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Autore: PiccolaEl    19/09/2012    1 recensioni
"Sono ritardataria, bugiarda, acida. Poi sono gentile, cordiale, e cedo l’ultima fetta di torta. Poi sono fredda, di una freddezza quasi utopica, irreale. Arrabbiata. E l’unica cosa che mi viene in mente è uscire di casa e stare fuori per delle ore. A fumare. E ad ascoltare canzoni a macchinetta dal mio mp3. E piangere, sullo scalino di una vetrina ben nascosta dal centro della città. Ben nascosta da tutti. Ben nascosta anche da me stessa, perché alla fine fuggo solo e soltanto da me. Degli altri non ho paura. Neanche di quelli che dalla faccia sembrano dei terroristi immigrati. Ho paura di me stessa. Del mio giudizio, unico e personale. Delle boccate d’aria fresca, ho paura, perché sono realtà [..] Non sono la ragazza del libro, o del film, o delle serie tv. Sono una ragazza normale, con problemi assurdi, e che non si fa problemi per niente. O per tutto. Spalanco gli occhi quando qualcosa mi attrae, le gambe mi cedono quando sono innamorata e i miei capelli come li metti stanno."
Questa è la piccola Bambi, che, catapultata in una nuova esperienza, troverà il coraggio di amare con tutto il suo corpo e la sua mente.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2 - Routine.

 
 
“Svegliati idiota, sono le otto meno un quarto.” mi sento chiamare, ma non rispondo. Mi alzo e mi trascino in bagno. Mi fisso allo specchio e tutto quello che vedo è una ragazza con i capelli normali, occhi normali, sopracciglia normali, viso normale. Non sono l’eccezione, non sono speciale, non sono diversa. Sono una come tante. Sospiro, mi sciacquo il viso, mi lavo i denti e mi metto solo il copri occhiaie. Torno in camera. Nella mia camera verde. Scelgo un jeans chiaro, una camicetta bianca che mio padre mi ha portato da Boston e un maglioncino arancione della Hollister. Ai piedi le mie Clarks arancione comprate l’anno scorso con mamma. Primo giorno di scuola. Non sono preoccupata, né stanca, né svogliata. Sono… strana. Mi sento come se da un momento all’altro qualcuno scendesse dal cielo e gridasse: “hey, è una candid, puoi tornartene da dove sei venuta, stronzetta.”. Sospiro. Non voglio tornare. Né sentire il rumore del mare in quella casa al mare. Non voglio tornare ad essere la sua Babi. Non voglio tornare ad essere sua e basta. Prendo la tracolla celeste Converse e prima di uscire mi vaporizzo il Prada. Infusion d’Iris. L’unica cosa che è rimasta intatta dalla mia vita precedente, oltre ad alcuni vestiti. Un passo alla volta. Sono le otto meno dieci. Che palle. Esco di casa, mi infilo il casco, metto in moto e parto. Quando mamma mi ha chiesto quale liceo classico scegliere per proseguire il mio studio ho pensato subito al Luigi Galvani. Dal sito sembrava tanto una reggia. Spero che assomigli anche un poco ad una scuola. In cinque minuti sono li. Il Ninjia ovviamente con un rombo si spegne, e gli occhi di tutti i fottuti presenti sono puntati su di me. Che palle. Mi levo il casco e mi apro un poco il giubbotto nero di pelle. Sono forte. Sono dura. Non voglio mi si avvicini nessuno al momento, potrei anche sorridere. E magari spezzare la maschera da padrone dell’universo che mi sono costruita addosso prima di fare il mio ingresso trionfale, con tanto di occhiali neri alla Blues Brother. Raccolgo i capelli e faccio sbatacchiare la tracolla. Scendo dalla moto, metto la catena e mi guardo intorno. C’è un orgia di gente, tutti che mi guardano, i miei capelli mezzi rincoglioniti e la visuale appannata. Il cancello è gigantesco, bellissimo, e l’entrata… principesca. Ci sono i gruppi di ragazzi. Sono quasi tutti con la puzza sotto al naso. Ma non hanno ancora visto niente. Un gruppo di ragazzi che sembrano appena usciti dalle pubblicità dell’Abercrombie mi sorridono ammiccanti, radunati attorno a diverse Chatenet. Ragazze che mi guardano schifate o più semplicemente con l’invidia negl’occhi. Altri che guardano e basta, ammirati. Cammino lentamente. E al mio ingresso la gente si ammutolisce. Poi inizia a bisbigliare tra sé.
“Babette!” urla qualcuno. Mi giro di scatto. Un ragazzo, tra quelli in stile Abercrombie, mi saluta cordiale. E’ alto, ben messo, Rayban multicolor e vestiti firmati contornati da una Barooder modello nuovo. E’ uno della squadra. In effetti, non sembrava proprio il tipo da liceo classico. Buon per me. Sorrido e mi dirigo verso di lui.
“Hey.” esclamo, e ci diamo il pugno assieme a una spallata. Che palle questi guardoni.
“Scusa, non mi ricordo se ti chiami Fabrizio o Stefano.” aggiungo, ridacchiando. Scoppia a ridere, e l’aria si riempie di buon umore. Sorriso smagliante, capelli caramello lisci e… impeccabili. Probabile gay.
“Umberto.” risponde, sorridendomi. Si leva gli occhiali e il marrone dei suoi occhi non è un normale marrone. E’ figo. E gay.
“Che stupido!” si batte una mano sulla fronte con fare teatrale. Gay. “Ragazzi, lei è Babette” esclama a voce alta, e io saluto imbarazzata. I ragazzi che prima ammiccavano… ammiccano di più.
“Chiamatemi pure Bambi. Anche tu, Umberto. Adesso vado” e salutandolo con due baci sulle guance mi allontano. Sto quasi per entrare, quando lui stesso mi raggiunge.
“Serve una mano?” mi chiede, con quel sorriso impeccabile che ho ammirato poco prima. Tentenno, e se ne accorge.
“Dai, son bravo da Cicerone.” aggiunge, e cedo. Posso permettermi di cedere una volta ogni tanto anche io.
“E va bene. Devo andare in segreteria, firmare, compilare moduli e farmi dire in che classe sono e farmi dare l’orario delle lezioni.” elenco, sentendomi in soggezione. Mi levo gli occhiali e lo guardo anche io. Sorride, intenso. Forse non è gay. Ma non m’importa.
“Vieni, la segreteria è di qua.” e senza darmi il tempo di alzare lo sguardo mi spinge a destra, corridoio, sinistra. Appena vi siamo davanti la campanella suona, ci salutiamo velocemente e sistemo le faccende burocratiche.
“Scusi, non mi ha detto qual è la classe.” dico rivolta alla signora bassa e grassoccia che sta dietro il bancone.
“Sarenelli lei è in…” cincischia, scorrendo una lista di nomi al computer.
“Prima E.” annuncia d’un tratto. “Il meglio e il peggio insieme. Buona fortuna” aggiunge. Sospiro. Me ne servirà parecchia. Mi spiega come arrivare e appena sono fuori la porta uno dei modelli dell’entrata mi si avvicina.
“Devi entrare?” mi chiede, con quei suoi occhi celesti. E’ bello, e sa di esserlo.
“Si. Sono nuova, e questa è la mia classe per i prossimi nove mesi.” rispondo.
“Allora siamo in classe insieme. Piacere, Carlo.” si presenta.
“Okay.” replico soltanto, facendogli montar su una rabbia. Le orecchie potrebbero fumargli. Mi apre la porta, sbuffando e la professoressa si volta. E’ alta, bionda, con gli occhi celesti e gli occhiali sul naso. Taileur gonna con blazer in tinta, scarpe col tacco 8 o 9. Tipa tosta. Guarda il mio compagno e lo fulmina, severa. Poi il suo sguardo saetta proprio su di me, e sul mio casco, che è rimasto in mano, e il giubbotto di pelle e gli occhiali neri. I miei jeans, il mio abbigliamento ordinato…. mi fa la radiografia completa e conclude con un “Buongiorno.” ben articolato.
“Buongiorno.” esclamo, gentile. Mi squadrano tutti, come da due giorni a questa parte.
“Tu devi essere quella nuova.”
“Esattamente, piacere Sarenelli.” mi presento. E’ colpita dal fatto che mi sono presentata con il cognome. Evidentemente esiste ancora qualche stupido che in un liceo classico si presenta con il nome di battesimo.
“Piacere nostro. Io sono la professoressa Degli Esposti, insegno latino e greco. Benvenuta a bordo.” mi sorride, indicandomi un posto al terzo nonché penultimo banco, accanto ad una ragazza più o meno come me, ben vestita ma con i capelli ordinati. Mi accomodo, levandomi il giubbotto gli occhiali e posando la borsa a terra.
“Sarenelli, non vorrei sembrare molto scortese, ma dato che sei nuova e non hai svolto compiti per le vacanze e dato che nei tre giorni precedenti ho fatto domande test a tutti i tuoi compagni, sarò costretta a interrogarti adesso, per testare il tuo grado di preparazione.” e sento qualcuno ridacchiare.  
“In effetti, professoressa, per non arrivare con lavoro arretrato ho fatto una versione un giorno si e un giorno no, durante questi tre mesi, per un totale di 45 versioni. Vuole dare un’occhiata?” chiedo, e tutti rimangono allibiti, lei compresa. Di nuovo.
“Portamele qui, grazie.” vado alla cattedra con il mio quaderno di latino e con quello di greco.
“E il testo da dove lo prendo?” mi chiede, un poco scettica.
“Sono tutte corredate di testo e paradigmi, professoressa.”
“Perfetto.”
Passa circa un quarto d’ora a leggere, poi richiude tutto e mi manda a posto. Credo che la lezione sarà molto interessante.
 
 
“Santo Dio, che palle.” sbotto, non appena la campanella dell’intervallo suona, e la mia compagna di banco si gira di colpo. Mi guarda negl’occhi.
“Piacere, Giulia.” si presenta.
“Piacere mio, Bambi.” replico. Ha gli occhi grandi e marroni corredati da una montatura RayBan uguale alla mia Tom Ford, i capelli lunghi, forse fino al bacino, rossi e ricci e un bel sorriso. Maglietta a righe rossa e bianca, pantaloni rossi e Clarks nere ai piedi, in tinta con la giacca, anch’essa nera. Forse siamo gemelle separate alla nascita. O forse più semplicemente è la mia prossima compagna di giochi.
“Non mi piace come nome.” mi dice, e a questo punto si, confermo, è la mia prossima compagna di giochi.
“Il mio nome è Babette. Chiamami come vuoi.” replico allora.
“Bette. Penso sia la roba più decente che ne esce fuori” e non è imbarazzata, non ha peli sulla lingua e ha un paio di Clarks ai piedi. Finalmente qualcuno di normale. Scoppio a ridere e lei con me. Sto per dire qualcos’altro quando una stangona bionda vestita da groopi a momenti con al seguito tutte le altre ragazze della classe mi punta e con aria da divina si avvicina al banco. Al mio banco. Volto la testa per guardarla ma le tengo le spalle. Se ne accorge e si schiarisce la gola. A quel punto mi alzo e mi giro del tutto.
“Ciao carissima” mi saluta, con la voce più stridula che io abbia mai sentita e con il sorriso più falso del mondo.
“Cià” dico soltanto, e la sua espressione cambia.
“Volevo presentarmi, ma ho cambiato idea in questo momento” s’indispettisce. Le sorrido più falsa di lei. Il lavoro sporco non le riesce per niente bene.
“Menomale” e faccio finta di tirare un sospiro di sollievo “adesso se non ti dispiace vado in cortile a fumarmi una Marlboro. Giulia, tu vieni?” e le sue guance si gonfiano quanto un pallone. Giulia resta seria, poi si apre in un sorriso compiaciuto.
“No grazie, non sopporto l’odore. Ti aspetto qui.” e con un sorriso vittorioso le passo accanto urtandola con poca grazia ed esco in corridoio, portandomi dietro le sigarette e l’accendino rosso come il pacchetto, a fiamma ossidrica. Sento gli occhi puntati. Credo che mi ci dovrò abituare. E credo anche che tutti gli altri dovranno abituarsi a me. Mi affaccio da una delle finestre e osservo l’intero cortile stracolmo di gente. Decido di scendere. Se vogliono guardarmi almeno devo mettermi in un punto da dove possono guardarmi bene. Appena attraverso la soglia, mi siedo sullo scalino, esco una sigaretta e, noncurante me l’accendo, aspirando il più possibile. Aria, finalmente.
“Ti fa male fumare” mi dice una voce e mi giro pronta a insultare quando mi accorgo che è Umberto. Sorrido, quando sento il sorriso tra le sue parole. Scruto i suoi capelli. E’ gay. Penserà che sono una stalker, ma secondo me è gay. Lo fisso di più. Penserà sicuramente che sono una stalker.
“Fa male anche l’amore.” replico dopo un po’ di tempo passato a fissarlo insistentemente. Guardo davanti a me, chiudendo gli occhi ad ogni boccata di fumo. Ridacchia.
“Hai ragione. Cento punti” e mi sorride complice. Accenno anche io un sorriso tirato.
“Hey Umbe, non ci presenti la tua nuova amica?” il gruppo di qualche ora fa è ora tutto fronte a noi, con tanto di muscoli e capelli. Che palle.
“Ragazzi lei è Bambi. Bambi loro sono Giuseppe, Francesco, Roberto, Carlo, Andrea e Alessandro.” fa le presentazioni Umberto, e tra questi scorgo il mio compagno di classe, Carlo.
“Con Carlo ci conosciamo già, siamo nella stessa classe.” replico allora, completando la mia sigaretta. La butto per terra e la pesto col piede. “beh è stato un piacere fare la vostra conoscenza, torno dentro.”
“Ti accompagno” aggiunge subito Umberto, e lo guardo stranita. Annuisco ugualmente e ci incamminiamo. Lo sento trattenere il fiato. Risaliamo le scale e quando stiamo per arrivare non ce la fa e sospira.
“Me lo dai il tuo numero di telefono?” mi chiede.
“Perché?”
“Perché mi annoio a matematica. E adesso ho matematica.” risponde, alzando le spalle a mo’ di scusa. Tentenno. Ma alla fine, un amico gay mi piacerebbe. E io non ho pregiudizi.
“Okay.” rispondo soltanto. Glielo detto e ci ripromettiamo di vederci all’allenamento. Entro in classe e le successive ore le passo a messaggiare. Con lui e con Chiara, la mia migliore amica rimasta a Siracusa.
 
 
“Mamma, sono a casa!” urlo sull’uscio, posando la mia copia delle chiavi e lasciando il giubbotto sull’appendi soprabiti.
“Sono in cucina!” urla lei di rimando. Salgo in camera mia, poso la tracolla e la raggiungo, lasciandole un bacio sulla guancia e apparecchiando la tavola.
“Com’è andata questo tuo non-primo giorno?” chiede, interessata con quei suoi occhi nocciola, ancora vestita di tutto punto dalla mattina.
“Bene. Le ho stupite tutte finora!” racconto, fiera.
“Hai visto? Te l’avevo detto che avevi fatto bene!” esclama entusiasta.
“Nella mia scuola viene anche un mio compagno di boxe. Si chiama Umberto.” la informo, e subito si apre in un sorriso malizioso. “ma sospetto sia gay.” aggiungo, e trasforma la sua faccia nella depressione per eccellenza.
“Peccato.”
“E poi mi sono anche presa questione con delle ragazze nella mia classe. Tipo si sentivano toghe. Allora le ho smontate” e ammicco. Ricambia, interessata, mangiucchiando della rucola da una ciotola posta sul tavolo.
“Mentre la mia compagna di banco è… boh, pazzesca. Aveva anche lei le Clarks. E i capelli lunghissimi. E gli occhi da cerbiatta. Mi sta simpatica.” spiego, gesticolando.
“Sono contenta. Invitala qua, magari per un pomeriggio di studio. O per cazzeggiare. O a mangiare!” propone, sulla cresta dell’onda.
“Vedremo.” e senza aggiungere altro ci sediamo a tavola.
“Adele?” chiedo.
“Sta bene, l’ho sentita stamattina. Oggi andava in facoltà e poi si prendeva un caffè con Ciccio.” replica, versandomi l’intera ciotola d’insalata di pasta nel piatto.
“ah vero. Lui frequenta ingegneria qui.” mormoro sovrappensiero. 
“E Giov?” mi informo.
“Boh. In ogni caso, tuo padre starà fuori stanotte. Torna domani mattina direttamente.” ed accende la tv in cerca di ‘Beautiful’. Finisco il piatto e mi avvio verso la camera verde. Mi butto sul letto. Sono stanca. Vorrei un gelato di consolazione per questa giornata deludente. Ma a consolarmi viene Sunshine, la piccola di casa. Con un saltello è su di me. Golden retriver nero, occhi celesti e musetto tenero. La mia piccola. La carezzo lentamente e in pochi minuti si addormenta. Guardo la sveglia sul comò che segna appena le due e mezza. Che palle. Mentre l’accarezzo chiudo gli occhi. E il sonno mi coglie.
Squilla il telefono, un messaggio. Mi stiracchio per quanto possibile e afferro il cellulare. 
‘Pedro vuole che scriviamo un tema sulla nostra vita. L’ha lasciato l’altro ieri per oggi. Adesso che fai parte della squadra tocca anche a te. A dopo, un bacio :*’ e sul finale, sorrido. Il gay più dolce che conosco. Mi stiracchio e mi siedo sulla sedia girevole accanto la scrivania. Devo solo scrivere un tema. Un dannato tema sulla mia vita. Non può essere che già il primo giorno di scuola mi lasciano un compito cosi difficile. E che soprattutto dovrò leggerlo all’intera squadra. Perché Pedro rompe i coglioni. Sbuffo. Magari mi sentirò più libera dopo averlo scritto. O magari mi sentirò una merda e cadrò in depressione. Probabile. Non impossibile. Prendo un foglio dalla risma che il saggio padre mi ha lasciato prima di prendere il treno stamattina e inizio. E butto tutto. E sto meglio. E sto peggio.
 
‘Ciao. Sono Babette. Ascolto musica. Sto sveglia fino a tardi a leggere opere improbabili. Mangio, bevo, dormo, studio, mi alleno. Mia madre e mio padre sono due avvocati. Mio padre è anche giudice onorario. Mia sorella frequenta la facoltà di Lettere qui, a Bologna. Io frequento il liceo Galvani, sempre qui, a Bologna. Ognuno ha un posto nel mondo. E poi ci sono io, piombata da qualche parte per merito di non so chi. Qualcuno una volta ha detto "sono una cicatrice sulla schiena... sono una follia, una fotografia, sono l'abitudine che scivola via". O forse lo ha cantato. Non mi ricordo. Ma è vero. O forse sono il contrario. Sono ritardataria, bugiarda, acida. Poi sono gentile, cordiale, e cedo l’ultima fetta di torta. Poi sono fredda, di una freddezza quasi utopica, irreale. Arrabbiata. E l’unica cosa che mi viene in mente è uscire di casa e stare fuori per delle ore. A fumare. E ad ascoltare canzoni a macchinetta dal mio mp3. E piangere, sullo scalino di una vetrina ben nascosta dal centro della città. Ben nascosta da tutti. Ben nascosta anche da me stessa, perché alla fine fuggo solo e soltanto da me. Degl’altri non ho paura. Neanche di quelli che dalla faccia sembrano dei terroristi immigrati. Ho paura di me stessa. Del mio giudizio, unico e personale. Delle boccate d’aria fresca, ho paura, perché sono realtà. E sono anche odio. L’odio che tengo dentro, per me, senza che nessun’altro ci ficchi il naso. L’odio che esce soltanto quando il sacco fa avanti indietro perché l’ho colpito con tutta la forza che il mio pugno possiede. Esce quando sommo, sommo, sommo. E poi esplodo. E sento il sangue pulsare al cervello. E mi sento svenire, come quando non faccio la merenda il pomeriggio e di colpo mi sento come se avessi fatto cento merende tutte di fila e fossi pronta ad affrontare anche uno yeti. Non lo sono, il più delle volte. La maschera che porto è ben incollata al mio viso, dura. Quello che si vede di me è tutta illusione ottica. Sono estroversa. Ma solo con chi so che posso esserlo. Ferisco. Sempre. E sorrido vittoriosa ma poi… cado. E cedo. E mi rialzo. Non sono la ragazza del libro, o del film, o delle serie tv. Sono una ragazza normale, con problemi assurdi, e che non si fa problemi per niente. O per tutto. Spalanco gli occhi quando qualcosa mi attrae, le gambe mi cedono quando sono innamorata e i miei capelli come li metto stanno. Sono particolari che mi hanno plasmata e che mi plasmano continuamente. Sono parte di me. Dei pezzi, scomposti e rimescolati. Ma comunque li metti, ti daranno sempre una cosa, la mia vita, o meglio una persona: Babette Sarenelli. Bambi.’
 
 
“Ho svolto il compito che c’era da fare.” annuncio allora, quando Josè finisce di leggere il tema sulla sua vita e sulla sua infanzia, fuori dal paese natale. Commovente. Non ho pianto neanche un poco ma era commovente, nonostante tutto. Adesso mi guardano tutti e sento gli occhi di Massimiliano addosso. Ha gli occhi troppo verdi. E i capelli troppo mori e ricci. E gli occhi troppo verdi. E il fisico troppo scolpito. E le spalle troppo larghe. E il petto troppo caldo. Basta cosi. Mi alzo e con il figlio in mano, recito a voce alta. E forse passano minuti, ore, giorni, mesi, anni, secoli. Ma il tempo si è fermato e i miei occhi scorrono le righe scritte a penna e leggono, chiaramente, tutto quello che il mio cuore sente e che mai riesce a dire, a manifestare. Mi sento come se… stessi meglio. Quando finisco alzo gli occhi tremante e quelli verdi sono ancora li, fissi su di me, che mi applaudono e strepitano come pazzi. Tutti i ragazzi si alzano e le loro prese le sento salde su di me. Anche Pedro. Tutti. Umberto per primo. L’unico che manca è proprio lui, Massimiliano, che appena si alza, mi tende la mano. Me la stringe. E basta. Ah, che palle.
“Ora basta, iniziamo l’allenamento.” sbotta poi Pedro e iniziamo il riscaldamento.
E dopo due ore e mezza di saltelli, di botte, di scontri, ci riuniamo tutti al centro della sala, scherzando. Pedro ovviamente se n’è andato.
“Bambi è la più coraggiosa di tutti, qua. Ci voleva una come lei, ammettiamolo” esclama Stefano e i suoi occhi chiari dicono tutto quello che c’è da dire. Sorrido. Sorrido davvero e per la prima volta, e forse è uno dei miei sorrisi più belli.
“Grazie ragazzi. Vi conosco da tipo due giorni e già mi fate sentire a casa. Grazie.” e sorrido ancora e ancora. Una vagonata di sorrisi, che tutti incassano. E che io stessa incasso.



E come una fenice, risorgo, dalle mie stesse ceneri.
 







 

 




Punto numero uno: sto postando già adesso perché... boh, perché forse nonp osterò per un po' AHAHAHA. Punto numero due: vorrei ringraziare chi ha recensito, tutti, perché le recensioni, qualsiasi recesione, mi scalda il cuore. Perciò, grazie. Punto numero tre: questo capitolo è un po' lunghetto, non volevo tagliarlo, perciò... eccolo. Punto quattro: grazie a chi ha aggiunto la storia tra le seguite e le preferite. Grazie, grazie, grazie e grazie. E spero di non deludere nessuno, neanche me stessa (la vedo difficile però ahahaha).
Stop, finito. 
Al prossimo aggiornamento, la vostra Eleonora :*

 

  
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