Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Rowina    07/04/2007    7 recensioni
Versione -ormai- 3.2 del primo racconto che io abbia pubblicato qui su EFP. Lo ripubblico dopo tre mesi.
Un'alba rossa e oro che sorge ove risiede il Dolore.
I raggi del sole nascente che battono sulle fronde di un grande albero, e illuminano le Highlands.
E un uomo, solo con se stesso ed il tormento dei ricordi./
Quando perdere qualcuno significa perdere ogni cosa./ Io sono la lacrima che solca il tuo volto, gelida e ingrata come l’inverno…
Come la morte…

Storia votata dal pubblico quale vincitrice della I edizione della "Caccia alla Storia" indetta sul sito "I Criticoni".
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Un saluto a tutti, cari ed eventuali lettori.
State assistendo alla ripubblicazione della prima opera che io abbia postato su EFP, ben due anni or sono.
Come era scritto nel mio account fino a due giorni fa, era stata iscritta al Concorso Letterario Nazionale.
Non sono rientrata tra i finalisti, come naturalmente mi aspettavo, e la ripubblico, riappropriandomi del
mio diritto d'autore.
Lascerò la sentenza ultima ai lettori di questo sito: per me la cosa più importante sono ancora le vostre
opinioni.

La scorsa prefazione a questa storia portava scritto che il suo soggetto è essenzialmente uno: il Dolore.
Non rinnego questa definizione, e la riconfermo. Questa storia è, a mio avviso, l'esaltazione suprema del
Dolore umano, esemplificato appieno nei suoi due protagonisti, e nella sua manifestazione più lampante.
Altre eventuali chiavi di lettura di questa storia sono lasciate al giudizio dei miei lettori, con i miei
ringraziamenti in partenza.

Vorrei, infine, dedicare alle mie adorate Angels di Rowina la ripubblicazione di questa storia.
Spero che la nuova versione piaccia a chi ha già letto in passato questo racconto, e che possa emozionarle
allo stesso modo. Accanto, mi auguro che possa essere di gradimento anche a chi la legge per la prima volta.
Let the darkness cover me è tutta per voi.

Nota posteriore:
Questa storia è stata votata e premiata dal pubblico quale vincitrice della I Edizione della "Caccia alla Storia" indetta sul sito I Criticoni.
Vorrei ringraziare anche in questa sede chi ha letto, votato e commentato.
Un grazie speciale va a DefenderX, l'amministratore di Criticoni, per la squisita recensione a questa storia.

Buona lettura.


*****


Let the darkness cover me



E’ la terza volta che cerco di concludere questa lettera, stasera. Ma non ci riesco.
Forse avevo ragione a pensare che fosse meglio non raccontare a lei quel piccolo, stupido, insignificante fatto che stamani, in un millesimo di secondo,
il tempo di un guizzo neuronico che dalla retina dell'occhio ha trasmesso l'immagine al cervello, è riuscito a cancellare da me ogni molecola di serenità.
Pling, pling
Sento ancora le ultime gocce fluire via…
Pling
Un altro incubo… pling
...e di nuovo l’oscurità mi avvolge.



Prologo

Era ormai qualche tempo che non riusciva a riposare, di notte.
Le crisi erano ricominciate: di nuovo passava le sue giornate in una sorta di stato catatonico.
Non mangiava quasi nulla, non parlava.
Piangeva e tremava accovacciato in un angolo della casa con le ginocchia accostate al petto, lasciando che l'oscurità lo avvolgesse.
Andava avanti così per svariati giorni, in cui la Disperazione invadeva l'aria intorno a lui, e riduceva ad un cancro il suo stesso respiro.
Poi, quasi benvenuta, arrivava l’inerzia.
E la stasi della rassegnazione veicolata da una nuova presa di consapevolezza.
E finalmente, una notte come le altre tra le due e le tre del mattino, riusciva di nuovo a prendere sonno.

Tuttavia quella notte sarebbe stato diverso.
Ben sapeva già che le fasi di consapevolezza o di rassegnazione contavano meno di nulla.
Quello era il giorno in cui lei l’aveva lasciato.
Da. Solo.
Sua unica compagna, ora, e suo unico sollievo era l’alba delle Highlands dalle sue morbide colline erbose, alla cui visione il tumulto che gli scoppiava dentro ad ogni risveglio -come una battaglia campale che ha inizio al levar del sole- urlava un po’ meno forte, e faceva un po’ meno male.
Purtroppo però le notti in cui riusciva finalmente a dormire prendeva sonno fin troppo tardi per poter essere in piedi prima dell’alba.
Quello era ormai uno spettacolo di rara bellezza, per lui.
Quel giorno, tuttavia, non sarebbe andata così.
Ben aveva deciso di prendere dei sonniferi, la sera precedente. Solo per quella volta. Glieli aveva dati sua sorella alcuni mesi prima, dopo aver consultato uno psichiatra esponendogli il suo caso con tutti i 'sintomi'.
Ha perso ogni voglia di vivere.
Era ciò che aveva diagnosticato lo specialista, snocciolando con indifferenza la sua sentenza dopo aver ascoltato con vago disinteresse la descrizione del suo stato e dei suoi comportamenti.
E Alyssa aveva insistito affinché le scrivesse una ricetta per un sonnifero e un antidepressivo.
Da allora, Ben aveva due flaconi di psicofarmaci nello scaffale del bagno, che non aveva ancora mai pensato di assumere. Si sarebbe sentito colpevole di utilizzare quei mezzi per atrofizzare il dolore.
Quel giorno però era diverso.
Aveva un appuntamento con l’alba la mattina seguente, e voleva riuscire a dormire per non mancare nè tardare.
Poiché sapeva che piangere tutte le proprie lacrime e combattere contro se stessi e il proprio dolore è una battaglia senza vincitori, che semplicemente prosciuga le forze di tutti i contendenti. Quanto meno avrebbe avuto le energie date del riposo dalla sua per poter ad affrontare tutto quello.
Per riuscire a fronteggiare l’alba senza morire dentro -malgrado ognuno dei trascorsi millequattrocento cinquantanove giorni si lasciasse dietro un frammento della sua anima quale vittima sacrificale.
In un altro tempo si era considerato una persona forte. Forse lo era stato davvero: aveva avuto le spalle tanto larghe da fronteggiare da solo con sua sorella la morte prematura dei propri genitori. Era riuscito a sopravvivere a due anni di separazione da Dilène, quando lei ebbe bisogno dei suoi spazi e andò via dal Regno Unito.
Ma adesso era diverso.
Lei non c’era, e non sarebbe tornata.
Non c’era più la Speranza a sorreggerlo, né la voglia di vivere.
E non ci sarebbero stati mai più.


Era l’alba.
La luce dorata del sole nascente incorniciava le colline intorno, e rifletteva i suoi raggi sulle foglie della grande quercia a valle, producendo colori di arcana bellezza.
L’arancio e il giallo danzavano sull’eburneo del suo viso, mentre il blu sereno dei suoi occhi faceva da contralto a quella musica di colori.
Lui la fissava intensamente, dalla cima della collina.
Era così bello vederla, e lui era così felice di quel momento…
Gli era sempre piaciuto osservarla da lontano, ammirare quella sua inconsapevole bellezza senza che lei se ne accorgesse.
La vide alzare improvvisamente gli occhi, come se avesse avvertito il suo sguardo su di lei.
Gli sorrise.
Quando vide che lui avanzava a lunghi ma lenti passi nella sua direzione si alzò in piedi, rimanendo però nell’ombra della quercia. Poi Ben accelerò il passo, fino a farlo diventare una corsa. Giunse davanti a lei e subito la prese fra le braccia, sollevandola per la vita e facendola roteare in aria.
Per quei lunghi istanti osservò estasiato le luci e le ombre giocare sul suo volto adorato. La rimise giù, le accarezzò il viso con le punte delle dita e le spostò i capelli dalla fronte. Si chinò per baciarla.
Ma le loro labbra non si incontrarono.
La rassicurante luce dell’alba scomparve.
Tutto intorno divenne bianco come il latte, denso come il fumo di un incendio.
Non c’era nulla: solo Ben, immerso in quel bianco soffocante e claustrofobico.
- Dilène? - gridò, guardandosi intorno.
L’unica risposta che ricevette fu la sua voce, che gli ritornò in una eco.
E bianco. Bianco a perdita d’occhio.
-
DILÈNE! - chiamò di nuovo. Ma stavolta la sua voce uscì in un grido spaurito.
Di nuovo fu solo silenzio.
Poi il bianco si oscurò… lentamente, gradualmente.
Divenne grigio.
Grigio pietra.
Si ritrovò in una stanza quadrata, dalle mura di roccia.
Grigio scuro.
Al suo centro troneggiava un letto a due piazze candidamente bianco.
Si avvicinò al talamo, dove se ne stava
lei, voltata su un fianco. La scosse per un braccio, sussurrando il suo nome:
- Dilène?
Il corpo si capovolse mollemente, per inerzia. E due occhi lattei, come il vuoto biancore della scena precedente, e totalmente privi vita lo fissarono dalle loro orbite vuote.
Ben ruzzolò via dal letto, terrorizzato.
Mentre riprendeva l’equilibrio sulle proprie gambe, la stanza ruotò.
La scena cambiò di nuovo.
Questa volta era completamente buio, e lui era sotto la pioggia battente in una pianura falciata da un forte vento. E davanti a lui c’era di nuovo quella.
Una lapide.
Puntò gli occhi sulla sua superficie: le scritte erano illeggibili, cancellate dalla pioggia e dal vento incessanti.
Ma non importava: sapeva bene a chi apparteneva.

E poi fu il sibilo risoluto di una voce tagliente che squarciò il rumore della pioggia, chiamando il suo nome.
-
Ben!

Sgranò gli occhi di scatto e li fissò nel vuoto, ansimando.
Era appoggiato su un fianco, nella stessa posizione in cui stava quando si era addormentato. Era rimasto perfettamente immobile per tutto quel tempo. Questo gli diede la misura di quanto profondamente avesse dormito.
In quell’istante, mentre cercava di far rallentare il ritmo del respiro e di regolarizzare i battiti del cuore, si rese conto di cosa fosse accaduto.
- Un altro incubo… - sussurrò tra sé, espirando vigorosamente.
Le scene così vivide delle quali era stato parte fino a pochi secondi prima non erano altro che un sogno.
Era successo di nuovo, nonostante avesse preso una consistente dose di sonniferi e di ansiolitici, la sera precedente. D’altra parte si sarebbe senz'altro stupito se proprio quella notte non fossero tornate a fargli visita le immagini sconcertanti che erano da tempo il popolo del suo sonno.
Gettò lo sguardo verso la finestra e vide che fuori era ancora buio. Quindi adocchiò la radiosveglia, sul comodino alla sua destra: segnava le 05,40 ante meridiane.
Il sole sarebbe sorto solo un’ora dopo.
Si volse nella stessa posizione di poco prima, ponderando di non alzarsi subito.
Di rimanere ancora a letto, a sfiorare pensieri fuggevoli come fiocchi di neve al vento, impalpabili come nebbia.
Implacabili come il mare in tempesta.


Dilène

Questi tuoi risvegli mi fanno sempre male.
Non perché io riveda i tuoi occhi, dopo un anno. D'accordo, sì: forse anche per questo.
Ma fondamentalmente è perché dal tuo sguardo esangue e inquieto e dal tuo respiro affannoso capisco cosa si nasconde dietro la soglia del sonno.
Perciò… non alzarti, Ben.
Tutto quello che è accaduto ti sta consumando, lento e inesorabile. Lo vedo bene, anno dopo anno. Resta sdraiato adesso, qui accanto a me.
Resta.
Fino a quando i giorni della tua vita non saranno consumati dal trascinarsi degli eventi, e tu potrai raggiungermi e stare con me per l’eternità.
È una supplica muta, la mia. Anche se le dessi voce non mi sentiresti. Come non puoi vedermi: benché i tuoi occhi ora stiano guardando proprio nella mia direzione, il tuo sguardo mi trapassa.
Letteralmente.
So già come si svolgerà la giornata di oggi, in che modo la trascorrerai. È il quarto anno che mi trovo materializzata qui, il 27 novembre. Il giorno in cui a me è stata sottratta la Vita, e a te è stato tolto il mio amore.
Ed è a questo pensiero che dentro di me cresce un sentimento di muta angoscia e di rabbia cieca.
Una volta di più mi domando vanamente perché tu sia obbligato a vivere in questo stato di solitudine totale, mentre anche se solo per un giorno l’anno una Volontà che non conosco e cui non sono grata concede a me di viverti accanto, e di rivedere i tuoi occhi adorati.
Anche questa domanda, lo so bene, rimarrà senza risposta.
Come per il momento senza spiegazione resta il fatto che io mi ritrovi qui, tra le Highlands e i colori della mia vita, con il permesso di rivivere per ventiquattrore almeno lo spettro di momenti felici al fianco di colui che ho amato per tutto il tempo concessomi.
E che so con certezza continuerò ad amare anche per tutto il tempo della mia morte.

Non so dire se per me questo giorno sia una benedizione piuttosto che una dannazione.
Ti ho visto soffrire così tanto, Ben.
Adesso lo so: nessun dolore è pari a quello che si prova per un altro, verso un altro, con un altro.
Soprattutto quando quest’altro rappresenta parte vitale di te stessa.
Vitale. Già
È quasi disperatamente buffo utilizzare questa parola: io sono morta.
Non può esserci nulla di vitale in me, o di vivo.
E tu, di parte tua, desideri raggiungermi e vivi in un limbo senza pace. E si può dire, quindi, che tu non sia che un vivo a metà.

Perché un alito alla mia mente di fantasma mi dice che non appartiene a te, quella metà viva?

Ti ho sentito piangere, lo scorso anno, gridare che di questa vita non te ne importa più niente, che comunque non ha il minimo senso, che vorresti mandare tutto a puttane e lasciarti andare ad un confortante oblio, che ti dia riposo, che ti dia requie...
Vorresti poter ritirare dal tuo corpo il coltello che quattro anni fa ti si è conficcato nell'anima, condannandoti a soffrire fino alla fine e privandoti del sollievo di una morte subitanea.
Perché allora non ritirarlo, quel pugnale?
Forse non conosci neppure tu la ragione, amore mio. Ed è per questo che ti tormenti, che ti senti un fallito, un codardo, un inetto -anche questo l’ho sentito dalla tue labbra, tra un singulto e l’altro.
Ma la realtà è che io non l’ho voluta, Ben, la mia morte.
Nessuno l’ha voluta. Tranne evidentemente il Destino.
E quindi neppure tu dovresti desiderare la tua.


Ben

Riapro gli occhi.
Perché mi è sembrato di vedere la sagoma di lei, qui davanti a me, stesa su un fianco che mi fissava?
Immagine velata che si è dissolta non appena le pupille hanno messo a fuoco.
Eppure nei miei occhi è rimasto il blu cocente di due iridi…
Aaahh! Che sciocchezza!
So troppo bene che si tratta solo dell’ennesimo scherzo di un’attività onirica ancora sospesa tra questo mondo e l’altro.

Dio…perché deve fare così male?

In questi anni mi sono reso conto che non esiste realtà più chiara e distinta della differenza tra la vita e la morte, e forse l’atrocità della cosa sta proprio in questo.
Il dolore per la perdita è un tipo di dolore strano: non è galoppante, né martellante; non fa rumore.
Striscia di soppiatto dentro di te e ogni tanto ti ricorda che è lì conficcato, che non se ne andrà mai. È una costante di fondo.

Oggi verranno qui Derek e Alyssa con i bambini. Ogni anno, in questa data, ci ritroviamo sulle Highlands e andiamo a visitare il luogo dove risiede il corpo del mio tesoro, sotto una grande quercia. Quindi pranziamo insieme: un Pic Nic alle pendici della collina, non lontano dalla tomba di Dilène.
I bambini si divertono all’aria aperta, e io vagheggio della vita che poteva essere e non è stata.
Ma sono sereno, durante quelle poche ore.
Ci sei tu, che aleggi nelle nostre conversazioni leggera come solo un bel ricordo senza rimorsi può essere.
In genere però loro vanno via presto: io il suo fidanzato, Derek suo fratello, Alyssa la sua migliore amica. Nessuno di noi tre esce indenne dal confronto tra il passato e la realtà attuale, dalla consapevolezza raggelante che non siamo più noi quattro.
Ad un certo momento di questo giorno, ognuno di noi ha bisogno di un suo personalissimo spazio -da soli, a casa, chiusi in una stanza o in un semplice silenzio ottuso. Per elaborare la sofferenza, razionalizzare il dolore, riorganizzare i ricordi.
E ricominciare a vivere, ripartire da zero ogni volta.
Ripartire da qui.

Bene. Credo sia il momento di alzarmi da questo letto.
Questo potrebbe essere anche il mio letto di morte, un giorno.
Questo pensiero si affaccia spontaneo alla mia mente, e non so perché, ma lo trovo vagamente confortante.
Sarà l’alba tra mezz’ora. E io devo esserci: lei aspetta me.
Mi alzo dal talamo, tanto bianco quanto nera è la mia anima, e mi dirigo in bagno, strofinandomi gli occhi e buttando indietro i capelli.
Mi preparerò: mi vestirò di maglione e pantalone neri, sbrinerò il mio cuore e non m’impedirò di provare emozioni.
Per sapere che posso ancora sanguinare, per essere certo che c’è ancora vita in me, anche se mi chiede costantemente di esaurirsi, di perdersi nel nulla, di eclissarsi.
Entro in bagno.
Mi spaventa quello che vedo allo specchio. E penso che sia una fortuna che non esistano specchi che mostrano anche quello che c’è dentro: avrei paura di trovarmici vis à vis.
Ho il volto bianco come un cencio, e due occhi spiritati mi fissano dalle loro pupille nere al centro e lattiginose intorno; i miei capelli sono arruffati, e sembrano sporchi.
Mi ci vuole una doccia: l’acqua calda e la schiuma fanno miracoli, mi dico.
Ma allora perché mentre sono sotto la doccia, sento il calore di una lacrima solitaria percorrermi una guancia, prima di confondersi con il getto e lasciarsi trascinare via?


Dilène

Dio! quanto sei bello, amore mio!
Anche ridotto così, magro e scavato dal dolore, la tua bellezza rifulge, più luminosa del sole che sta per sorgere.
Sei in piedi, in cima alla collina, che ti ergi in tutto il tuo metro e novanta. E io ti sono accanto, seduta sull'erba con le ginocchia accostate al petto, che me le stringo tra le braccia e nel frattempo ti osservo come non facevo da tanto tempo.
Da un anno.
Troppo per chi come me viveva della tua immagine. Per chi come me trascorreva notti insonni solo per osservarti dormire, esaminando i più impercettibili mutamenti di espressione sul tuo volto, e cercando una ragione alle più svariate sfaccettature di esse. Il tuo respiro lento e regolare -che darei tutto, tesoro, pur di sentire di nuovo così sereno- mi cullava in una dimensione indefinita tra il sonno e la veglia dove mi sembrava che tutto fosse perfetto.
Dove la mia essenza era completa perché c’eri tu, lì accanto.

Sei vestito di nero. Ovvio.
Ti sta bene, sai? Non scherzo.
Sei elegante in nero.
Hai un maglione casual a coste, attillato, con una lampo obliqua che dal collo finisce a metà della spalla. E un pesante jeans scuro, nelle cui tasche tieni infilate le tue grandi mani. La cosa che più adoravo, di te.
Cosa poteva accadermi, quando ero tra quelle mani? Nulla.
Lo penso ancora adesso.
Tu invece diresti che a niente è servita la tua forza, a niente i tuoi modi protettivi e rassicuranti, a niente tutto l’amore che provavi per me. Che la tua stessa vita valeva meno di zero: so che diresti tutto questo.
Perché alla fine mi hai persa, e tu non hai avuto il potere di impedirlo.
Malgrado questo io continuo ad adorare qualunque cosa di te: ogni parte del tuo corpo, ogni lato del tuo complesso carattere. Ho imparato ad amare anche quella tua espressione grave e triste, le tue lacrime silenziose, le tue urla disperate.
I vetri rotti, le foto bruciate, i fogli stracciati.
Gli occhi velati, dopo una notte di lacrime e di incubi.
E i capelli che hai lasciato di nuovo crescere: quella frangia che quasi ti copre gli occhi ormai, e quelle ciocche ribelli che per forza di cose ti si arricciano intorno al volto.
Adesso il vento ti spazza il viso, buttandoti indietro i capelli, e il primo tenue chiarore del mattino, oracolo di un sole che sta per sorgere, ti illumina il volto.
E in questo momento io soffro, Ben, perché vorrei poterti toccare, accarezzare ogni centimetro di quel volto bianco e rosa, e attorcigliarmi i fili di seta nera che hai per capelli intorno alle dita. Posare un tenero bacio sulle tue labbra, rosse di un dolore che solo loro e l’Inferno conoscono in tutti i suoi particolari.
Baciarti mentre sorge il sole, come la prima volta.
Te ne rammenti?
Rievoco questo ricordo, e mi accorgo che adesso sto piangendo. Mi stupisco, e realizzo quanto sia assurdo. Come può uno spirito piangere lacrime vere?

Tu avevi diciannove anni, allora, e io diciassette.
Mi trovavo sotto la grande quercia, immersa nella sua ombra rassicurante leggevo Cime tempestose, e aspettavo che, come accadeva da un po’ di giorni, tu mi raggiungessi.
Era presto.
Ti avvicinasti a me che i primi raggi dorati già facevano capolino attraverso la coperta di foglie che stendeva la sua ombra su di me.
Quando mi vedesti, dalla cima della collina, spiccasti una corsa nella mia direzione, e quando fosti vicino mi sollevasti tra le tue braccia, facendomi roteare.
Quando mi rimettesti giù fui turbata dal tuo sguardo e da quello che vi lessi. E so per certo che per te fu esattamente la stessa cosa: che il mio sguardo doveva essere assolutamente identico al tuo, perché altrimenti non avremmo mai fatto quello che facemmo poco dopo.
Unimmo lentamente le nostre labbra nel nostro primo, indimenticabile bacio, illuminati da raggi giallo, rosso e oro e da una felicità totale e cristallina.

Sto pensando a tutto questo quando un raggio di sole mi colpisce in pieno volto, e mi rendo conto che la sfera infuocata sta sorgendo all’orizzonte.
Allora alzo lo sguardo su di te.
E non posso impedirmi di credere che probabilmente stavi pensando la stessa cosa cui pensavo io, perché improvvisamente vedo sgorgare due lacrime dai tuoi meravigliosi occhi.
Perché, quando la vedo fare capolino inaspettata sulla tua guancia, ho l’impressione di esserci io cristallizzata in quella lacrima, insieme a un po’ del tuo dolore?
Un istante dopo che me lo sono chiesto, repentinamente e con violenza, mi colpisce la terribile consapevolezza che adesso, per te, non sono nient’altro che questo.

Io sono la lacrima che solca il tuo volto, gelida e ingrata come l’inverno…
Come la morte.


Ben

Muovo i primi passi nella direzione della grande quercia.
Nella tua direzione, Dilène.
Il sole è sorto e l’albero, che io vedo in lontananza dalla cima della collina su cui sono stato fino ad ora, è immerso in un cono di luce. In pochi istanti ci sono anch’io, circondato dai raggi di sole, davanti alla tua tomba. L’erba ci è cresciuta, ormai, e ti fa da soffice coperta.
Ho una cosa per te nella tasca dei calzoni, ma sto ancora ponderando se lasciartela oppure no. Ho come la convinzione che si tratti di un atto che mi porterà solo a sbattere di nuovo la testa contro un muro di cemento, violentemente.
A farmi del male nella maniera più ottusa.
Tuttavia non so se riuscirò ad impedirmi di farlo.
Quando stai precipitando in un baratro di cui non vedi il fondo, anche al più gracile degli arbusti costituisce un appiglio.

Sono davanti alla sua lapide, ed è in questo momento che mi rendo conto che gli anni trascorsi dacché mi ha lasciato non sono serviti a guarirmi dal male più spietato e sottile: l’amore.
La amo ancora, come allora.
Amo un’ombra, un fantasma, uno spettro.
Amo l’irreale, l’irraggiungibile, l’impossibile.
Amo l’immateriale, l’etereo, il fuggevole.
Amo qualcosa che non esiste più, qualcosa che è finito quattro anni fa e di cui mi rimane solo questo: una grigia lapide davanti la quale cadere in ginocchio e piangere, sopraffatto dal dolore -come anche adesso- e un mondo di ricordi morti -come i fiori appoggiati per terra davanti a me.


Dilène

Sono di nuovo davanti a te, Ben. Anche io china sulla ginocchia che cerco il tuo sguardo. Tieni la testa bassa, e continui a piangere.
È un singhiozzare disperato, che ti scuote il corpo e ti dilania l’anima, quello cui assisto e cui non posso sovvenire.
I capelli ti cadono davanti agli occhi, nascondono alla mia visuale il tuo volto bagnato di sale -ti direi di tagliarli, almeno un poco, se potessi. Ma a che diavolo servirebbe? Ti direi ben altro, se potessi parlarti.
Sento una morsa afferrarmi lo stomaco e il petto, mozzare il mio respiro di fantasma, e mi rendo conto che vorrei poterti accarezzare, scostare i capelli dalla tua fronte, guardarti e cercare il sollievo nei tuoi occhi nel momento in cui il mio sguardo incrocia il tuo.
Audace, ti sfioro la frangia con un dito -in teoria posso tutto, quando sono qui una volta l’anno: tutto tranne che farmi udire e vedere da te. Ma posso toccarti, lo so bene.
Ma a che prezzo?
Provocarti l’ennesima psicosi non è esattamente quello per cui sono qui.
Poi le mie dita ti toccano una ciocca di capelli.
Neanche la seta è mai stata così morbida, sotto la mia pelle. Provo l'impulso quasi irrefrenabile di affondare la mano tra la tua capigliatura, ma riesco con sforzo a reprimerlo: questo davvero non posso concedermelo.
Ti amo, Dilène. Torna da me, ti prego, torna da me! Aaahh…!
Ti sento gemere tra i singhiozzi, e mi sento morire di nuovo. Forse fa persino più male.
Non so come fermare il flusso del dolore che ci sta annegando entrambi.
Non posso farlo, non ne ho il potere.
Eppure, darei tutto per averlo.
Darei il nulla che mi è rimasto.

Dopo un tempo che pare attraversare l’eternità ti alzi, asciugandoti gli occhi.
Non hai esaurito il dolore: solo le lacrime.
Sei stanco, fisicamente provato, lo vedo bene.
Ti ho visto quello stesso sguardo negli occhi solo stamani, appena sveglio: hai spalancato le palpebre spaurito, in un muto richiamo di aiuto. Un istante dopo quell’espressione è scomparsa, quando ti sei reso conto che si trattava solo di un sogno e che tu eri lì, nel mondo reale.
Mi domando quale dei due, per te, sia migliore. In quale la tua anima sia meno tormentata.
Io sono rimasta per terra in ginocchio, e ti guardo da questa posizione. Le mie lacrime di fantasma stanno bagnando il mio letto di morte, ma non credo tu te ne accorga, come non hai percepito il mio tocco quando ho sfiorato i tuoi capelli: non è concepibile per te che io ora sia qui.
Inaspettatamente ti allontani, dirigendoti in discesa verso la baita.
Non ti seguo: non ne ho le forze.
E mi sembra strano, perché questo mio stato di spirito assomiglia troppo a quello di un essere umano, per le sue prerogative. Mi manca l'unica cosa che davvero mi separa da te: la materialità.
Pochi minuti dopo ti vedo tornare con un fascio di fiori freschi di campo tra le mani: immagino tu sia andato a coglierli giù in pianura, ieri. Quando giungi di nuovo qui ti osservo posarlo davanti alla lapide, e dentro lo spirito provo un moto di gratitudine, non so se per il tuo gesto in sé o perché mi è concesso di osservare ogni tuo movimento da una posizione che, se ci si pensa, risulta privilegiata.
Soprattutto se si considera in quale sei tu, di posizione.
Tiri su col naso, e sei così tenero che sembri un bambino.
E io non desidererei altro che stringerti proprio come si fa con un bimbo che ha bisogno del conforto della propriamadre.
Poi ti vedo infilare una mano in tasca, ed estrarvi qualcosa che non subito identifico. Posi anche quello davanti alla lapide, e solo allora capisco che si tratta di un foglio piegato in quattro.
Dilato le palpebre, mentre realizzo.
Una lettera.
Un alito di vento smuove leggermente il foglio, e tu sgrani gli occhi per un attimo come colto di sorpresa dalla consapevolezza che, con una raffica più forte, la preziosa missiva potrebbe volare via e non giungere mai a destinazione. Ti chini e la sistemi sotto al mazzo di fiori, bloccandola e sottraendola così all’inclemenza del vento.
Probabilmente hai dovuto fare forza sul tuo carattere per combattere l’assurdità della cosa e decidere di portare qui questa lettera. Ma sei fortunato: io sono qui e posso leggerla.
Già. Fortunato.
Poi alzi lo sguardo, abbracciando con esso quest’angolo di Inferno: l’albero, teatro della nascita del nostro amore, il sole del primo mattino con la sua luce cristallina, e la tomba sotto la quale se ne sta il corpo che fu il mio.
Ed è in questo momento che desidero più ardentemente che tu possa vedermi: così potrei dirti che anche io ti amo come prima, come sempre, e che sono qui a vegliare su di te, anche solo per un giorno.
È un desiderio, il mio, che rimarrà inappagato. Lo so bene, eppure continuo a soffrire per questo.
E nonostante io sia immateriale e impalpabile come il vento, non c’è nessuna forza che mi sospinge e che mi aiuta a seguirti quando ti vedo allontanarti da me, a capo chino e con le mani di nuovo infilate nelle tasche dei calzoni.
La sola cosa che ho l'energia di fare è leggere la lettera che hai scritto per me.
Anche se ho paura -sono terrorizzata all’idea di scoprire cosa può nascondere questo foglio. Anche se un dolore ancora più grande di quello cui ho assistito oggi rischia di piombarmi addosso, leggendola.
Ma lo farò ugualmente.
Devo.

***

Dilène, tesoro mio,
Come stai?

Domanda stupida, lo so.
Ma so anche che stai di certo meglio di me -una magra consolazione, questa, per me. Ma pur sempre una consolazione.
Soffro a dirtelo, e prego il tuo perdono, e tuttavia per il mio animo è una sorta di liberazione confessarti quanto io stia male.
Mettere il dolore nero su bianco, inchiostro denso e oscuro che macchia, parola dopo parola, il candore di questo foglio, come il dolore soffoca e imbratta il mio cuore, istante dopo istante.
E’ dalle Highlands che ti scrivo, dallo stesso posto nel quale abbiamo vissuto insieme io e te, da ragazzi. Sono tornato qui perché questi luoghi mi ricordano te, e la te di allora che da ragazzo mi legò a sé di nascosto e silenziosamente, senza che io potessi accorgermene.
Per il fatto che io abbia deciso di vivere qui tutto il resto dei miei strazianti giorni la gente potrebbe dire non sono che un efferato masochista -tuo fratello Derek stesso disse questo di me, anni fa.
Ma la gente ha torto.
Non sto cercando di dimenticarti, Dilène, non mi è possibile: dovrei estirparti dalle profondità di me stesso, e non posso. Verrebbe meno anche una parte di me, capisci?
Eri tutto ciò per cui ho vissuto, e adesso solo sapere che c’è una persona che non vuole che io mi lasci andare mi tiene in vita.
Questa ragione si chiama Alyssa: mia sorella maggiore, la tua migliore amica. E' quasi assurdo, se ci penso ancora adesso, che lei e Derek, il tuo amato fratello, siano sposati. Hanno fatto il passo che io e te non abbiamo avuto il tempo di fare.
A volte me la prendo con me stesso per avertelo chiesto così
tardi. Ma poi mi dico che, se possibile, le mie notti insonni sarebbero ancora più strazianti se trascorse a rigirarmi la fede al dito.
C’è già troppo di te, in questa baita. C’è già troppo di te su di me.
Troppo perché il tormento si esaurisca anche con l’esaurirsi della mia vita. Troppo perché io riesca un giorno a non sentire più il tuo odore. Neanche perdendo l’uso dei sensi mi sarebbe possibile.
Non si può ignorare quello che viene da dentro.

Sono passati quattro anni da quando te ne sei andata.
Quattro anni
oggi.
E nonostante la mia assenza il mondo sembra andare avanti -il mondo non si è mai fermato per il dolore altrui, non è vero Dilène?
Alyssa e Derek hanno due bambini, due piccole anime splendenti.
Il maggiore si chiama Andrew, ha tre anni e mezzo, ed è davvero un bambino bellissimo: ha i capelli chiari del suo papà e gli occhi cerulei di sua madre.
Lo scherzo più grande, o il monito più inquietante -ancora non so decidermi- è la più piccola:
Hope.
Così si chiama quel batuffolo dai capelli neri, sul cui viso bianco e candido come una nuvola spiccano due occhi blu che dovevano essere un gene latente in Derek, perché appartengono alla tua famiglia.
Appartengono a
te.
Perché quel nome -
Speranza- e quegli occhi -i tuoi- mi sono sembrati, fin da quando due anni fa hanno visto la luce di questo mondo, un messaggio rivolto a me?
Sai, amore mio: soltanto quando sono in loro compagnia, di Derek Alyssa e dei bambini, il dolore straziante che pervade tutto me stesso ogni singolo istante si allevia, e preme un po’ meno contro il mio cuore e il mio cervello.
È la mia famiglia, Dilène, e la tua, e tra noi tutti tu rivivi.

Tuttavia sono poche le ore che trascorro con loro.
Troppo poche per riuscire a trovare una pace duratura.
Quattro anni fa mi hai lasciato, solo con il mondo e con i ricordi. Quelli belli, certo: ma anche con quelli brutti.
Oh Dilène, io ti amavo
così tanto! Non puoi immaginare come mi sento, ancora e ancora in balia del tormento dei ricordi dopo anni.
La rammenti quella notte, Dilène?
Io sì, come la scena dello stesso, terribile film dell’orrore che qualcuno ti obbliga a vedere e rivedere, e quello che è peggio è che l’abitudine non uccide il dolore o la disperazione.
Da quella notte manca una parte di me, una parte integrante senza la quale non si può vivere, e quando si è costretti a farlo si vive male.

Ti amo, Dilène… fino alla disperazione e oltre.
Ti amo come tu amavi me: più della tua stessa vita.
Quando c’eri avrei dato tanto per riuscire a darti l'importanza che tu sembravi dare a me. Perché riesco farlo ora che non ci sei più?
Ti amo, Dilène: mia vita, mia anima, mio cuore, mia forza.
Giuro solennemente che dedicherò a te quanto rimane della mia esistenza.
In eterno tuo, con amore e devozione.

Ben.

***


Ben
Ho posato la lettera davanti la lapide di Dilène, sotto al fascio di fiori freschi che le ho portato.
Lei adorava i fiori, quindi immagino che sia tanto più significativo che io gliene porti sempre, adesso.
So che è una vacua illusione, e soprattutto una ben magra consolazione l’aver buttato giù i miei sentimenti su un foglio e averlo consegnato al vento e alla pioggia delle Highlands, immaginando che la mia missiva possa attraversare le barriere dimensionali ed essere letta da lei. Ma è stato un impulso che non ho potuto impedirmi di seguire.
Che di fatto non ho voluto impedirmi di seguire.
Arretro di qualche passo: in questa posizione ho la visuale completa della tomba, avvolta nell’ombra dell’albero e delle sue fronde che proiettano spettrali arabeschi sulla pietra, il terriccio, e sul mio volto.
Continuo a piangere.
Non più sonoramente, a singhiozzi o gemendo.
Il mio pianto ora è silenzioso e quieto, lievemente cadenzato, come il cadere di una pioggia fiacca e costante, impercettibile a chi è tra le mura di una casa.
È il pianto di chi non ha nulla da dire, perché il suo desiderio inespresso é l'unico che nulla e nessuno potrebbe realizzare.
È il pianto del soldato che ha perso la battaglia.
E le lacrime sono gocce d’acqua del muro di ghiaccio che si erge a protezione di se stessi, quando si ha qualcosa -qualcuno da perdere.
Quando non è rimasto più nulla da mettere in gioco, è come se un dardo incandescente vi si conficcasse in profondità, fin nelle fondamenta, e dall’interno continuasse ad ardere beffardo, sciogliendone di tanto in tanto un frammento.
Corrodendoti l’anima.
Subdolo e invisibile come la voce del silenzio, ti scava dentro allo stesso modo.
Silenziosa, una lacrima scivola dal mio viso e si posa sul terriccio.
Immagino che arrivi da te e che riesca a raggiungerti -almeno lei- lì dove ti trovi.

Non so cosa farò, domani: non riesco a pensarci in maniera razionale.
So tuttavia che cercherò di vivere il meglio possibile oggi e i giorni a venire. Non perché mi senta bene, né prometto di provare a stare meglio in futuro, né tanto meno perché ne abbia voglia o bisogno.
Ma perché in qualche modo, Dilène, te lo devo.
Ti devo un po’ di serenità da parte mia: non posso, ogni giorno della mia vita, stare male e struggermi e piangermi addosso senza però fare nulla.
Se prendessi una decisione radicale sentirei di avere potere sulle mie reazioni quanto ho diritti sui miei sentimenti.
Ma fintanto che sono lo stesso spregevole vigliacco di sempre, non posso pretendere che il pensiero di te asciughi le mie lacrime ancora e ancora.
Non so come vivrò, e non me lo chiedo.
So solo che qui e adesso, all’orizzonte, c’è qualcosa per me: la mia piccola Speranza, che mi corre incontro e mi chiama da lontano…

- Zio! Zio Ben!


Fine.

*****


Agli eventuali, benvenutissimi lettori, si ricorda che qualunque delle tre famigerate "C" -commenti, critiche, complimenti- è più che ben accetta.

Sentitamente Grazie per aver letto.

Nota del 05/12/2007: Storia nuovamente editata. Quella che avete davanti è la versione 3.2.
Grazie per la gentile attenzione.

Rowina.

  
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Rowina