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Autore: Achab    11/06/2004    3 recensioni
la storia, come si vede dal titolo, è ripresa da "i cavalieri della tavola rotonda" non è molto lunga, ma è molto bella, parola di Shian Tieus, ovvero colui che stà facendo questo commento, l'autore non ha potuto pubblicarla personalmente perchè è da poco che ha il computer e credo che non sappia nemmeno cosa sia internet: comunque vale la pena di leggerla, perlomeno per l'originalità, commentate gli farà piacere!!! p.s. se volete contattare l'autore, mandate le vostre mail a Shian Tieus, penserò io a girarle all'autore
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL RE DI CHAMELOT

 

 

N 

el mezzo di un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, corte di reali e semplici viandanti.

Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia,stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Ero senza fiato per la lunga cavalcata, e per la bellezza e la regalità del luogo. Ringraziai gli stallieri e mi fermai a guardare meglio il posto.                                                                                          La strada mi aveva portato nel regno di Orisen, più precisamente nella cittadella fortificata (residenza del re Theoden) di Lòrien, sulla sponda sinistra del fiume Tèbit, il quale serpeggiava nella valle antistante il bosco.                                               Il paesino, circondato da poderose mura di cinta, intervallate ogni cinquanta metri da grandi bastioni, era molto suggestivo: si potevano incontrare, fiancheggianti la stretta stradina, in salita, qualche rara bottega di calzolai, fabbri, falegnami, qualche casetta di contadini, ma c’erano anche delle taverne, dalle quali usciva un buon profumo di cibo, e un po’ di calore in una fredda sera invernale. Fu proprio in una di queste,“la taverna del re”, che io entrai, e dopo avermi fatto lasciare la spada vicino al bancone mi diedero da mangiare, e ordinai la stanza dove alloggiare la notte.                                   

  La gente che c’era quella sera, in quella taverna, a prima vista, non mi ispirava fiducia. Infatti appena entrai, mi lanciavano sguardi di fuoco, e, girandosi, commentavano su di me a voce bassa, ma questo non mi interessò più di tanto. Arrivato nella stanza, mi stesi sul letto senza neanche levami i vestiti, e mi misi a pensare al mio passato, a quando dieci anni prima, me ne andai dal mio regno, il regno di Chameloth, lasciando mio padre, il re Gàlifer e mio fratello Itarmir, per non avere la responsabilità di un grande regno.                                                                       Ma mentre pensavo a questi fatti, fuori dalla taverna, si sentivano voci e urla. Mi affacciai da una finestrella, e vidi tantissimi soldati, a cavallo e a piedi, venuti dal regno di Lèsir, salire la stradina, sino a scomparire dietro una curva. Proprio in quel momento, irruppero nella mia stanza, alcuni soldati del re Theoden e uno di loro, mi chiese: “Viandante, sai brandire una spada?”, io un po’ spaurito risposi di si, allora, facendo altrettanto in tutte le altre stanze, case, e taverne, riuscirono a formare un gruppo di più di duecento uomini e ci portarono nell’armeria del castello.                                                                                                                         Il castello era situato nella parte più alta della cittadella, abbarbicato, solitario, su di un colle roccioso, al quale si poteva accedere per mezzo di una stradina, che serpeggiava tra le case. Era anch’esso circondato da alte mura, che sembravano uscire dalla roccia, innalzandola di qualche metro; queste avrebbero costituito, in caso d’attacco, l’ultimo baluardo, prima della sconfitta. Eravamo tutti molto stanchi, e lessi nei volti degli altri (c’erano anche ragazzi) la paura di non tornare a casa. Entrammo nell’armeria del castello, un luogo buio e caldo, dentro c’erano altri uomini,che si stavano vestendo, con cotte di maglia ed elmi. Appena entrati, fornirono anche noi di spade (che non accettai, avendo già la mia) e armature.     Da lì ci smistarono nei diversi punti della cinta muraria e nel tragitto, si vedevano sparpagliate, grosse catapulte; a me toccò la parte vicino al re.                                                                                               Arrivato sulla sommità del muro di cinta, che cingeva il castello, mi sporsi dalle merlature, per guardare cosa c’era nella valle, e, con grande sgomento, malgrado fossi cosciente di ciò che mi si stava parando davanti, scorsi il grande esercito di Osolat. Capii, dal grande numero di soldati, che Osolat stava tentando un ultimo arrembaggio, per conquistare, la strategica fortezza, dove io mi trovavo, per poi avere via libera in tutto Orisen, e i regni confinanti.                                                                                                                Il grande esercito,era schierato nella valle, da una trentina di metri di distanza dal muro, fino al fiume. Quelli nelle prime linee, che ci guardavano con uno sguardo rassegnato, proprio di chi non vuole combattere, avevano tutti in mano una lunga lancia e una torcia, quelli più arretrati (vicino al fiume) invece, avevano le balestre. Le lance, ogni tanto, erano intervallate, dalle nere bandiere del loro regno, che presentavano nel mezzo, un grande castello bianco. Dall’alto della nostra fortezza, invece, i soldati erano tutti muniti di balestra; venne dato l’ordine di caricarle, e aspettare quello dello scocco. Il re mi chiamò, per ordinare il lancio a una parte degli arcieri, ma appena mi girai, mi riconobbe, e ancora incerto se fossi io o un altro, con aria incuriosita, mi disse: “Soldato, vieni sotto la luce della luna, così che io possa riconoscerti”. Mi scostai dall’ombra di una torre, mi avvicinai a lui e un po’ meravigliato, mi riconobbe dicendo: “Ma tu sei Alifer, figlio del re Gàliter, del regno di Chamelot! … La tua fama ti precede…”, io risposi: “Si, sono proprio io, al vostro servizio, re Theoden, sarà un onore combattere al vostro fianco”. Lui riprese dicendo: “Qual buon vento vi porta qui?”, risposi: “vagavo per queste terre, quando ieri sera trovai un alloggio in una delle taverne del paese. Decisi di rimanere solo per questa notte, ma poi…”. Dopo avermi accennato un sorriso, mi chiamò accanto a lui, e passato qualche minuto di silenzio chiesi: “Sire, non so se l’ha notato, ma a me sembra che i vostri soldati siano molto inferiori di numero, rispetto ai nemici, ha preso provvedimenti in merito a questo?”. Lui mi rispose: “Ho mandato delle staffette in tutti i regni di queste parti, anche al tuo, ma a quanto pare, solo quello di Lesir ha risposto al mio appello”. Detto questo, diede l’ordine di scoccare le prime frecce. Si sentirono dei sibili che partirono dalle mura, e, subito dopo, nella valle  rumori di ferraglia e urla di morte. Infatti, queste annientarono la prima fila di fanti dell’esercito nemico,e si preparava la seconda ondata. Allo scocco di questa, ormai Osolat aveva rotto i ranghi, e, i fanti disposti a tartaruga, nel centro dello schieramento, estraendo un grande ariete, correvano il più veloce possibile, verso il portone, scavalcando con assi di legno il fossato. Nello stesso tempo, gli arcieri, che erano in fondo allo schieramento, scoccarono le loro frecce, le quali, in buona parte, non colpirono nessuno, ma si schiantarono contro il muro.                                                                                                          Si continuò a lanciare frecce a oltranza, e, fortunatamente, le perdite maggiori le stavano avendo i soldati di Osolat, i quali, cadevano come foglie secche dagli alberi in autunno, sotto i colpi delle balestre. Questi, però, iniziarono a colpire le donne e i bambini, che si trovavano sul bastione centrale, sovrastante il portone, e gettavano pietre e olio bollente da delle inferriate, ai soldati sotto con l’ariete. Questa è una tattica, che, purtroppo, si usa molto spesso negli assedi, ma che è anche dolorosa per i famigliari.                                                                                Lo scontro durava ormai da circa due giorni, e l’esercito assediante, con un piccolo supporto di truppe, venute da ovest, stava iniziando ad avere la meglio su Orisen, assaltando le mura con scale e funi. Da quel momento iniziò il combattimento corpo a corpo, sulle mura, mentre io e il re aspettavamo con ansia, l’esercito del mio paese.                                                                                                              C’erano vittime dappertutto, sulle mura e nella valle; i soldati al portone stavano per abbatterlo, e le poche frecce rimaste ai nostri, si infrangevano sugli scudi. Come se non bastasse, gli arcieri, uniti ai balestrieri, venuti a dargli man forte, erano avanzati per molti metri, e si erano posizionati vicino alle mura, difendendosi con gli scudi.                                                                                            Io e il re, guardavamo la battaglia dal bastione più alto del castello, e, quasi rassegnato, gli dissi: “L’esercito del mio paese, non verrà, ne sono certo perché  l’ho visto scontrarsi, contro Osolat, poco tempo fa, mentre vagavo in terre selvagge, mi dispiace”, abbassai il capo, e feci per andare vero le mura, per dare una mano ai soldati, ma lui guardandomi con fierezza, mi disse: “Non mi importa; se dovremmo morire, sarà meglio morire combattendo”. Mi fece cenno di andare a prendere il cavallo, e, insieme a poco più di cento uomini, uscimmo dal retro della cittadella, sfoderammo le spade, uccidendo i pochi uomini, che cercavano di sfondare da dietro, e con un grande grido di incitamento, attaccammo il fianco dell’esercito nemico. Così facendo, gli arcieri rimasti sulle torri, attaccarono i soldati davanti al portone, uccidendoli tutti. Ci aprimmo un varco tra i soldati, a colpi di spada, e ci schierammo davanti al portone, dilaniato dall’ariete, fronteggiando gli attacchi.                                                                                         Tutti i soldati del castello, presero coraggio dal nostro atto, ne scesero alcuni, e insieme cavalcammo verso il fiume, uccidendo tutti coloro che ci si presentavano davanti.                                                                                                                  Proprio in quel momento, inaspettatamente, ma con grande piacere, si sentì suonare l’antico corno di Chamelot ed uscire le verdi bandiere dal fitto bosco. Urlando a squarciagola, i soldati attaccarono da dietro gli assedianti, e dopo una minima resistenza, essendo quindi accerchiati, fuggirono.                                       Finita la battaglia, si vide, nella valle, una grande desolazione: si vedevano frecce conficcate nel terreno, corpi senza vita, altri che galleggiavano nel fiume, alcuni caduti dalle mura, altri schiacciati dai sassi delle catapulte, altri ancora caduti da cavallo, ma anche molti feriti, che si rialzarono come rinati. Entrammo tutti nelle mura, con un silenzio quasi tombale, e durante il tragitto si vedevano gia persone lacrimanti, che prendevano le vittime dei loro cari, e iniziavano a seppellirle. Lasciammo i cavalli nelle stalle e, preso da parte il generale Enifar, un mio grande amico, prima che me ne andassi, lo presentai al re. Lui, ringraziandoci, ci offrì da mangiare per il pranzo e per la cena, dormimmo nel castello, e la mattina seguente, il re mi nominò duca del regno di Orisen, e fornitici di provviste, ci congedammo per fare ritorno al nostro paese.                                                                                                     Durante il tragitto, il generale Enifar mi mise al corrente di un fatto molto importante, accaduto pochi mesi prima. Mi raccontò che il duca Nasak di Kares, un piccolo territorio che demarca il mio regno a sud-est, saputo dell’imminente attacco a Orisen, e non volendo mandare il rimanente esercito, avvelenò il re mio padre, e con un gruppo di suoi nobili fedeli, prese il governo. Mi disse poi che, organizzata una congiura, lui e un manipolo di soldati, soverchiarono il duca e fecero salire al trono mio fratello Itarmir, che decise di mandare l’esercito.                                                                                                     Arrivati nel mio regno, venni accolto con tutti gli onori che spettano ad un re, ma non ci badai, ed andai subito nella cripta dove era seppellito mio padre.       Appena mio fratello mi vide, mi abbracciò, mi chiese come stavo,e dove ero stato per tutti quegli anni. Parlammo per tutto il pomeriggio in una stanza del mio palazzo, con una grande tavola rotonda nel mezzo, e alla sera,ci fu la cerimonia per la mia incoronazione, e dopo un anno, il matrimonio con la principessa Sarel.                                                                                    Governiamo insieme ormai da quarant’ anni, abbiamo avuto due figli, Artù e Alexandros, e un nipote, Riccardo, ma la cosa che mi rende fiero, è che il  nostro regno è amato e rispettato da molti altri re della terra.                                           Così finisce la mia storia, ma durante tutti questi anni, tornai altre volte dal re Theoden, il quale, mi chiese di lasciargli la spada, come ricordo di una antica alleanza, e un grande aiuto, per il quale, ancora oggi, non finisce di ringraziarmi. Ho anche preso parte ad altre battaglie, ma questa è un’alta storia, della quale vi parlerò un’altra volta.     

 

 

                   Fine

 

Alessandro Chiffi

  
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