Cap 2
La stessa sera di un’altra pessima
giornata, una mia ex compagna del liceo, Sara, si fece sentire attraverso un
sms e mi invitò a bere qualcosa a casa sua. Proprio quando stavo per rispondere
che avevo un altro impegno in realtà inesistente, il telefono era squillato
facendomi saltare dallo spavento.
«Ci saranno anche Valentina, Guido e Francesco,» mi aveva detto con la sua
vocina squillante e ovviamente fastidiosa. Sembrava non esistere qualcosa che
non mi desse fastidio. Pensai che alla fin fine mi andava di bere qualcosa con
gli amici dopo tutta l’estate che non ci vedevamo. Le dissi che sì, andava
benissimo, per le otto e mezza sarei stato da lei, e certo che avevo già
mangiato, non c’era bisogno che mettesse su dei toast, e poi a me i suoi toast
avevano sempre fatto schifo. Chiusi la chiamata, lanciai il cellulare sul divano
e andai a mettermi su qualcosa di decente, ma appena prima che riuscissi a
infilarmi le scarpe, trillò il campanello. Quel suono tintinnante che
m’infastidiva. Convinto che fosse la vicina che voleva in prestito dell’altro
prezzemolo, andai ad aprire scocciato. Ma quando spalancai la porta, sulla
soglia non c’era alcuna vicina. Al suo posto però, lì sul tappeto, troneggiava
un inquietante scatolone. Allargai la visuale e in effetti la mia vicina c’era,
lì in piedi davanti alla sua porta.
«E’ suo?» chiesi indicando la scatola.
«No, dev’essere suo. L’ha
lasciato uno strano ragazzo poco fa,» rispose lei mentre si mangiucchiava
l’unghia del pollice. Un ragazzo? Ebbi un terribile presentimento. Mi decisi ad
aprire la scatola lì sul posto e, quando diedi una sbirciatina all’interno,
aggrottai le sopracciglia in maniera spaventosa: decine e decine di rosette
riempivano ogni spazio libero.
«Del pane? Quel bel ragazzo le ha regalato…
del pane?» fece la signora ridacchiando tra sé.
«Com’era fatto?» chiesi senza perdere tempo, e forse ansimando leggermente.
«Il ragazzo? Mmh… quando si
è girato ho visto che aveva i capelli all’insù».
«Sì, ma il colore dei capelli?» feci ancora, e il mio affanno non prometteva
nulla di buono.
«Erano chiari, se non sbaglio. Ma non molto. Poi era piuttosto basso, più di
lei, ma meno di me,» prese a stropicciarsi il grembiule. «Molto, molto bello,»
aggiunse. Le sue fantasiose descrizioni mi stavano solo confondendo le idee,
dannazione. Ma tanto avevo già capito, potevo anche evitare di portarla per le
lunghe.
«Ah,» mugugnai senza aggiungere altro, poi tornai dentro per finire di mettermi
le scarpe. Avrei portato il pane in cucina più tardi.
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Cercando di ignorare l’episodio del pane, quella sera mi presentai a casa di
Sara con un sorriso sulle labbra, dovuto più al nervoso che ad altro. Al
ritrovo, oltre a quelli elencati poco prima dalla padrona di casa, era presente
anche Gaia, e fui tanto sorpreso di vederla quanto disperato. Ah, pessima
giornata.
Il nostro ultimo incontro risaliva al matrimonio con April, quindi due anni prima. Da quel momento, s’era
volatilizzata. E adesso se ne stava seduta lì sul divano color panna con le
gambe accavallate, come niente fosse, come se il tempo non fosse passato
affatto. Eppure la trovai cambiata parecchio, ma forse erano solo i suoi
capelli biondi ad essere particolarmente diversi: in testa erano ricci come al
solito, ma sulle spalle le scendevano due grossi boccoli decorati da nastri
rosa, come le acconciature di una volta. Terribili, orribili.
Parlando del più e del meno più avanti, venni a sapere che faceva la
parrucchiera adesso.
«Ah, ecco perché i capelli…»
commentai accennando ai boccoli con un dito.
«Esatto. Ti piacciono così?» chiese lei accarezzandoseli.
“Certo che no, sono ridicoli,” naturalmente non dissi così, ma mi limitai ad
annuire sorridente. Dopo aver finito di bere il suo caffè, Gaia mi scrutò coi
suoi occhietti verdi poco casti. Esattamente come li ricordavo. Quelli no, non
erano cambiati affatto.
«E così…hai divorziato da
tua moglie?»
Io la guardai male.
«Cosa te lo fa pensare?»
Ma fu Francesco a rispondere alla mia domanda.
«In primo luogo, non hai la fede, ma il segno dell’abbronzatura sul tuo dito
indica che te la sei tolta da poco, ovvero alla fine dell’estate. E poi…» lanciò un’occhiata a Sara,
che non faceva nulla per fargli tenere la bocca chiusa. «Sara e April si conoscono e le notizie
corrono in fretta,» concluse con un sorriso soddisfatto, e Sara rotolò gli
occhi all’indietro mentre prendeva un sorso dalla sua tazza. A causa
dell’imbarazzo per essere stato messo nuovamente in soggezione –è qualcosa che
non riesco a digerire-, affogai la faccia nel limoncello.
«Tu e le tue manie da investigatore. Un giorno ti ucciderò e ti farò
investigare sulla tua stessa morte,» replicai scocciato.
«L’importante è che tu ti sia lasciato,» riprese Gaia, ora più silenziosa, e si
permise di posare una mano sulla mia gamba. No, eh. No. Non è che aveva
intenzione di riprendere a tampinarmi come due anni prima? Certo, ci mancava
solo questa.
“Fammi riprendere, almeno,” stavo per dirle, ma Guido mi salvò dalla situazione
con un’altra delle sue battute superficiali.
«Ehi, Andrè! Hai messo su qualche chiletto
quest’estate?» fece gonfiando la faccia rubiconda.
«Eh sì, mi hai beccato,» ammisi con una mano dietro la nuca. Si misero a
ridere, tutti a parte Gaia che continuava a fissarmi tra le ciglia piene di
mascara. Ti prego, no.
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Per quella sera evitai qualsiasi altro contatto con Gaia, ed ero straconvinto
di aver fatto più che bene. “Non la voglio un’altra storia. Non ancora. Non con
lei!” continuavo a ripetermi, la sigaretta che mi pendeva dal labbro mentre
pensavo al fatto che avevo smesso di fumare. O almeno, credevo di averlo fatto.
Tanto alla fine, se vivi per inerzia, non hai mai certezze, ti piace stare nel
forse. Spensi la sigaretta appena accesa strofinandola piano sul portacenere
pulito, poi feci un suono con le labbra chiuse, indugiai con gli occhi sulla
televisione sintonizzata su un canale di televendite, poi presi nuovamente
l’accendino e mi riaccesi il mozzicone, tirando un po’, fanculizzando un po’ tutto, il mondo in generale. E
volli davvero dormire sul divano col sedere che per poco non scivolava giù e il
collo abbandonato sulla testiera, ma pensai che mi si sarebbe solo deformata la
schiena in maniera orribile. Spensi la sigaretta che era a metà e poi la
televisione, e mi trascinai in camera da letto. Mi chiesi cosa avrebbero
pensato i miei studenti se avessero mai assistito alla mia routine.
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La mattina seguente mi alzai all’ora di pranzo e piagnucolai quando, appena
prima di poter aprire del tutto gli occhi, suonò il campanello. Andai ad aprire
ciabattando e con i capelli che andavano per conto loro, e ciò che trovai sulla
soglia mi destò all’istante, quasi avessi preso la scossa: un altro pacco di
rosette.
«Ma chi è quello lì, che mi moltiplica i pani? Gesù Cristo?» dissi ad alta
voce, sconsolato. “I giovani d’oggi. Sono strambi e insopportabili,” pensai
addentando rabbiosamente una pagnotta. “Quindi stamane pane e marmellata,” mi dissi
accigliato.
Ma non bastò quella mattina, no. Il pomeriggio del giorno dopo trovai un altro
sacchetto con delle altre rosette fresche di forno.
«No, mi sono stufato. Adesso esco e lo cerco per tutto il quartiere finché non
lo trovo. Poi gliene dirò quattro,» decisi a quel punto, arrabbiato e stufo di
quei regali indesiderati. Lasciai perdere quello che stavo facendo –lavare il
bagno- e uscii senza davvero sapere da che parte dirigermi. Una volta fuori,
pensai che probabilmente il panificio poteva essere il punto di partenza. Dio,
detestavo profondamente le seccature. E quella era una seccatura bella e buona.
Cosa ci fa uno che vive per inerzia con le seccature?
Entrai nel negozio con un cipiglio nervoso, poi alzai lo sguardo e intercettai
quello del simpatico panettiere con due grossi baffi biondi. Misi le mani in
tasca e gli chiesi informazioni.
«Per caso si è accorto di un certo idiota che ultimamente compra grosse
quantità di pane? In particolare rosette,» feci, sicuro di far centro. Infatti,
l’uomo annuì convinto e si grattò il mento coperto da una corta barba.
«Eccome se me ne sono accorto! Pensavo facesse opere di carità,» rispose
ridendo. Scossi la testa sospirando.
«Purtroppo no. Quello è un degenerato. Anche oggi è venuto, vero?» aspettai che
il panettiere mi desse un cenno di assenso. «Sai mica dove abita, o da che
parte se n’è andato?»
«Mi sembra che abbia detto di dover prendere il pullman qui fuori. Ma ne sono
passati già due, quindi suo figlio dev’essersene
andato, ormai».
Benissimo, adesso venivo anche scambiato per il padre di un ventenne. Ma
sembravo davvero di età così avanzata? Probabilmente era la mia espressione
costantemente accigliata a tradirmi. Dalla costatazione dell’uomo, comunque,
conclusi che la mia ricerca fosse già finita. Ringraziai e poi uscii per andare
a controllare dov’è che conduceva la linea 72: vidi che il capolinea era
addirittura fuori città. Quel moccioso poteva essere andato a vagabondare da
qualunque parte. Sbuffando rumorosamente, girai i tacchi, e stavo facendo volentieri
marcia indietro quando individuai dei movimenti dietro al cancello di un
condominio. Inizialmente pensai ad una coppietta intenta a baciarsi ma, con
un’analisi più attenta, mi accorsi che uno dei due alzava i grossi pugni in
aria, a mo di minaccia. Ah, odiavo le zuffe. Come tante altre cose. Con le mani
in tasca, spostai velocemente lo sguardo a destra e a sinistra e intercettai un
vecchio che si accingeva a sedersi alla fermata del pullman. Mi feci vicino e
gli presi delicatamente un gomito; a quel gesto, il vecchio si voltò con gli
occhi ridotti a fessure e il bastone già alzato per darmelo in testa. Sorrisi:
era una persona sveglia.
«Non intendo derubarla, deve aiutarmi. Stia al gioco e dia delle risposte
intelligenti e convincenti,» gli bisbigliai, e indicai velocemente con lo
sguardo le due figure in ombra dietro il cancello. «Ehi, Gianni. Come mai c’è
un’auto della polizia?» chiesi a voce alta, col mio scarso talento in fatto di
recitazione.
«Quale auto…?» fece il
vecchio un attimo spaesato.
«Stia al gioco, ho detto,» gli ripetei a denti stretti. Lui finalmente capì e
mi rispose sapientemente:
«Beh, sembra che stiano cercando un ladruncolo di appartamenti».
«Ah, ecco il perché di tutte le pattuglie che ho visto in zona!» esclamai dando
il colpo di grazia. Vidi il tizio che aveva i pugni in aria fermarsi ad
ascoltarci, guardarsi intorno, dare un’ultima spintonata alla sua vittima e poi
uscire furtivamente di scena.
«Complimenti, lei sì che sa improvvisare,» mi congratulai col vecchio, che si
sollevò leggermente il cappello per ringraziare, poi andai a vedere come stava
lo sfortunato o sfortunata che il mostro tutto muscoli stava importunando.
«Tutto bene?» chiesi e, quando quello alzò la testa guardandomi mortificato, lo
puntai con un dito. «Aha! Ti
ho trovato, biondino da strapazzo!»
Sì, era quel Valerio il ragazzino che ora mi fissava con tanti di occhi. Sotto
shock per la seconda volta?
«Adesso io e te dobbiamo fare un bel discorso, perché…» iniziai, ma quello mi interruppe
afferrandomi velocemente le mani.
«Mi ha salvato di nuovo!» esclamò e, davvero, mi venne voglia di sparire dalla
faccia della Terra. O di seppellirmi vivo. O di strozzarmi con una rosetta.
«No, non è così. Avessi saputo che eri tu, non l’avrei mai fatto,» dovevo
essere il più duro possibile se volevo scollarmelo di dosso. Strattonai via le
mani e me le misi in tasca in modo che non le potesse più prendere.
«Beh, resta il fatto che mi ha salvato. Le sarò debitore per sempre!» e, con
uno slancio di non so che cosa, si buttò su di me e mi abbracciò.
«Ma…sei fuori di testa?!»
urlai divincolandomi. Quello sogghignò e mi lasciò andare, permettendomi di
sistemare le pieghe sulla camicia.
«Questa volta mi avrebbe ucciso davvero, me lo sento,» disse poi, con tono
abbattuto.
«Questa volta? Perché, ce ne sono state altre?» chiesi, e quello annuì mesto.
Stette un po’ zitto e si guardò intorno come se temesse di vedersi arrivare un
pugno in faccia da un momento all’altro. «Perché ce l’ha con te, quel
bestione?» mi venne spontaneo chiedere. E com’è che adesso mi interessavo dei
problemi dei ragazzini rompiscatole? «Non che mi importi,» aggiunsi infatti.
«Se a te sembra un bestione, pensa a me!» esclamò lui, poi s’accorse di aver
detto qualcosa che non andava e si coprì la bocca con entrambe le mani. Io
capii subito, allargai le labbra in un sorriso sghembo e gli feci un cenno per
indurlo a seguirmi. Non avevo voglia di stare fermo lì tutto il giorno.
«Va bene se mi dai del tu. Magari riesci a farmi ringiovanire di qualche anno,»
dissi, e il biondo sembrò essere felice del permesso appena ricevuto. Mentre mi
camminava accanto, si mise a raccontare qualcosa.
«Quel tipaccio che hai visto si chiama Damiano,» fece una pausa per schiarire
la voce, il che mi diede il tempo di intervenire.
«Questo chiarisce l’intera faccenda,» feci ironico.
«Eh, se non mi lasci continuare…!»
cercava di controllarsi, ma era già nervoso, e quasi mi sembrava di vedere il
me stesso di qualche anno prima.
«Come se ti stessi ascoltando. Va beh, vai avanti,» dissi con un gesto della
mano. Lui mi guardò male, per poi proseguire con cautela.
«Hai presente quella ragazza che stavo inseguendo la settimana scorsa?»
«Ah, sì. La pazza». Ricordai i capelli neri e lisci come spaghetti che
spuntavano dal cappellino con la visiera, la giacca di jeans sbiadita e i suoi
occhi lucidi.
«Non puoi biasimarla. E’ cieca».
Ah.
A quelle parole, mi sentii un attimo in colpa e feci una smorfia dispiaciuta
con la bocca.
«Mi spiace…»
«E’ così dalla nascita,» mi informò lui.
«E perché correva così?»
E io perché facevo l’impiccione con tutte quelle domande? Non avrei voluto
diventare io stesso una seccatura!
«E’ questo il punto. Devi sapere che io e lei siamo grandi amici, sin dalle
elementari. Ma, giusto l’altro giorno, mi ha confessato qualcosa che io non
sono ancora capace di gestire, non con lei».
Lo interruppi per provare a indovinare. Era talmente banale da poter essere
benissimo presunto anche da un bambino.
«Ha confessato di amarti».
Lui mi guardò stupito.
«Sì. Come lo sai?»
Io alzai le spalle senza rispondere, e quello sembrò rivolgermi uno sguardo
quasi ammirato.
«E immagini anche perché piangeva?» chiese poi, e mi mise un attimo in
difficoltà.
«Er…»
«L’ho rifiutata. Perché non l’ho mai vista come più di un’amica. Tipico, no?»
spiegò. Decisi di fargli tagliar corto, perché già mi stava sembrando una
storia troppo da film.
«E cosa c’entra il ciccione?» chiesi, e lo feci ridacchiare di gusto.
«Beh, il ciccione è il fratello maggiore di Laura, la ragazza cieca in
questione. Ogni volta che ferisco sua sorella, anche involontariamente o
indirettamente, quello mi viene a cercare e mi minaccia. E oggi mi stava per
picchiare per aver rifiutato Laura,» concluse con un respiro profondo.
Camminando camminando,
eravamo arrivati quasi a casa mia senza neanche accorgercene e stava scendendo
la sera. L’arancione e il viola del cielo si mischiavano in un colore
indistinguibile.
«Hai già chiesto scusa a questa tua amica?» domandai alla fine.
«Lo farei se lei non fuggisse e se non ci fosse sempre Damiano nei paraggi…» abbassò la testa per la
vergogna.
«Siamo un tantino vigliacchi, eh?» lo schernii un po’, e lui mi lanciò uno
sguardo arrabbiato per l’ennesima volta. «Beh, sono quasi a casa. Bella storia,
comunque. Ti saluto,» mi congedai poi, brusco, e mi diressi verso il cancello
nero.
«Ehi, un attimo! Devo ancora sdebitarmi per tutte le volte che mi hai salvato
la pelle!»
«Tutte le volte? Due non è “tutte le volte”!» Poi, finalmente, mi ricordai del
vero motivo per il quale ero uscito di casa. «Ah, e a proposito, visto che hai
toccato l’argomento: niente. più. rosette. E soprattutto,» gli picchiettai la
fronte con l’indice, «niente più favori. Ho evitato che finissi in situazioni
spiacevoli perché sono un buon samaritano, tutto qui,» conclusi. Valerio mi
guardò tra il sorpreso e l’interrogativo.
«Quindi…questo significa
che adesso prediligi le ciabatte?»
Mi misi una mano sugli occhi. E io che pensavo avesse capito. Stavo per
rispondergli in malo modo, quando un paio di mani sconosciute si posarono sulle
palpebre di Valerio. Il biondo sorrise tra sé.
«Fabio, ma non ti stanchi mai di fare sempre gli stessi giochetti?»
A quel punto, lo sconosciuto che adesso sapevo si chiamasse Fabio, abbracciò
Valerio da dietro.
«E dai, Vale, è divertente!»
Il nuovo arrivato aveva i capelli scuri che ricadevano spettinati sulla fronte,
gli occhi sottili, la stessa statura di Valerio e un’espressione fin troppo
allegra dipinta sul volto mentre cercava di baciare l’amico sulle guance
lucide.
«Dormi da me anche stanotte?» chiese quel Fabio con la faccia da oca giuliva.
«Ovviamente. Stavo per venire, visto che ormai è quasi buio,» gli rispose
l’altro.
«Infatti ero preoccupato e sono venuto a cercarti. Andiamo via in moto, ok?»
ancora altri bacetti. Bene, io a questo punto me ne andrei e toglierei il
disturbo. Tanto che ci sto a fare qui, il palo? pensai, per poi voltarmi e
proseguire verso casa.
«Aspetta, dove vai?» m richiamò il moccioso biondo.
«A casa?» risposi con una domanda per fargli capire che io, davanti a quella
scenetta romantica, non volevo starci un minuto di più. L’amico mi rivolse la
sua attenzione, come se solo in quel momento si fosse accorto della mia
presenza. Ottimo, va sempre meglio, adesso sono anche invisibile. La sua
espressione da ebete mutò diventando quasi irata, e i suoi occhi mi puntarono
riducendosi a fessure. Ci mancava poco che gli spuntassero i canini da vampiro,
le unghie da licantropo e gli si accendessero le pupille di rosso.
«Chi è quello?» chiese allora, rivolto a Valerio.
«Potrei farti la stessa domanda,» intervenni, visto che non mi faceva così
piacere se, per riferirsi a me, utilizzavano i pronomi dimostrativi “questo” o
“quello”. “Avrei anche una ventina di anni in più di te,” stavo per aggiungere.
«Ah, lui è Andrea, il mio salvatore,» disse Valerio un po’ in imbarazzo. Lo
sguardo di Fabio si fece letteralmente di fuoco, poi si rivolse ancora
all’amico brillando e sorridendo.
«Eh? Si chiama Andrea o Salvatore?»
Il biondo scoppiò a ridere, ma io non lo trovavo divertente.
«Bene, ora che abbiamo fatto le presentazioni, io me ne andrei». Girai
finalmente i tacchi senza più intenzione di fermarmi.
«Aspetta, ma…»
«E niente più rosette!» con questo, zittii chiunque dei due mi avesse
richiamato e quasi fuggii nella mia dolce, noiosa, solitaria, umile, spoglia
casa. «E io che volevo un cane. Col cazzo, sto molto meglio da solo,» mi dissi,
una volta lanciate le scarpe in un angolo dell’ingresso ed essermi gettato a
volo d’angelo sul divano più grande. «Pessima giornata, pessima,» mormorai tra
me e me prima di stiracchiarmi e concedermi dieci minuti di riposo.
---
Ringrazio chi ha messo la storia nei seguiti e la persona tanto gentile che ha
lasciato un commento *_* Grazie!
Stavo pensando che Andrea è proprio insopportabile…
Ho creato un personaggio impossibile da apprezzare XD Ma non so chi sia peggio
tra lui e Fabio. Pure quello, boh, non so da dove mi sia saltato fuori ^^’
Beh, alla prossima :)
Mirokia