, lei era viva, reale, tra le sue braccia. Sarebbe andato
tutto bene.
Si svegliò nel
bel mezzo della notte.
Non che si fosse
mai addormentato davvero: una parte di sé era rimasta sempre cosciente, vigile,
per assicurarsi che lei non sparisse, che rimanesse tra le
sua braccia. Aveva questa strana paura che da un momento all’altro lei si sarebbe volatilizzata via, insieme al vento. Il che era
piuttosto surreale, visto che erano in una stanza al
chiuso, e lei non era creatura magica o qualcosa del genere.
Poi, ad un certo punto, lei si era mossa leggermente e lui aveva
aperto subito gli occhi, allarmato.
Ciò che si
ritrovò davanti, però, non fu una qualche scena drammatica ma, semplicemente,
il suo viso.
Vicino. Come mai
lo era stato prima.
Lei sorrideva –
con quel suo sorriso sincero e genuino che regalava solo a lui – e teneva gli
occhi chiusi, in un’espressione serena.
«Sto sognando?»
Lo aveva detto
quasi sotto voce, piano, lentamente, con una strana voce
trasognata.
Joe non aveva
capito, così se ne stette zitto, a guardarla, quasi temesse, chiedendole di
tradurre, di rovinare quel momento così… così.
Lei aprì gli
occhi, poi, chiendogli con lo sguardo perché non gli rispondesse poi,
lanciandogli uno sguardo divertito, disse «Am I dreaming?».
«Yes», rispose
subito lui, ancora sussurrando senza un vero perché, «Maybe
we’re both dreaming…»
Lei ridacchiò, all’assurda
verità di quella stupida risposta, poi annuì, rannicchiandosi contro di lui,
per quanto i macchinari a cui era attaccata lo
permettessero, e rimasero così per un po’.
Joe si sorprese
di quanto tutto quello fosse naturale, quasi normale.
Solo
sei giorni prima non
la conosceva ed ora, eccolo lì, in una stanza d’ospedale, senza riuscire a
staccarsi da una semi-sconosciuta per la paura di perderla.
Si sentiva come
se la conoscesse da sempre, come se quei gesti li avessero fatti da sempre e
come se volesse farli, per sempre.
«Can I ask you something?»
Il tono di voce
era più timoroso, ora, incerto e a Joe parve di rivedere la stesse scena di
quel primo giorno, quando gli aveva chiesto di tornarla a trovare l’indomani.
Il flusso dei
pensieri di Joe si era fermò quando lei aveva alzato lo sguardo verso di lui,
aspettando con occhi imploranti il permesso di continuare.
Lui,
semplicemente, gli fece segno di andare avanti, ancora
timoroso di spezzare un qualcosa di cui ancora non aveva capito la
consistenza. «You… You’d make love
with me?» Aveva uno sguardo sicuro, solenne e nello stesso momento
terribilmente bisognoso che fece, letteralmente, spezzare il cuore a Joe.
Lo sentiva che in
quelle parole, in quello sguardo, c’era molto più che la richiesta di una fan
al proprio cantante preferito, c’era la richiesta di una ragazza che chiedeva
di realizzare il suo desiderio più profondo – il suo ultimo desiderio.
E mentre si chinava a baciarla, dolcemente, lentamente, come se avessero tutto
il tempo del mondo, Joe pregò con tutta la forza che aveva in corpo che avrebbe
potuto fare quello ancora e ancora – per tutto il tempo che avrebbe voluto,
anche se quel tempo sarebbe stato per sempre.
Joe aveva sempre
vissuto il sesso come un’esperienza liberatoria, veloce, sfogante, estrema.
Quello, quello non fu niente di ciò che aveva mai sperimentato. Fu semplice,
dolce, un tantino infantile ma… intimo, confortante, caldo. Fu come se fosse semplicemente un altro passo per conoscerla
un po’ di più, un altro passo per apprezzarla ancora un po’ di più, un altro
passo per innamorarsi ancora un po’ di lei.
Lei era insicura
e nello stesso momento aveva negli occhi quella luce maliziosa, lucente e
fintamente innocente che gli regalava ogni volta – che regalava
sempre e solo a lui.
I gesti si
susseguirono con una naturalezza disarmante, ed era come se già sapesse dove
dovesse toccarla, cosa dovesse fare e lei… dio, lei
era la cosa più meravigliosamente imperfetta che avesse mai visto. Lei gemeva,
sussurrava, implorava e lo amava in un modo che Joe – neanche tra mille anni –
avrebbe mai potuto dimenticare.
Fu lento e troppo
veloce, fu perfetto e imperfetto, fu gesti e parole,
fu piacere e fu dolore, fu sorrisi accennati e sguardi d’intesta. Fu lei, lei tutta, lei per davvero.
E mentre si
stavano addormentando, stretti l’uno all’altra, vestiti solo del loro sudore e
del loro calore, a Joe venne un po’ da ridere – a
pensare che aveva appena avuto il miglior sesso della sua vita in una stanza
d’ospedale con una ragazzina che conosceva a malapena da sei giorni e che
probabilmente avrebbe finito per spezzargli il cuore e l’anima – ma alla fine
andava bene così, finché lei era lì calda e reale contro il suo petto nudo.
Aveva sempre
immaginato che il giorno dopo – il giorno dopo aver fatto l’amore per la prima
volta davvero – sarebbe stato
svegliato dai raggi del sole proveniente da una finestra rimasta aperta la sera
e prima e che lei, la sua compagna, si fosse svegliata insieme a lui, regalandogli uno sguardo pieno d’amore e un bacio
assonnato; aveva immaginato di aprire gli occhi lentamente, crogiolandosi nel
calore del corpo di lei, in quel momento giusto prima di svegliarsi così
meravigliosamente perfetto; aveva immaginato una letto troppo grande, in cui
avrebbero dormito aggrovigliati e una casa confortevole e familiare. Quando si
svegliò, però, quel sesto giorno, Joe Jonas dovette affrontare la realtà.
Fu il suono
troppo acuto di una qualche macchina a cui lei era
legata a svegliarlo di soprassalto, tanto che quasi cadde da quel letto troppo
piccolo per due, e lei, sdraiata accanto a lui, le mani appoggiate sul suo
petto, come se si fosse addormentata aggrappandosi al suo corpo, se ne stava
lì, immobile, ferma, quasi surreale. La stanza era buia e fredda e lei, oh, lei
sembrava gelida come il ghiaccio.
Non passò molto
tempo prima che venisse preso dal panico. Scese dal
letto, si vestì velocemente, e chiamò un’infermiera. Successe tutto così
velocemente che, quasi, gli sembrò di non averlo vissuto davvero: era come
vedere delle immagini susseguirsi velocemente dentro uno schermo, senza poter
fare niente per cambiarle. Delle infermiere li avevano raggiunti
frettolosamente, cacciandolo dalla camera: c’erano state grida, lacrime,
sguardi preoccupati; c’erano state ore di speranza e paura, con quel fastidioso
mal di pancia che ti sembrava dire, beffardo, “tanto lo sai come andrà a finire”.
Quando la notizia
arrivò, nessuno si sorprese troppo.
Fu il settimo
giorno, il giorno in cui la vide l’ultima volta, stesa
immobile dentro una bara dentro cui sembrava così sbagliata. Indossava un vestito colorato, i capelli erano
perfettamente acconciati, le guance tinte di rosa e la pelle di un’innaturale bianco.
Sul volto aveva
ancora l’ombra di un sorriso spento troppo presto.
Si era domandato più volte come una sola settimana si potesse
cambiare così tanto; come era possibile che una persona ti toccasse così
affondo semplicemente essendo se stessa; su come la vita ti possa far conoscere
la persona giusta e poi strappartela via tra un battito di ciglia.
Era stato
faticoso, stancante, difficile e forse un po’ ingiusto
ma, alla fine, Joe Jonas era andato avanti.
Erano passati
anni dal giorno in cui le aveva detto addio e sette giorno
in più dal giorno in cui l’aveva conosciuta, eppure, ancora adesso, ogni volta
che sentiva un accento italiano ripensava al suo modo di pronunciare le parole
e alla sua risata buffa; ogni volta che tra i passanti scorgeva due grandi
occhi neri, ancora ricordava il modo in cui i suoi occhi si illuminavano ogni
volta che incontravano i suoi; ogni volta che incontrava qualche giovane fan
ricordava il modo in cui lei parlava della loro musica, come se le avessero
salvato davvero la vita.
E ogni volta che veniva svegliato dalla luce accecante proveniente da fuori,
mentre sua moglie lo salutava con un bacio assonnato, mentre apriva gli occhi
lentamente, crogiolandosi del calore dei loro corpi vicini, e poi si alzava svogliatamente
dal suo grande letto, pronto per una nuova giornata, Joe Jonas ricordava ancora
la prima volta in cui aveva fatto l’amore davvero
– e sorrideva, sentendo da qualche parte il suono sincero di un sorriso di
rimando.