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Autore: Dernier Orage    23/09/2012    3 recensioni
Pensava al tanto che diveniva troppo, pensava all’abbandono che non era rimanere soli ma lasciarsi andare. Pensava a tutte le volte che aveva riletto Céline per il bisogno di percepire la morte e perdersi nei tre punti di sospensione; a quando the passion of lovers is for death o almeno così suonavano i Bauhaus e loro erano magri come punks e desideravano soltanto andarsene perché Brest era grigia e piccola.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime, Nonsense | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Hellébore noir





Le creste iliache di Ismaël erano sempre state visibili sotto la cute, scomode ai lati del ventre, quasi a lambire la pelle morbida e la linea dritta dei fianchi. Stéphane ne percepiva una a schiacciargli l’addome, quella sinistra. Era mezzo accovacciato, mezzo disteso su Ismaël; la notte era inoltrata e il calore si stava dissipando, trattenendosi ancora per poco tra le lenzuola e le coperte. L’aria era statica e fredda, umida da attaccarsi alle ossa e rendere i movimenti pesanti. Avevano lasciato una luce accesa, appena soffusa, ambrata, rendeva l’atmosfera carezzevole e le ombre blande, appena accennate nel rilievo dei nervi di un avambraccio, delle fossette delle ginocchia, nell’affascinante disegno delle ciglia, si rifletteva nel grande specchio, perdeva intensità attraverso le tende.
Stéphane era contento di essere riuscito a mantenere la solennità che Ismaël spesso tentava di spezzare con frasi inopportune. Non che gli dispiacessero, di solito, le sue ironie e battute ed il suo far conversazione, gli permettevano di non scoppiare a piangere come, a volte, pensava di fare, sopraffatto da quel tutto di vissuto, di visione, divisione.
Gli aveva tenuto ferme le ginocchia con le dita nelle cavità epidermiche dei legamenti, ad ogni affondo si scontravano e temeva che la pelle tesa e sottile potesse lacerarsi nella frizione con le ossa appuntite. Si era sfilato da lui e aveva pensato che fosse la via del ritorno alla vita umana, un abbandono a quel mondo ultraterreno che riusciva, giorno dopo giorno, ad assaporare alla vista di Ismaël, ad udire alle sue parole, a toccare con qualche carezza.
Stéphane era perfettamente sobrio e lucido. Il sonno gravava appena sulle membra, non nella continuità del pensiero. Posare il capo su una spalla di Ismaël equivaleva a lasciarsi cullare dalle onde leggere, il ritmo del respiro, quello dei battiti cardiaci, quello delle mani che accarezzavano la schiena, giocavano con le prominenze delle vertebre e le superfici scoscese delle scapole. Assordante come il fragore di un’eclissi; il movimento veloce per avvolgersi nelle coperte. Blu scuro, di lana ruvida, i copricuscini erano neri e avevano dei pois bianchi, le lenzuola si erano avviluppate alle gambe e scoprivano il raso del materasso azzurrino, la confusione cromatica risaliva a balzi e riempiva le pareti. L’immaginazione era uno stato febbrile permanente.
Stéphane aveva cercato la terminologia adatta su dei libri di storia dell’arte, se li aveva conosciuti in passato, gli anni li avevano fatti dimenticare o nascosti sotto altre informazioni. Riusciva a denominare come “tempio periptero” l’immagine che piano si formava nella sua mente. Il colonnato immenso ed infinito sembrava propagarsi sugli specchi, mostrava dei fasci di luce provenienti dall’esterno, creava svariate navate riflesse nelle ombre.
«Che tipo di colonne?» aveva chiesto Ismaël in un sussurro, come per non svegliare la notte che sonnecchiava nelle stanze. Si era sporto per spegnere la luce, un baluginio rapido e sfocato negli occhi e poi il buio morbido, bluastro.
«Delle colonne di ordine corinzio» Stéphane aveva preso un respiro profondo e aveva continuato a descrivere.
Sentiva le braccia nude e dei brividi, vedeva la propria pelle come attraverso una lente nitidissima, i nervi evidenziati appena piegava i polsi, i palmi grandi e le fossette sul dorso. Strinse una mano a pugno per vedere le intersezioni delle nocche risaltare ossute.
Seguì le gemme incastonate e le conchiglie raccolte alle basi delle colonne, creavano degli arabeschi quasi musivi che proseguivano di colonna in colonna, nel soffitto finemente decorato, in vortici di pietre lucenti come il vetro. Stéphane scendeva con lo sguardo e notava le sue gambe avvolte in dei pantaloni chiari, risvoltati per non bagnarsi con l’acqua cristallina. Era fresca quel tanto da provocare un fremito, una leggera corrente che accarezzava e solleticava appena le caviglie. Il fondale di marmo svelava ampie porzioni coperte da sabbia rada, finissima e bianca, ondulata dal movimento.
L’aria sembrava intrisa di particelle di luce; l’atmosfera era metallica e fulgida, d’una vividezza violenta. L’insieme era suggestivo e denotava l’assenza. Lo spaesamento s’era fatto consistente e dirompente, era la mancanza di un fine oltre il vagare tra le navate, cercare una via d’uscita. Le onde si infrangevano contro il primo ordine di colonne, in lontananza il mare - oh, poteva essere anche un oceano o un cielo, appariva di mercurio e rifletteva i gabbiani che planavano dolcemente. Stéphane riusciva a vederlo, argenteo, quasi oleoso. Pensò che avrebbe dovuto essere tossico, chissà se gli avrebbe fatto male anche tra i corridoi del perìbolo. Accarezzò con lo sguardo per qualche secondo ancora le gocce che colavano rapidamente lungo il marmo, senza lasciare altra traccia che qualche segno d’argento sullo stilobate.
Gravava la stanchezza, Stéphane socchiuse gli occhi, Ismaël era ancora sotto di lui, col capo chinato sui suoi capelli.
«Stai tranquillo, cosa succede?» borbottò Ismaël quando lo sentì agitarsi e fremere. Lo strinse per calmarlo, per riportarlo al sogno. Stéphane era lucido e rivide le imperfezioni ed i leggeri solchi a raggiera che amava.
«Ti stavo cercando» Stéphane sentì la propria voce come innaturale, filtrata dallo sfinimento. Percepiva la bocca asciutta e si accorse di aver parlato in continuazione, di aver descritto ogni scena, ogni sensazione.
Ismaël era tra le sue braccia e lui lo stava cercando in qualche frammento, tra le pieghe delle coperte e il marmo leggermente intonacato. Il bianco ottico gessoso assorbiva la luce, ogni ordine di colonne perdeva di chiarore ed introduceva nella penombra, in un crepuscolo artificiale.
Il prònao era appena illuminato dalle luci delle torce e degli incensieri provenienti dalla cella. Il colore sanguigno del fuoco si spargeva col suo fremere, il suo ardere, l'ondeggiare secondo le correnti di vento. Ismaël era lì, tra l’ossigeno che lentamente bruciava e il naòs pulsante come organo, come cosa viva. Si avvicinava, mostrava le mani vuote, gli occhi scuriti dal color porpora del cuore del tempio, lo raggiungeva. Ismaël era il guardiano del temenos, sacerdote di qualche rito della conoscenza. La sua persona, la libreria nella vita reale, quell’amore sconfinato che provava; tutto concorreva per renderlo tale agli occhi di Stéphane. Custodiva la cultura, la faceva circolare, la sospendeva, la vendeva, la svendeva, la donava, la celava.
Come carta le sue ossa laceravano la pelle e Stéphane si perdeva, si smarriva per raggiungerlo. Non poteva entrare sennò non sarebbe più uscito, avrebbe dimenticato la realtà, le sue figlie, il suo lavoro, la sua vita. Era costretto a rimanere nel prònao, tra la lucida inferriata su cui le fiammelle danzavano, delle colonne di qualche ordine ormai dimenticato, un limbo caldo e quasi soffocante. Un limbo in cui poteva appena assaporare sul suo corpo il sapere, le scritture, i pensieri. Il custode, sacerdote di qualche rito mistico, stregone Ismaël cercava di metterlo a proprio agio nonostante i suoi eterni silenzi. Lo tratteneva contro una colonna e lo baciava, slegava il nodo dei suoi pantaloni ed aveva mani calde e ruvide. Si trattenevano per poco in amplessi silenziosi, poi passavano ore a parlare e soffiare sull’incenso; altre volte si guardavano a stento negli occhi, pensando più che altro alle asperità dei gomiti o la sporgenza dello sterno.
Stéphane voleva mostrargli il cielo riflesso nel mare di mercurio, lo aveva trattenuto per i fianchi, convinto con dei baci leggeri sulle palpebre e sulle sopracciglia che spesso aveva lisciato per contrastare il loro moto tendente al riccio. Avevano superato i corridoi, Stéphane era stato tentato di sollevarlo – un braccio sotto le ginocchia e l’altro sotto la schiena, affinché non si bagnasse, ma Ismaël aveva sorriso e sospinto l’acqua verso di lui, provocato dei vortici – “Ismaël maelström” di un soprannome antico.
Erano giunti al limitare del porticato e il cielo era blu, pervaso ed innervato da mille lampi. I fulmini balenavano convulsi, vibravano sotto le nuvole, si diramavano in ogni direzione, alcuni duravano il tempo di un respiro, altri quello di una carezza. I tuoni facevano tintinnare le catene degli incensieri. I tuoni erano brontolii fragorosi nel cielo elettrico.
I tuoni echeggiavano controllati, calibrati in un ritmo continuo nel petto. Il pulsare del cuore si propagava attraverso le costole, spargeva per il corpo. Stéphane percepì chiaramente di accostarsi ad occhi chiusi ad Ismaël, i movimenti lenti e scoordinati, avvolti ed appesantiti da coperte e sonno. Ismaël si stava prendendo cura di lui, dispiegava uno di quei sorrisi che incurvano anche le palpebre, gli porgeva un bicchiere di vetro e l’acqua era fresca e leggera. Stéphane si ricordò di aver sempre amato quel modo di strizzare gli occhi con le risate, Ismaël lo faceva d’abitudine e lui a volte non lo notava nemmeno.
Forse era solo una fredda notte dei primi del dicembre duemilasette; forse no e il cuore che batteva forte impostava un ritmo al respiro. Stéphane aveva quarantatrè anni, pensava distratto a Louise che gli aveva mandato un messaggio con la buonanotte ed era rimasta, assieme alla sorella, a dormire da un’amica; sicuramente era meglio che andarla a recuperare alle tre di notte per qualche locale difficilmente raggiungibile in auto, non controllare mai i sensi di marcia o i lavori in corso. Louise nell’androne si toglieva le scarpe lucide con i tacchi alti e saliva scalza, il passo pesante e gli occhi troppo arrossati ed abituati al buio per accendere la luce.
Pensava al tanto che diveniva troppo, pensava all’abbandono che non era rimanere soli ma lasciarsi andare. Pensava a tutte le volte che aveva riletto Céline per il bisogno di percepire la morte e perdersi nei tre punti di sospensione; a quando the passion of lovers is for death o almeno così suonavano i Bauhaus e loro erano magri come punks e desideravano soltanto andarsene perché Brest era grigia e piccola.
«Marc ha i biglietti per la prima del Tannhäuser, mi ha invitato» aveva mormorato Ismaël dopo svariati minuti di cambi di posizione nel tentativo d’addormentarsi.
«Quando? Metterai lo smoking?» Stéphane l’aveva osservato alzarsi, completamente nudo e bellissimo, chinarsi per recuperare il pacchetto delle sigarette. La rivalità gli permetteva di inorgoglirsi di poter vedere quello spettacolo quasi ogni notte, mentre a Marc rimanevano soltanto dei frammenti di Ismaël e poco importava se questo pensiero fosse scorretto. L’estremo Marc spingeva Stéphane a dare sempre il meglio come se fosse stata una competizione continua, non un risultato in percentuali d’amore e presenza e sesso.
«Il quindici all’Opéra Bastille; è la prima, sono costretto» aveva risposto Ismaël in uno sbuffo di quel fumo in cui Stéphane sovente si perdeva.
«Poi torna a casa, adoro spogliarti dello smoking» accennò Stéphane voltandosi per spegnere l’abat-jour. Avrebbe potuto leggere ma aveva troppo sonno, troppo freddo che doveva rivestirsi e non restare solo tra le coperte mentre Ismaël lo guardava appoggiato con i fianchi contro il davanzale, il vetro dell’abbaino sollevato e l’aria glaciale che cristallizzava il respiro.
La pila di libri che precedentemente attendeva sul comodino si era rovesciata sul pavimento, alcuni dei foglietti con cui Ismaël teneva il segno o su cui ricopiava delle frasi da leggere alle ragazze si erano sparsi e spiegazzati e spersi. Leggevano come dannati, avevano trovato del tempo libero nei ritagli in cui non dovevano più accompagnare le figlie a scuola perché ormai erano grandi e leggevano smarrendosi e confondendosi. A volte capitava che Ismaël tornasse dal lavoro, suonasse il citofono e tardasse a salire le scale; Stéphane usciva sul pianerottolo, guardava giù e lo vedeva sporto nel vuoto a cercare di catturare qualche raggio celeste proveniente dal lucernaio, nel tentativo di finire almeno quel paragrafo. E Stéphane lo amava proprio per questo, perché era il suo Ismaël ed il suo caos, quando arruffato si raggomitolava e lui pensava che gli sarebbero venuti i crampi ai polsi e alle caviglie.















   
 
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