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Autore: Nina Rigby    19/09/2012    2 recensioni
Non ero più Jimmy, il bambino che ha sofferto e che si è gettato nell’autodistruzione.
 
Sono il figlio della rabbia e dell’amore,
sono il Gesù di Periferia.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LETTERBOMB
 
 
 
 
Le prime gocce di sangue iniziavano ad affiorare sulle mie nocche e sul muro si era formata una piccola crepa, niente a che vedere con lo squarcio che avevo dentro.
La lettera giaceva inerme sulle piastrelle da quattro soldi della cucina di Whatsername. Due pagine scritte fitte, riempite dalla scrittura sbilenca della ragazza. Ricordo di averle detto una volta che era impossibile capire la sua grafia. Aveva riso, aveva scherzato rispondendo che tanto non siamo così romantici da spedirci lettere o scriverci poesie.
Ma il finale tragico-romantico purtroppo, quello non ce l’ha risparmiato nessuno.
Una notte di baci, di “ti amo” ripetuti all’infinito. Tiamoanch’iotiamodioquantotiamojimmytiamotiamopiccolatiamotantissimo.
Una lettera, una bomba sul tavolo della cucina. BANG!
 
Sei morto Jimmy. Sono morto Jimmy.
 
 
Sapevo di non essere fatto per la convivenza, sapevo che avrei rovinato tutto, non sarei mai riuscito a fare le “cose per bene”. Eppure quando Whatsername mi aveva detto di essere pronta, di aver capito che ero quello giusto, come potevo non accettare?
Quello giusto eh. Ma se tutto in me è così sbagliato, come pretendevo di essere quello giusto per lei?
E poi eravamo giovani, giovani e senza speranza, con passati graffianti e graffi sulla pelle. Lo stare troppo assieme ci ha distrutti, ci ha schiantato al suolo.
 
Diluviava, come al solito. Ridendo io e lei trascinavamo la mia macchina sotto casa sua. Non era molta la strada, ma io non sono un tipo troppo forzuto e lei più che spingere si limitava a ridere di gioia. Parcheggiai davanti alla sua porta. Insieme frugammo ogni angolo dell’auto alla ricerca di qualcosa che potesse servire. I miei miseri stipendi del supermercato erano ben nascosti sotto il sedile. Sul cofano, un pacchetto di Lucky Strike sgualcito. Era lì da secoli, probabilmente. Raramente fumavo sigarette, le avevo da tempo sostituite con le canne.
Non c’era nient’altro, e me ne vergognai. Anzi no, c’era anche un k-way sul bagagliaio. Che però poco serviva contro la pioggia scrosciante di San Diego. Salimmo le scale correndo, tenendoci per mano. Lei teatralmente aprì la porta della camera da letto e disse “Benvenuto nella nostra casa, signor Rag(e)son.”
Ricordo che stavo per piangere, stavo per piangere perché non credevo si potesse essere così felici. Mi avvicinai a lei, le strinsi i fianchi, le accarezzai i capelli.
“E’ la casa più bella del mondo” dissi, e lo pensavo davvero. Lo pensavo nonostante il telefono staccato, le ragnatele sul soffitto e gli spifferi alle finestre.
“E il signor Ragson si chiedeva se per caso le andasse di diventare la signora Ragson” abbassai immediatamente lo sguardo, col cuore in gola. Non so ancora da dove partivano quelle parole. Probabilmente da un posto del cuore che nemmeno sapevo di avere.
Lei non rispose, né quella notte né mai. Si limito a baciarmi la fronte, in punta di piedi.
E nulla avrebbe avuto più senso che noi due a sfiorarci sotto le lenzuola, mentre della bufera che c’era fuori restavano solo i nostri vestiti bagnati sul pavimento.
 
 
 

























Ehm..ciao (?)
Quanto mi mancava il mondo delle ff. Avevo pensato di iniziarne una nuova, ma mi sarebbe davvero dispiaciuto lasciare incompleta questa qui. Quindi eccomi! Il capitolo è breve e incompleto, ma grazie alla scuola sono piena di impegni, poi c'è la palestra, canto, teatro....
insomma finirò il capitolo il prima possibile, prometto che non sparirò di nuovo per mesi D:
mi scuso con tutti quelli che mi seguivano, e spero che continuino a farlo.

Buona lettura
  
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