Inerzia
Cap.
1
Vivere per
inerzia può essere una scocciatura quanto una benedizione.
Chi vive per inerzia non causa alcun tipo di problema, disturbo o contrattempo
a coloro con cui entra in contatto. E’ come se, invece di inciampare su un
difetto dell’asfalto e rovinare su un passante, inciampi e cadi giusto accanto
a lui: non gli causi alcun tipo di danno, ma intanto sei caduto e, anche se ti
sei fatto male, quasi non lo senti, perché sei abituato a vivere per inerzia. E
allora ti alzi, ti spolveri, e vai avanti, ed è come se non fosse successo
nulla.
Poi arriva il momento in cui semplicemente non puoi più far finta di nulla.
Proprio non ci riesci. E il tuo mondo costruito per inerzia sembra crollare
come un castello di carte.
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Il mio castello di carte iniziò a crollare un pomeriggio particolarmente uggioso
di fine settembre. L’estate non era finita da molto, ma già s’era portata via
il bel tempo, e con lui il mio matrimonio. Avrei considerato quella come
l’estate peggiore della mia vita, se non avessi saputo sin dal principio che io
e April ci saremmo lasciati. Almeno poteva avere il
buon gusto di farla finita in aprile, così mi sarei anche fatto una bella
risata. Pensai che prenderla in quel modo non mi aiutava a spazzare via i
pensieri negativi dalla testa, e ritenni che la cosa migliore da fare fosse usare
al meglio la mia memoria selettiva ed iniziare ad eliminare i ricordi superflui.
Così va meglio, mi dissi, senza nemmeno sentire l’eco della mia voce.
Sospirai. In effetti era stato un bene quel nostro litigio definitivo: sua
madre m’aveva preso ormai in antipatia, i suoi irritanti parenti –non se ne
salvava uno- mi mettevano in soggezione, e le amiche con cui talvolta usciva
sapevano solo darmi sui nervi.
“Bene, almeno adesso non sarò costretto a dividere il conto in banca con
nessuno”, continuavo a ripetermi, tanto per alleviare la solitudine che già si
faceva sentire. Ero tornato in città dalla mia ultima vacanza al mare dalla
famiglia di lei, «Torna a vivere da solo. Io resterò qui ancora per un po’,» mi
aveva detto appena prima che partissimo. Io avevo alzato le mani come in segno
di resa, abbassato gli occhi al pavimento e messo su un mezzo sorriso.
«Aspettavo solo che me lo dicessi,» avevo replicato facendo un passo indietro,
perché chi vive per inerzia non ha la possibilità di avanzare proposte di
spontanea volontà.
«Tornerà strisciando da me,» mi ero detto mentre guidavo in autostrada con le
movenze di un robot, gli occhi fissi come quelli d’una bambola. Ma non lo fece.
Non tornò da me, e iniziai a credere di essere stato io l’incapace per tutto
quel tempo. Non sapevo neanche tenermi una donna e prevalere su di lei. A
trentacinque anni suonati.
Scossi la testa mentre percorrevo la strada verso il mio condominio con una
busta di pane appena comprato appesa al braccio e una sigaretta ancora spenta
in mano. Avevo ormai smesso di fumare, o almeno credevo di averlo fatto, ma mi
concedevo uno strappo alla regola quando mi sentivo particolarmente frustrato,
anche perché, in teoria, chi vive per inerzia non ha regole, vive come gli
viene, e quindi non avevo costrizioni morali di alcun tipo, e una sigaretta me
la concedevo più volte senza sensi di colpa.
Mi fermai davanti ai binari del tram perché vidi che stava per ripartire e che
il semaforo era rosso. La signora grassa accanto a me mi fissava e non sapevo
darmi un perché, ma non ci feci caso più di tanto.
Ne approfittai per accendermi la sigaretta, col pensiero che, magari, una
brusca svolta nella mia vita non mi avrebbe fatto poi così male. Giusto per
frenare o accelerare, e quindi piantarla di andare sempre alla stessa andatura.
Dopo aver sbuffato scontento una nuvola di fumo, mi sentii spingere brutalmente
di lato e intercettai un’ombra passare come un fulmine nello spazio che s’era
creato tra me e la signora grassa. Quando riallacciai lo sguardo alla figura,
la vidi correre sui binari e oltrepassarli di tutta fretta: era una ragazzina
con un cappellino da baseball da cui fuoriuscivano lunghi capelli neri. Di
tanto in tanto si guardava indietro, gli occhi lucidi e le guance bagnate. Dava
la sensazione di essere inseguita da qualcuno. Per assicurarmene, voltai il
capo alle mie spalle e in effetti vidi qualcun altro correre e spintonare e
urlare come un ossesso.
«Laura! Laura, fermati, per favore!» sbraitava. Ma non si vergognava, con tutta
quella gente intorno? In ogni caso, la sua corsa sarebbe terminata lì, visto
che il tram era già partito e stava prendendo velocità.
«Ma cosa…?» mi chiesi ad alta voce dopo aver notato
che il pazzo non aveva intenzione di fermarsi, anzi, teneva gli occhi incollati
alla figura che si allontanava dall’altra parte dei binari. Era forse fuori di
testa? Voleva morire? Il tram gli era quasi addosso, ormai. Se quel tipo fosse
passato in quel momento, l’avrebbe preso in pieno. Doveva frenare o accelerare,
tutto tranne che procedere alla stessa andatura.
Lasciai che la sigaretta rotolasse a terra quando mi allungai e afferrai
saldamente il ragazzo dal gomito per poi tirarlo violentemente verso di me,
evitandogli una morte certa. A causa dell’inerzia e dello sforzo appena
compiuto, barcollai e mi sbilanciai cadendo all’indietro, col ragazzino che mi
seguì a ruota finendomi pesantemente in grembo. Un suono soffocato m’abbandonò
la gola e le sopracciglia iniziarono ad aggrottarsi, segno che ero lì lì per incazzarmi.
Gridolini concitati e preoccupati si propagarono nell’aria e la gente lì
intorno accorse a chiedere al malcapitato numero due se si fosse fatto male.
Nessuno faceva caso a me, il malcapitato numero uno. Mi scostai a fatica dal
corpo di quel ragazzo, che ancora non aveva mosso un muscolo, quasi fosse sotto
shock.
«Sei idiota o cosa? Che ti salta in mente?» chiesi con un diavolo per capello,
riferendomi al suicidio che stava per compiere, pur inconsciamente. Ma quello
sembrava non ascoltarmi. Continuava a tastarsi la canottiera bianca e la
faccia, partendo dalle orecchie e finendo sul naso.
«Sono…vivo?» mormorò a se stesso, incredulo.
«Per poco, ragazzo, per poco! E tutto grazie a questo signore coraggioso,»
disse la vecchia grassa di prima che si stagliava in piedi accanto a me. Cos’è,
non esistevano più le vecchiette che utilizzavano il termine “giovanotto”? Mi
sentivo più vecchio di quanto già non fossi. Il ragazzo –che, notai, aveva i
capelli chiari e pettinati all’insù-, ancora a terra, spostò lo sguardo accanto
a me e, seguendolo, m’accorsi della mia busta del pane, ormai rovesciato a
terra. Una pagnotta era anche rotolata per strada.
«Anche quella era del signore,» disse la vecchia riferendosi alla busta. Ma non
riusciva a farsi gli affaracci suoi? Il biondo, o
castano, o quello che era, svettò in piedi quasi dimentico della caduta, e mi stupì
che la testa non gli girasse come una trottola.
«Lei…Lei mi ha salvato da morte certa,» disse
commosso dopo che anche io fui in piedi. Mi prese le mani con un gesto fulmineo
e le portò all’altezza del petto, gli occhi stranamente brillanti. Io lo
guardai come si guarda uno poco sano di mente e ritirai le mani all’istante, ma
quello, caparbio, me le riprese fra le sue.
«Se non ci fosse stato lei, io adesso sarei…» continuò,
quasi con l’affanno, e lo sguardo gli cadde sulla mia povera pagnotta
maciullata dalle ruote di un furgone. «…come posso
sdebitarmi?»
La frase fatta che m’ha tormentato arrivando a provocarmi istinti omicidi e
suicidi. Tentai di rimanere calmo, nonostante sentissi un sopracciglio pulsare
dal nervoso.
«Non devi,» risposi ritirando nuovamente le mani.
«Invece sì! Lei mi ha salvato la vita!» gli luccicavano seriamente gli occhi.
Sembrava essersi pure dimenticato della tizia che stava inseguendo con tanta foga.
Ero tentato di ricordarglielo.
«No, guarda, io adesso andrò a comprarmi dell’altro pane e tu farai finta
che non sia successo niente, ok?» cercai
di tranquillizzarlo, ché mi sembrava troppo entusiasta.
«Ci sono! Inizierò con comprarle del pane. Andiamo,» asserì, completamente
ripreso dallo shock quasi-morte e prese a trascinarmi
da un braccio, quasi fossi il suo cane.
«Ma che stai dicendo? Non scherziamo. Tu ora vai a casa dalla mamma e io me ne
andrò per conto mio, chiaro?» feci nervoso e già pentito di averlo tirato via
da quei binari.
«Ehi, quanti anni pensa che abbia?» mi chiese lui di rimando. In effetti avevo
dato per scontato che fosse un ragazzino, ma non avevo un’idea precisa della
sua età. Gli guardai per qualche istante il viso ovale, i capelli chiari
scompigliati e gli occhi anch’essi chiari, di un azzurro accecante, e grandi.
Intercettai il nasino da signorina, la bocca screpolata e le guance che al sole
sembravano lucide. Non era un gigante, mi arrivava sì e no alle spalle.
Inoltre, con quell’espressione imbronciata e le braccia incrociate sembrava
proprio un bambino.
«Non saprei… quindici, sedici?» optai, ma ricevetti
un’occhiata di disappunto da parte sua.
«Ne ho venti!» esclamò. Lo fissai ancora per qualche secondo, poi la mia
sentenza.
«Poco importa. Sei sempre un ragazzino,» e ripresi a camminare verso la
panetteria.
«Ehi, mi aspetti! Le ho detto che comprerò quel pane ed è quello che farò.»
insistette quello tornandomi velocemente alle calcagna.
«Sei cocciuto,» constatai sbuffando. Lui annuì più volte, quasi soddisfatto
della sua cocciutaggine, poi mi guardò di sottecchi in silenzio, i suoi passi
che s’udivano più dei miei.
«Lei… come si chiama?» chiese dopo un po’.
«Andrea,» risposi piatto. «E tu, moccioso?» aggiunsi marcando l’ultima parola.
«Valerio. E non sono un moccioso».
Lo guardai sorridendo beffardo.
«Già il fatto che lo puntualizzi indica il contrario».
Con questa frase lo zittii per un po’, e provai l’infantile sensazione
d’orgoglio che si fa spazio in me ogni qualvolta riesco in qualche modo a
spiazzare i miei interlocutori.
Finalmente arrivammo in panetteria, e quel Valerio mi ordinò di aspettare fuori
mentre apriva la porta e la faceva tintinnare. Così pensai di accendermi
un’altra sigaretta sperando che non andasse nuovamente sprecata. Pensai
velocemente a cos’altro avrei dovuto fare una volta tornato a casa, ma non mi
venne in mente nulla, e mi dissi che andare sempre alla stessa andatura poteva
essere tanto rilassante quanto angosciante. Mi misi due dita sulla radice del naso
quasi per evitare che mi si aggrottassero ulteriormente le sopracciglia e mi
costrinsi a mettere il cervello un po’ in standby.
Dopo cinque minuti, il biondo ricomparve con la busta piena di pane appena
sfornato.
«Ecco qui,» fece sorridendo e porgendomi la busta. Curioso, diedi un’occhiata
al suo interno e feci una faccia contrariata.
«Baguette? Ciabatte? Io mangio solo rosette,» puntualizzai, e il tizio abbassò
la fronte per la vergogna. Ovviamente non era vero, qualsiasi tipo di pane per
me andava bene, ma mi divertiva prenderlo in giro. Aveva una faccia che ti
faceva voglia di dirgliene di tutti i colori.
«M-mi dispiace, però…non ho
più soldi per…»
«Ah, incapace. Non sei nemmeno in grado di restituire un favore,» dissi interrompendolo
bruscamente, poi girai i tacchi e mi allontanai, sicuro che non mi avrebbe
seguito. Ma mi sbagliavo. Quel tipo era più insistente di quanto pensassi.
«Aspetti! Non vuole che faccia qualcos’altro?» chiese mentre mi raggiungeva a
grandi falcate.
«E che cosa? Sei un buono a nulla».
Quello, alla mia frase, rimise il broncio.
«Non le permetto di trattarmi in questo modo. Chi si crede di essere?» fece,
adesso quasi nervoso.
«Un uomo di quindici anni più grande di te,» gli risposi, poi imboccai la via
di casa mia.
«Pensa che l’età c’entri qualcosa? Prenda Lesbia e Catullo, per esempio. Lei
aveva dieci anni in più di lui, eppure si rispettavano».
A quel commento, scoppiai a ridere di cuore, quasi mi tenevo la pancia. Ma che
passava per la mente ai giovani d’oggi? Ero convinto fossero interessati alle
moto, alle pasticche e al sesso, non alla letteratura latina.
«A parte che Lesbia era definita “Amica omnium”, l’amica di tutti, quindi
dubito avesse molto rispetto per il povero Catullo, ma poi…com’è
che te ne esci con questi commenti?» chiesi, ora un po’ curioso, visto che,
dopotutto, si stava trattando del tema della mia vita.
«Sono appassionato di letteratura. E a ottobre inizierò con l’università,»
rispose, e le sue parole mi stupirono: non aveva proprio la faccia di un
letterato. Ma poi, a me cosa interessava se prendeva facoltà di lettere o di
ingegneria o di veterinaria? Senza replicare, continuai per la mia strada, fino
ad arrivare al cancelletto del condominio in cui abito. D’istinto, allungai il dito
sul citofono, lì dov’era recata la scritta “Martins –
Ruggeri”, poi scossi velocemente la testa e mi diedi uno schiaffo in fronte.
Ormai vivevo solo, e avevo ancora l’abitudine di suonare al citofono, quasi aspettandomi
che qualcuno mi facesse la cortesia di aprirmi e magari di salutarmi con un
bacio e magari di chiedermi della giornata e magari di farmi sedere a tavola e
mangiare e magari di mettermi su una coperta nel caso mi fossi addormentato sul
divano. Giustamente.
Frugai scocciato nella tasca della giacca scialba che indossavo sempre più
spesso e aprii il cancello con le chiavi per poi entrare nell’androne lucido.
«Bene, mi ha fatto piacere conoscerti, arrivederci,» salutai, nel modo più
cordiale possibile. Ma quello tenne caparbiamente aperto il cancello nero con
il piede.
«Sicuro che non vuole che le faccia qualche altro favore?»
«Sicurissimo. Ora torna a casa, per favore,» risposi quasi implorante, i nervi
già a mille.
«Ma davvero? Lei mi ha salvato la vita, e…»
Il mio sguardo assassino lo fulminò.
«Sì, ripensandoci puoi farmelo, un favore: levati dai piedi e lasciami in
pace,» dissi ormai quasi urlando, e ritenni di essere piuttosto spaventoso. Con
un movimento brusco, riuscii a chiudere quel dannato cancello, poi voltai le
spalle a quel tipo che adesso s’era appeso alle sbarre, e feci girare le chiavi
anche nel portone interno, per poi salire le scale quasi di fretta e chiudermi
in casa. Notai che le orecchie mi fischiavano mentre mi lasciavo andare su uno
dei due divani in pelle blu. Detestavo le seccature, le detestavo con tutta
l’anima, e quel giorno me n’era capitata una bella grossa. Ma adesso potevo
dire di essere in grado di tranquillizzarmi: bastava un bicchiere di tè verde,
una sigaretta e magari un bel film. No, la sigaretta no, avevo smesso di
fumare. O almeno, così credevo.
«Pessima giornata,» mi dissi sospirando, come ormai facevo ogni volta che
tornavo a casa, che fosse mattina, pomeriggio o notte inoltrata.
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La scrissi su un quaderno, questa storia,
e solo adesso mi sono decisa a copiarla sul computer. Però se voglio continuare
a copiare, ho bisogno che qualcuno mi dica se è accettabile o se fa schifo ai
cani XD Grazie, se lo farete :)
Mirokia