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Autore: _camus_    21/09/2012    9 recensioni
E penso che ora più che mai mi servirebbe il tuo braccio intorno alle spalle, a tenermi unita.
Perché era poco più di niente, sì, ma io mi sentivo meglio.

Cronaca di una banale speranza infranta.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so se sia giusto o sbagliato pubblicare una cosa come questa.
In fondo, non racconta nulla: è solo un normalissimo sfogo, talmente banale che chiunque avrebbe potuto buttarlo giù.
Forse, però, è proprio per questo che ho deciso di condividerlo – perché qualcuno possa ritrovarcisi, al di là degli aneddoti personali.
Troppo spesso tendiamo a sottovalutare i piccoli drammi che viviamo quasi quotidianamente; scavandoci un poco dentro, potremmo magari scoprire che non sono poi tanto piccoli. Chissà che, tirandoli fuori, non sia più facile guarirli.
Lo auguro a me stessa e a tutti quelli che, leggendo, sentiranno di averne bisogno.
Irene

 

Era poco più di niente
 

 

Fuori, piove a dirotto.
La finestra dischiusa lascia entrare il rumore frusciante dell’acqua che scorre lungo la strada, distraendomi ulteriormente – come se fosse possibile.
Mi allontano dalla scrivania colma di libri studiati a metà, e guardo all’esterno.
Guardo, ma non vedo null’altro che monotono grigio di una uggiosa giornata settembrina: sarebbe bello poter perdercisi dentro. Dissolversi nella nebbia e non far più ritorno.
No, basta con queste stronzate melodrammatiche.
Ci vorrebbe una sigaretta. O forse, stavolta, non basterebbe nemmeno quella.
Potrei, che ne so, scrivere una poesia; in fondo me l’hai chiesto più di una volta, ricordi?
Scrivimi una delle tue poesie!
Sicuramente intendevi una di quelle vecchie, una di quelle che tengo relegate dentro a uno sgualcito quaderno celeste, piena di sentimento per qualcuno che non sei tu. Senza impegni.
Sarebbe stato molto più facile per entrambi, se l’avessi fatto allora.
E, invece la butto giù adesso – adesso che è già troppo tardi.
E te la dedico pure, anche se, fra noi, era poco più di niente.
Curioso: pensavo che il niente facesse meno male.
Ma stai tranquillo, non è nulla, la delusione passerà. Passa sempre, anche quando è molto più forte di questa.
Non è morta altro che l’ennesima speranza.
Sì, passerà di sicuro. Che sono una persona tutta d’un pezzo è vero.
Il fatto è che ora, al contrario, sto facendo una fatica pazzesca a mantenermi integra: mi sento sul punto di sgretolarmi.
Come se, con una parola sbagliata, potessi spaccarmi in tanti piccoli frammenti. Sensazione bizzarra, questa.
E penso che ora più che mai mi servirebbe il tuo braccio intorno alle spalle, a tenermi unita.
Perché era poco più di niente, sì, ma io mi sentivo meglio.
Mi sentivo meglio a camminare accanto a te, a parlare di sogni e di paure, mentre i turisti passavano e Firenze ci sorrideva benigna.
Mi sentivo meglio lassù, seduta su una panchina, quando hai appoggiato la fronte contro la mia e hai sussurrato che, guardandoli controluce, avevo gli occhi quasi gialli. Che erano belli, i miei occhi.
E io ci ho pure creduto, perché anche quel giorno al mare avevi detto qualcosa di simile.
Deve essere stato allora, con la città ai piedi, che mi è rimasto il tuo odore sulla maglietta e sul cuore.
Pazienza, la maglietta la laverò – anche se non vorrei.
È per il cuore che mi preoccupo: quello non si può mettere in lavatrice. Maledizione, avrei dovuto aspettarmelo che sarebbe stato poco più di niente. Che sarebbe finita presto, anzi, che non sarebbe mai iniziata.
Ma io, in quel momento, non lo sapevo. Non lo sapevo e sorridevo e continuavo ad accarezzarti, quasi volessi assorbire una quantità sufficiente di te che mi bastasse fino al nostro prossimo incontro – un prossimo incontro che non ci sarebbe stato, come ho cominciato a immaginare solo più tardi.
Ero sdraiata sul tuo letto, con te ad arruffarmi i capelli e il tuo coinquilino che, nella stanza accanto, studiava ad alta voce chissà quale materia.
Per qualche strano motivo me la ricordo bene, la sua voce; ripensandoci, avrei preferito ascoltare quella, piuttosto che la tua.
Perché, dal momento in cui hai smesso di baciarmi e hai iniziato a guardarmi fisso, ho avvertito subito che quello che mi avresti detto non mi sarebbe piaciuto affatto.
Penso che io e te non siamo fatti per stare insieme.
Cosa diavolo ti sia passato per la testa, io non l’ho capito.
Ore di chiacchiere – devo riconoscerlo: sei perfetto, per fare l’avvocato. Non come me –, e intanto non l’ho capito.
Sento ancora la mia gamba destra tremare impercettibilmente, che poi era l’unico segno tangibile del mio disappunto – disappunto: un termine troppo tecnico, esageratamente razionale. Stavo malissimo, in realtà. Anche se era poco più di niente.
Del dopo, è persino inutile parlare.
Ho cercato di essere onesto. Avrei potuto far finta di nulla fino a domani, e dirti le stesse cose in fretta e furia, prima che tu salissi in treno.
Che pensiero gentile.
Come se io avessi dovuto ringraziarti per aver sputato – con molto tatto, per carità – sui miei sentimenti confusi.
Come se io avessi dovuto gioire all’idea di passare la notte in bianco, ad ascoltare i tuoi sbuffi nervosi su quel letto che, per rispetto nei miei confronti, non hai voluto dividere.
Non voglio rammentare la tua faccia alla stazione, quando io ti ho teso rigidamente la mano per salutarti e tu mi hai abbracciato stretta, chiedendomi di non fare così.
Preferisco ricordarti circondato di luce, con le dita che scivolano sulle corde della tua chitarra sgangherata, mentre mi canti una canzone cercando invano di sovrastare il rintocco delle campane.
Ecco, sì, quello è stato l’ultimo momento di perfezione: una delle poche cose belle che mi sono rimaste di te – insieme a un biglietto del cinema, un centinaio di messaggi sul cellulare e a una foto fatta in discoteca la sera in cui ci siamo conosciuti.
Cos’altro, poi? Ah, ma certo: un mucchio di sparsi frammenti di memoria. Una corsa in motorino, ad esempio.
Un pranzo in trattoria, e viaggi in treno pieni di speranze. Se siano immagini gradevoli o meno, non saprei dirlo.
La cosa più scomoda, comunque, resta il tuo odore sulla maglietta – che se ne andrà, presto o tardi – e sul cuore.
Per mandare via quello, ci vorrà un po’ di tempo.
Il mio migliore amico, sai, porta il tuo stesso nome.
Nonostante lo conosca da quattordici anni, prima di incontrarti non avevo mai fatto caso a quanto siano musicali la elle e la bi pronunciate insieme, di seguito.
A come sia perfetto il modo in cui quella “o“ finale racchiude tutto, per poi ricominciare da capo.
Penso che lo chiamerò per nome molto più spesso, adesso, illudendomi magari che sia tu a rispondere al posto suo.
Che fantasie sciocche, immature e totalmente sproporzionate.
Sei molto più grande dei tuoi vent’anni.
Diavolo, vorrei tanto darti ragione.
Perché, se così fosse, io non starei qui a struggermi per qualcosa che era poco più di niente.
Che ne è di tutto il mio senno? Di tutta la mia dignità? Dove sono, ora che mi servirebbero?
La verità è che sono maledettamente fragile, quando si tratta di queste cose: assomiglio a un vaso rotto, i cui frammenti sono stati maldestramente riassembrati. Basta un minimo urto per farmi ricadere in pezzi.
Oh, ma la colpa non è tua.
È stato lui a buttarmi a terra, anni fa. E sono stata io a rattopparmi male.
Ecco, ci risiamo. Sono di nuovo inciampata sul melodrammatico.
Ma posso permettermi questo lusso solo qui. Qui, dentro a parole che non leggerai mai, benché siano dedicate a te.
Qui solamente, perché nemmeno ai miei confidenti più stretti riesco a parlare di quanto bruci tutto questo – mi sentirei patetica, se lo facessi.
Affido il mio vuoto alla scrittura, che tante volte prima di adesso mi ha salvato.
Dovresti saperlo, in realtà: non sei tu quello che sta provando a scrivere un romanzo?
Cristo, quanto l’ho desiderato uno come te – io, che ho passato circa un quarto della mia vita a tentare di persuadermi che l’amore è solo un optional.
E ora che, invece, non riesco nemmeno a pensare di averti lasciato andare dopo così poco tempo, mi viene quasi da ridere. O da piangere.
Ma che vuoi che sia, passerà.
Metterò il mio cuore in lavatrice insieme alla maglietta, e il tuo ricordo svanirà.
Resterà solo questa poesia, che poi di poesia non ha nulla.
Se ti aspettavi un sonetto, mi dispiace: fuori piove ancora, e non sono in vena di discorsi idilliaci.
Adesso scusami, devo tornare in mezzo a quei codici che a te tanto piacciono; visto che, fra noi, era poco più di niente, non posso certo anteporti all’ultimo esame della sessione. Giusto?
Era poco più di niente, sì – magari riuscissi a convincermene.
   
 
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