Cap.
4
Quando quella sera suonò il campanello, ebbi quasi il timore di vedermi
comparire dell’altro pane sulla soglia. Il fatto che il campanello mi suonasse
solo quando la vicina voleva del prezzemolo e quando un degenerato scaricava
razioni di pane sulla porta, mi faceva sentire alquanto sfigato. E solo,
magari. Ma quando aprii, un dolce aroma si prese possesso delle mie narici, e
sorrisi quando intercettai la figura della signora Rosaria. Era una donna bassa
e magrolina che a fatica si teneva in piedi: era già da qualche anno che aveva
contratto una malattia che presto l’avrebbe resa disabile, e andava sempre
peggiorando, i capelli gli si imbianchivano sempre più velocemente, le gambe e
le braccia sembravano muoversi al rallentatore, la mandibola a volte andava per
conto suo, la lingua le si attaccava al palato mentre parlava, facendola
incespicare nelle parole. Abitava al secondo piano, e di tanto in tanto veniva
a portarmi qualcosa da mangiare, sostenendo che fossi sciupato, quando lei era
almeno la metà di me.
Disse che aveva fatto un attimo fatica a scendere da me, e alla mia domanda “E
non ha preso l’ascensore?” lei rispose che era roba da vecchi aspettare
l’ascensore, perciò aveva fatto prima a scendere a piedi. Adesso mi porgeva una
delle sue torte alla frutta dicendo che ci teneva tantissimo a farmela
assaggiare.
La signora Rosaria mi riempiva sempre di complimenti ed era piacevole
conversare con lei: nonostante non riuscisse quasi mai ad iniziare una frase
senza balbettare o strabuzzare gli occhi, era particolarmente intelligente e
arguta, e sapeva reggere qualunque tipo di discorso. Diceva sempre di volermi
adottare, perché avrebbe sempre voluto un figlio maschio e, se mai l’avesse
avuto, l’avrebbe desiderato identico a me. Mentre mi parlava, di tanto in tanto
aggiungeva un “Come sei bello”, e mi dava pacche affettuose sulle spalle e
buffetti sulla guancia, e io quasi tornavo bambino quando ero in sua compagnia.
E anch’io, ormai, la consideravo al pari di una madre, sempre così premurosa e incoraggiante,
solare e attiva, nonostante i suoi problemi.
Rosaria lasciò la torta e poi tornò a casa, ché aveva la domestica a casa e non
si fidava a lasciarla da sola, mi confidò con un occhiolino. Chiesi se volesse
che l’accompagnassi, ma quella disse che questa volta avrebbe preso volentieri l’ascensore. Ringraziai
ancora per la torta e tornai dentro, per poi mangiarmene due grosse fette e
leccarmi golosamente i baffi. Dopodiché, mi misi a guardare senza troppa voglia
un film su Mediaset Premium, ma l’abbiocco causato da quella splendida torta mi
costrinse ad abbassare il volume al minimo e a prendere sonno lì sul divano, i
capelli ancora non del tutto asciutti dalla doccia che avevo fatto qualche ora
prima.
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Il giorno dopo mi svegliai tutto dolorante, con la schiena bloccata per metà, e
pensai di darmi seriamente per malato già il secondo giorno. Ma i sensi di
colpa me lo impedirono, dannazione. Sarebbe stato meglio non mettere proprio il
naso fuori casa. Infatti, chi mi ritrovai all’uscita dall’università, in piedi
accanto al cancello, un paio di vecchi occhiali da sole, una mano in tasca e
l’espressione imbarazzata? No, non Castelli, bensì il padre. Vedevo grosse,
enormi nuvole nere all’orizzonte. Implorai qualunque Dio che non fosse lì per
me, ma in effetti, perché doveva essere lì per me? Non aveva motivo di
cercarmi, e io mi stavo facendo seghe mentali per nulla. Non girava mica tutto
intorno a me, santo cielo.
«Professor Ruggeri…?»
Mi congelai sul posto. L’avevo sorpassato tentando di ignorarlo e adesso mi
stava chiamando. Probabilmente voleva solo essere salutato, dopotutto ci
eravamo conosciuti il giorno prima e sarebbe stato maleducato da parte mia non
accennare un saluto. Doveva essere quello, senz’altro.
«Si ricorda di me? Sono il signor Castelli, ci siamo conosciuti ieri,» mi
disse, mentre io gli davo ancora le spalle, indeciso se ignorarlo per davvero o
girarmi a dargli retta. E di certo non sono un maleducato, io. Mi voltai
sorridendo imbarazzato e con una mano dietro la nuca, poi mi accorsi che dovevo
sembrare particolarmente ridicolo, e feci un colpo di tosse per poi tornare
serio e impeccabile –come se ne fossi davvero capace.
«Certo che mi ricordo, buongiorno. E’ venuto a prendere suo figlio?» chiesi
speranzoso, anche se dovevo ammettere che non me ne importava nulla.
«No, non credo verrebbe con me,» rispose quello, tono e espressione
malinconici. Fece una pausa, e a me venne da ridere per il nervoso, perché quel
silenzio non prospettava nulla di buono. Io e i miei brutti presentimenti
sempre fondati, dannazione.
«Senta, ha qualche minuto per me?» chiese quindi, e io lo guardai con una
faccia da “Lo sapevo!”
«A-adesso?» feci guardando l’orologio da polso.
Ovviamente non avevo nessun impegno, ma lo sguardo cadde lì automaticamente.
«Sì, ma se ha impegni, possiamo fissare un colloquio…»
si affrettò a dire l’uomo, le mani sulla difensiva. No, Dio, odiavo i colloqui.
Mi mettevano seriamente ansia, e non ne capivo ancora il motivo. E poi, le
scocciature, è meglio togliersele di torno il più in fretta possibile, se non
si vuole temerle nei giorni a venire.
«No, guardi, va bene adesso. Pranzerò più tardi, non ci sono problemi,»
assentii, con lo stomaco che mi si era chiuso per davvero. «Di cosa deve
parlarmi?» aggiunsi. Lui si fece più vicino, quasi mi volesse confidare un
segreto e,
«Vorrei che andassimo a parlare da qualche altra parte,» disse, probabilmente
infastidito dalla grande quantità di ragazzi che s’erano fermati sul cancello.
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Pochi minuti dopo eravamo in un bar lì di fronte a prendere un aperitivo, i
miei occhi che tornavano più volte sui pasticcini strabordanti
di crema in bella vista nelle teche di vetro.
Il padre di Castelli, che mi aveva detto di chiamarsi Bruno (ironico, vista la
mancanza di capelli e la pelle chiarissima), sembrava turbato e incerto se
quanto stava per dirmi fosse opportuno o meno. Io prendevo sorsi dal mio ginger
col sopracciglio destro che pulsava e i pasticcini che mi chiamavano. Non
bastava la torta alla frutta della signora Rosaria, no.
«E’ per caso successo qualcosa?» mi azzardai allora, visto che non si decideva
a spiccicare parola.
«In effetti sì…e va avanti da due settimane…»
riuscì finalmente a dire, le mani che si torcevano e lo sguardo che fuggiva.
«Me ne vuole parlare?» Ecco, l’atteggiamento da buon samaritano. Non mi
smentivo mai. Mai. E poi, cos’era quel tono da colloquio di lavoro?
«Si tratta di mio figlio…»
“E ti pareva,” pensai all’istante, rendendomi conto che quel ragazzino era
ormai ovunque: nel mio quartiere, sul posto di lavoro e anche nei discorsi.
Scossi la testa e provai a prestare attenzione alle parole dell’uomo, piuttosto
che ai pasticcini. «Vede…Mi vergogno un po’ a dirlo,
ma io quest’estate mi sono risposato per la terza volta…»
“Complimenti, playboy,” avevo voglia di dirgli ironicamente, ma mi trattenni.
Non avrei mai voluto sembrare maleducato o confidenziale.
«E per quanto mia moglie tenti di essere buona e gentile, non riesce a farsi
accettare da mio figlio. E lo stesso è successo con la mia seconda moglie,»
fece una pausa e ne approfittai per fargli capire che stavo seguendo il
discorso con un cenno del capo. Adesso aveva abbassato la testa e strisciava
nervosamente il pollice sul bicchiere di forma allungata. «Sa, con sua madre
aveva un rapporto stupendo. Non faceva che renderla orgogliosa, che
assecondarla, che portarla in giro, fuori al parco, a fare le passeggiate…»
«Portarla in giro?» iniziavo a vederci un attimo più chiaramente.
«Mia moglie era malata,» spiegò mentre si grattava la nuca con una mano, forse
leggermente a disagio. «Stava sulla sedia a rotelle. Un anno dopo è morta,» lo
disse normalmente, come se fosse una storia già raccontata fino allo
sfinimento. Non mi azzardai a chiedere che razza di malattia avesse la sua
prima moglie e mi limitai a dire che mi dispiaceva molto.
«Grazie, professore,» ringraziò con il capo inclinato verso il basso, la voce
distorta da una nota d’emozione. «Mio figlio rimase molto colpito da questa
morte e, quando conobbi Elena, mi giurò che, se l’avessi sposata, mi avrebbe
detestato e, con me, anche lei. Tuttavia io presi sottogamba quella specie di
minaccia e la sposai comunque. Valerio mantenne la sua promessa e, anche se in
casa c’era, sembrava un fantasma ed evitava qualsiasi tipo di contatto con
noi,» si fermò a bere e si assicurò che stessi ascoltando e seguendo il
discorso. «In quel periodo, pensai ad una depressione adolescenziale
temporanea. Sa, delle parole dette con
leggerezza da ragazzini ancora ingenui. Però, quando divorziai da Elena e
tentai di ricominciare con Monica, lui non ci vide più e dopo qualche settimana
lasciò addirittura la casa,» concluse, con voce rotta, l’aperitivo che per poco
non gli andava di traverso, per la velocità con cui sentì il bisogno di
bagnarsi la gola subito dopo.
«E questo è successo due settimane fa?» chiesi per conferma dopo essermi
assicurato che non si stesse affogando.
«Esatto».
“Allora perché diamine parli in passato remoto?” mi chiesi grattandomi il mento
e chiudendo gli occhi per non lasciar trasparire il fastidio che mi formicolava
all’altezza della nuca.
«E dove sta adesso?» chiesi allora, la mano che si spostava dal mio mento
ruvido alla nuca. Mi rendo conto che potesse sembrare un gesto maleducato,
quello di stare sempre a toccare la nuca, ma in quel momento non mi sembrò
rilevante.
«Come?» fece quello sollevando il capo dalla propria bevanda.
«Suo figlio, intendo. Dove vive?»
«E’ proprio questo il problema. Si è rifugiato a casa di un amico di cattiva
fama che non mi pare la compagnia più adatta,» rispose con faccia ricca di astio
e pregiudizio, lo sguardo che fuggiva sulla vetrata accanto a noi. Facendo
sapientemente il solito due più due, ne dedussi che quell’amico di cui parlava
doveva trattarsi di Martone.
«Cattiva fama?» ripetei, anche se non ne ero più di tanto stupito. Quel tipo ce
l’aveva proprio, la faccia di un poco di buono.
«Sì, non ne parlano molto bene… E’ uno poco
raccomandabile, insomma. Si dice in giro che abbia i genitori truffatori, e io
non voglio avere niente a che fare con quella gente, né desidero che mio figlio
li frequenti,» disse con le mani intrecciate e il mento che poggiava su di
esse, il tono duro e fermo. Sospirai, perché il mio cattivo presentimento stava
lentamente uscendo allo scoperto, e tentai di anticiparlo, quasi per sfida
personale. Per vedere se, insomma, ci avevo azzeccato.
«Quindi, in poche parole, sta cercando un posto migliore dove far dormire suo
figlio?»
Bruno alzò gli occhi e mi guardò meravigliato, le pupille improvvisamente
luccicanti e la bocca che si piegava
piano all’insù. Annuì piuttosto sorpreso della mia finta perspicacia, poi si
fece nuovamente insicuro tutto d’un colpo, come all’inizio della nostra
conversazione.
«Ora…non vorrei sembrarle inopportuno, ma…lei è sposato?» chiese a quel punto, e io socchiusi gli
occhi, ben sicuro di dove volesse arrivare.
«No, sono single,» e gli evitai anche la storia del divorzio. Lui fece per
continuare, ma lo precedetti alzando una mano in segno di scusa. Sperai non
pensasse che avevo intenzione di zittirlo. «Ha intenzione di chiedermi se posso
ospitarlo?»
«E’ incredibile, lei mi legge nel pensiero!» fece una faccia contenta e
speranzosa al contempo, ma dovette rabbuiarsi quando s’accorse della mia
espressione non così entusiasta.
«Mi spiace, non posso farlo. Siamo insegnante e studente, non possiamo…»
«Beh, perfetto, così sembrerà il suo tutore! Per favore, la pago!»
Ma stava parlando sul serio? Sembrava si stesse per mettere a piangere, e il
tono di voce era disperato, e sono sicuro che se in quel momento gliel’avessi
chiesto, si sarebbe persino inginocchiato davanti a me. Lo guardai costernato e
confuso, la voce che mi usciva stridula dalla gola.
«Ma le pare questo il problema? E’ che…»
«La prego, professore. Non abbiamo parenti qui, sono tutti giù in Puglia… Mi faccia questo grande favore, le giuro che la
pagherò settimanalmente. E poi sarà per poco! Sono sicuro che dopo un po’ mio
figlio si convincerà a tornare a casa. Glielo garantisco,» concluse, le mani
congiunte e l’espressione da agnello smarrito negli occhi trasparenti. Ammetto
che il fatto dei parenti in Puglia mi aveva fatto un po’ pena, ma davvero, era
qualcosa di impensabile. Eppure ci stavo già rimuginando su inconsapevolmente,
lo sguardo incantato sul bicchiere vuoto davanti a me.
«Non lo so, signor Castelli, perché… come facciamo con
i letti?» sparai la prima cosa che mi passò per la testa, e a lui sembrò anche
una domanda legittima.
«Dormirà tranquillamente sul divano, l’ha fatto per molto tempo,» rispose
l’altro prontamente, e non mi venne di chiedergli da quand’è che i figli si facevano
dormire sul divano.
«E’ allergico a qualcosa, suo figlio?» adesso tiravo fuori le questioni più
assurde. Se era allergico a qualcosa, erano problemi suoi. Si prendeva un
antistaminico e tanti saluti.
«Solo al pelo di cane, leggermente, ma a nessun tipo di cibo».
Mi maledissi per non aver mai comprato un cane.
«Fa sport?» sembrava un esame medico, sul serio. Ma avevo quasi paura di far
terminare quella conversazione. E allo stesso tempo, non vedevo l’ora di darci
un taglio e fuggire da quel posto pieno di odori invitanti.
«Sì, ma non è niente di pericoloso, e la sede è vicino casa,» rispose quello
velocemente, per niente spazientito da quelle domande. Pensai che
probabilmente, suo figlio frequentasse la palestra o la piscina. In teoria
c’erano senza dubbio altri argomenti da mettere in discussione, ma in quel
momento non riuscii a trovare nient’altro, e appoggiai le labbra alle mani
intrecciate. Poi alzai gli occhi su Bruno e scossi la testa.
«Non saprei…»
«Facciamo così: lo prende in prova per una settimana. Se le dà fastidio o non
apprezza la sua presenza o altro, lo caccia via a calci e io non avrò alcun
tipo di risentimento nei suoi confronti. Ci sta?» chiese infine, e mi allungò
una mano aperta sul tavolo. Pensai che fosse decisamente impossibile liberarsi
da una situazione del genere soddisfacendo i desideri di entrambi, e in quel
momento il buon samaritano che era in me, quella stupida debolezza di cui
dovevo imparare a liberarmi, protestava, pulsava in testa, diceva di lasciarmi
andare, che tanto non c’era nulla di male. Mi ricordava che io ero solo, e mi
sentivo più solo di quanto in realtà non fossi, e mi diceva che forse badare a
qualcuno non mi avrebbe fatto male, mi avrebbe distratto un po’, e magari reso
un attimo più umano. Mi diceva che la vita che conducevo, quella per inerzia,
non gli stava più bene, e che desiderava che un alito di vento venisse a far
crollare il mio castello di carte in bilico per miracolo. E mi diceva anche che
quella era l’occasione giusta, che potevo coglierla senza farmi troppe seghe
mentali.
«Va bene,» raggiunsi la sua mano e gliela strinsi, e la voce che uscì dalla mia
bocca non sembrava neanche la mia. «Non può accadere nulla di male in una
settimana,» ribadii, quasi per autoconvincermi. E
fino a quella sera continuai a ripetermi come un automa “Nulla di male, nulla
di male”, fino a storpiarne orrendamente le parole.
---
Il trasferimento di Valerio Castelli era previsto per quella domenica mattina.
Il senso di responsabilità che già premeva su di me andò peggiorando con
l’avvicinarsi del giorno fatidico, fino a quasi schiacciarmi il sabato
pomeriggio. Di restare a casa quel sabato sera non se ne parlava: il brutto di
quando sono solo, è che ho sempre occasione di confrontarmi coi miei pensieri e
le mie preoccupazioni, e di solito ne esco sconfitto, da queste discussioni col
mio cervello. Quindi mi decisi ad alzare il culo e trovarmi qualcosa da fare
che mi distraesse. Uscii e guidai verso il locale di Giusy: ero sicuro che
l’avrei trovata, perché mi aveva detto che il finesettimana c’era sempre lei
dietro il bancone. Mi decisi ad uscire anche perché sentivo che quella sarebbe
stata l’ultima serata che potevo passare liberamente, senza palle al piede.
Spinsi la porta col vetro verde ed entrai ancora cauto e circospetto: in fondo,
era solo la seconda volta che ci mettevo piede, dovevo ancora farci
l’abitudine. Anche se questo significava diventare cliente abituale, e per
quale motivo avrei dovuto diventare un cliente abituale di un locale di quel
tipo?
Mi diressi al bancone cercando di ignorare qualunque cosa stesse succedendo
attorno a me, ma prima che riuscissi ad arrivare, intercettai con la coda
dell’occhio una massa di capelli ricci venirmi incontro.
«Non ci credo! Sei davvero tornato!» esclamò Giusy contenta baciandomi la
guancia.
«Sì. Ho avuto un’altra giornata impossibile e volevo bere qualcosa,» ammisi, la
mano che stropicciava un occhio, quasi fossi pronto ad andare a letto.
«Bene! Accomodati, ché ti verso un altro Angelo Azzurro». Non capivo perché
dovesse scegliere lei quello che dovevo bere, ma non mi andava di lamentarmi.
La seguii sino al bancone e, dopo essermi seduto su uno sgabello, notai dei
faretti colorati sopra di me e per tutto il resto del locale che la volta prima
non c’erano e che, sicuramente, rendevano l’atmosfera un attimo più
accogliente. Probabilmente ero troppo sovrappensiero per potermene accorgere
prima.
«E quelli?» chiesi indicandoli con un cenno del capo.
«Ah, servono per domani sera. Abbiamo organizzato una festa a sorpresa per il
compleanno di Giulio, sai, quel ragazzo con cui parlavi l’altra volta. Solo che
non ho resistito e li ho accesi già da stasera. Spero solo che non venga…» neanche riuscì a concludere la frase, che dovette
interrompersi di botto. Fissò la porta d’entrata per poi indietreggiare e
rivolgersi a una sua collega.
«Marty, le luci! Spegni le luci!»
Prontamente, l’amica bionda si fiondò su una serie di interruttori e gli
effetti speciali sparirono di botto. Mi voltai, sicuro che la cosa non fosse
passata per nulla inosservata, ma Giulio aveva la sua stessa espressione
imperturbabile, per nulla sorpresa, sicuramente bonaria.
«Giulio! Buonasera! Qual buon vento? Di solito non vieni di sabato!» strillò
Giusy quando il ragazzo si fu appostato sullo sgabello accanto al mio. Non era
proprio in grado di recitare.
«Beh, oggi non c’era niente di bello in tv,» sorrise lui con gli occhi
socchiusi. Dopodiché voltò il capo nella mia direzione e mi rivolse la parola. «Oh,
ciao. Tu sei l’etero dell’altra volta. Andrea, giusto?»
Gli strinsi la mano senza troppo entusiasmo rivolgendogli un sorriso stanco.
«Sì, esatto. Come stai?» chiesi con tono di voce altrettanto stanco.
«Io bene, ma tu? Tu vedo distrutto». Non gli si poteva nascondere niente.
Niente.
«In effetti lo sono…Mi stanco facendo niente».
«Beh, perché allora non sei nel tuo lettuccio? Non mi fraintendere, sono
felicissima che tu sia qui,» si intromise Giusy mentre prendeva l’occorrente
per il mio drink.
«E’ che ho paura che questa sia l’ultima volta che potrò uscire liberamente la
sera,» risposi appoggiando il gomito al bancone e il mento sul palmo della
mano, lo sguardo fisso su un punto impreciso del top di Giusy.
«E perché?» chiesero in coro quei due. Li guardai per assicurarmi che non
avessero la faccia di persone curiose e pettegole. Poi mi accorsi che c’era
troppa poca luce per poter scorgere i loro occhi e rinunciai.
«Domani mattina uno dei miei studenti si trasferirà a casa mia su richiesta del
padre…» iniziai, per poi raccontare scocciato tutta
la storia, senza magari soffermarmi su particolari insignificanti della
conversazione tra me e Bruno. Alla fine del mio racconto, Giulio si tolse gli
occhiali da vista e, mentre se li puliva con la maglia nera, fece:
«E’ carino, almeno?»
Giusy rise e io lo guardai di traverso.
«Cosa c’entra questo? Dovrei avere in casa una specie di…figlio,»
borbottai, e mi meravigliai di aver pronunciato per davvero una frase del
genere.
«Beh, ma guarda il lato positivo. Verrai pagato per fare da badante…»
«E da tutore,» lo corressi.
«…sì, e da tutore, a un moccioso. Quanti anni hai
detto che ha?»
«Venti,» risposi in un soffio.
«Ma è carino?» ripeté quel tipo mentre si rimetteva gli occhiali sul naso, e io
sbuffai, più rumorosamente questa volta.
«Sì, sì, è carino. E’ biondo, ha gli occhi chiari, è alto più o meno quanto
Giusy e si chiama Valerio. E’ questo che volevi sentirti dire?» ormai sembravo
voler scaricare il mio nervoso su chiunque.
«Ehi ehi, che sfuriata. Devi avere i nervi a mille». Aspettò che calmassi i
bollenti spiriti, poi parlò nuovamente. «Comunque, non è detto che tu non possa
più uscire. Anzi, perché domani non ci diamo appuntamento qui, più o meno alla
stessa ora? E porta Valerio con te».
Mi trascinai una mano nei capelli, sbuffando ancora. Okay, avevo capito che
Giulio voleva provarci anche col mio studente.
«Che stai dicendo? E’ troppo giovane, non reggerebbe mai a queste…visioni,»
dissi piuttosto alterato, e indicai due uomini nel tavolo in fondo che se ne
stavano tranquillamente avvinghiati.
«Reggerà benissimo, non fanno nulla di scandaloso. Dai, portalo in prova. State
anche solo un’oretta. E, se si comporta bene, lo porterai altre volte con te,
se per lui è un problema stare solo a casa. Ma insomma, ha anche vent’anni!» esclamò
lui spostandosi dagli occhi il lungo ciuffo nero.
«Sì, ma sono io che non mi fido a lasciare uno sconosciuto solo in casa mia. E
poi, lui sarà sotto la mia responsabilità,» ribattei e Giusy, che aveva appena
finito di servire una ragazza, mi diede una pacca sulla spalla ridendo.
«Oh, come sei diventato serio, Ruggeri. Una volta non eri così. Dai, cerca di
venire a trovarmi anche domani,» e fece un occhiolino finale, ricordandomi
della festa a sorpresa in onore di Giulio.
---
Credo che potremmo considerare questo
come il capitolo di svolta. Cioè no…cioè, non so
neanche io che sto dicendo <3 Ho introdotto il personaggio della signora
Rosaria che è uno dei miei preferiti, in seguito comparirà ancora una volta e
l’ameranno tutti <3
C’è un motivo per cui ho messo una frase in corsivo, nel testo, probabilmente
perché si ripeterà XD (perché spoilero sempre, sigh).
Okay, alla prossima!
Mirokia