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Autore: LiberTea    24/09/2012    2 recensioni
Tante cose possono succedere in un'estiva notte londinese. Amicizie di sempre, amori vecchi e nuovi, storie che si intrecciano tra le strade della city, accompagnate dalle note di rock band immortali.
"Streetlight people livin just to find emotion, hidin somewhere in the night..."
[Gerita; Spamano; Prungary; Usuk]
Genere: Romantico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Streetlight People

4. Don't Go Away- Oasis


Eccomi su quel palco, anche quella sera.
Come ogni volta, i The Nordics, una band metal di cinque ragazzi scandinavi, si erano esibiti prima di me, avevano salutato il pubblico e mi avevano lasciato il posto. Nonostante non riuscissi a sopportare Mathias, il vocalist del gruppo, un imbecille danese con un'assurda cresta di capelli biondi in testa, li trovavo piuttosto bravi.
Ma io ero meglio. I miei pezzi erano rock allo stato puro, gruppi che erano diventati divinità nella storia di quel genere musicale. Beatles, Queen, The Clash, Oasis, Led Zeppelin, Deep Purple, Genesis: più li ascoltavo, più cantavo i loro testi, più eseguivo i loro accordi, più mi rendevo conto di essere probabilmente nato nella generazione sbagliata. E, per un altro verso, anche nella famiglia sbagliata.
Quella sera nel locale c'erano più persone del solito. Non feci in tempo a compiacermi della cosa, che un tizio dai lunghi capelli biondi e il pizzetto mi si piazzò sotto il palco, lanciandomi delle occhiate molto eloquenti.
Il solito pervertito. Ce n'erano tanti in giro, la cosa non mi stupiva, anche se effettivamente questo era molto fastidioso. Per fortuna dopo circa un'ora, e prima che gli spaccassi la chitarra in testa in modo molto artistico, si levò dai piedi, allontanandosi con una ragazza dalla pelle scura.
Amavo guardare il pubblico mentre suonavo, intuire le emozioni che provava tutta quella gente, capire se era la mia musica a provocarle. Spesso le persone parlavano tra loro senza badare a me, anche se involontariamente percepivano le mie canzoni: tenevano il ritmo con un piede, o con le dita, canticchiavano silenziosamente il ritornello dei pezzi più famosi, o semplicemente si perdevano a guardare il palco.
Questi piccoli gesti mi facevano sentire importante, anche se certo non era il genere successo che desideravo. Io volevo diventare qualcuno.
Quella sera però il mio sguardo si posò sull'ultima persona al mondo che avrei voluto vedere.
Un ragazzo alto, i capelli color grano e due magnifici occhi azzurri dietro un paio di occhiali da vista. Cavolo, quegli occhi. Erano splendidi come sempre.
Quello era Alfred F. Jones, l'essere umano più stupido e megalomane esistente sulla faccia della terra. Era americano, non c'era da stupirsi.
Ci eravamo conosciuti in un locale, sei mesi prima: era scappato di casa, aveva preso il primo volo che gli era capitato ed eccolo lì. Da ribelle qual'ero, venendo da una famiglia che mi voleva medico quando io desideravo solo fare musica, trovai la sua storia estremamente eccitante: quel ragazzo aveva avuto il coraggio di fare ciò che io immaginavo solamente nei miei sogni più vividi.
Ma quando aveva iniziato a parlare di videogiochi e fumetti, di tutte le ragioni per cui secondo lui Superman fosse più credibile di Spiderman e di quanto fosse figo l'ultimo modello di Xbox uscito sul mercato, capii che avevo a che fare con un cretino. Volevo solo che quella serata finisse al più presto, ma ebbi la malsana idea di bere un paio di drink, che diventarono tre, quattro...non so nemmeno quanti fossero alla fine. Troppi, questo è sicuro, visto che il mattino seguente mi ero risvegliato completamente nudo in casa di quell'americano, nel suo letto e tra le sue braccia, con un forte dolore alla testa nonchè al fondoschiena.
Non ci sarebbero stati problemi se la cosa si fosse chiusa lì come ogni avventura di una notte che si rispetti, se lui non mi avesse costretto a dargli il mio numero, se non mi avesse richiamato, se io non avessi accettato il suo appuntamento, se lui non fosse stato così dannatamente carino e se la giornata non si fosse conclusa come la volta precedente.

All'inizio cercavo di non considerarla una vera storia, ma più come un modo per ribellarmi ulteriormente ai miei genitori che mi volevano sposato con una brava ragazza per avere tanti bei nipotini. Con Alfred era solo sesso, divertimento e nient'altro.
Ma arrivò l'amore, e rovinò tutto. Non all'inizio, no, allora ero la persona più felice del mondo. Eravamo le persone più felici del mondo, perchè Alfred sentendosi ricambiato era se possibile ancora più sorridente e euforico del solito. Già, perchè per lui 'era sempre stata una cosa seria'.
O almeno così diceva. E io ero troppo innamorato per non crederlo.

Capii di aver commesso il più grande errore dei miei ventitre anni di vita quando lui venne da me, e con il solito sorriso sulle labbra mi disse che era meglio non vedersi più, per un po'.
E a me era cascato il cuore.
Dopo avergli urlato dietro tutti gli insulti peggiori che conoscessi, mi ci era voluto più di un mese, passato a piangere chiuso in camera e a scolarmi tutte le bottiglie di rhum del minibar di mio padre, per riprendermi.
E ora lui aveva anche il coraggio di farsi rivedere, con quel suo stupido sorriso sulle labbra. Maledetto yankee. Sembrava non avermi nemmeno visto, tra l'altro, intento com'era a parlare con un ragazzo dai caratteri orientali e il caschetto. Chissà, magari era pure il suo ragazzo. Sentii una fitta al cuore: i pezzi che avevo tanto faticato a rimettere insieme minacciavano di tornare a spezzarsi inesorabilmente.
Perchè si, in fondo lo amavo ancora.
Nonostante mi avesse fatto soffrire come un cane, nonostante potessi certamente avere di meglio di uno stupido americano fissato con il cibo del fast food e i videogiochi, nonostante avessi giurato che mai più sarei cascato in una storia a senso unico, avrei volentieri urlato in quel fottuto microfono che avevo davanti al viso 'Alfred torna da me, adesso, subito!'
Ma non lo avrei fatto, perchè in fondo il mio orgoglio avrebbe prevalso. Era sempre stato così.
Tornai a concentrarmi sul mio spettacolo, non potevo lasciarmi abbattere. Quello che stavo per eseguire era il mio ultimo pezzo quella sera: Don't go away, degli Oasis.

So don't go away, say what you say
But say that you'll stay
Forever and a day in the time of my life
'Cause I need more time, yes I need more time
Just to make things right

Alfred aveva smesso di parlare con il ragazzo che era insieme a lui e mi stava guardando con un'indecifrabile espressione sul volto. Quando i nostri sguardi si incontrarono, mi sorrise. Quel sorriso storto che mi rivolgeva spesso. E per cui io impazzivo letteralmente. Ci volle poco, infatti, perchè sentissi le mie guance farsi bollenti, facendomi guardare altrove, imbarazzato.
Lo odiavo, Dio solo sa quanto lo odiavo in quel momento. Bastava un suo sorriso per farmi di nuovo andare il sangue alla testa? Non avevo capito proprio niente?

Me and you, what's going on?
All we seem to know is how to show
The feelings that are wrong
Non avevo mai odiato tanto gli Oasis in vita mia. Damn, damn, damn.
"Goodnight, London", dissi con un po' meno enfasi del solito, concludendo il pezzo. Ci furono alcuni applausi, e il mio sguardo non potè evitare di cercare Alfred. Invano, però: era scomparso. E con lui il suo amico, se era un suo amico. Ma considerando che erano spariti insieme ovviamente era qualcosa di più. Già, d'altronde non aveva fatto lo stesso con me?
Cercando di ingnorare la fitta al cuore che quell'idea mi aveva provocato, riposi con foga la mia chitarra nella custodia, me la caricai in spalla e scesi finalmente da quel maledetto palco. Volevo solo andarmene a casa e farmi una bella dormita, così mi sarebbero passati anche quei pensieri stupidi, masochistici e soportattutto inutili.
Mi feci spazio tra la folla, che era accalorata e opprimente, e quando finalmente vidi l'uscita tirai un sospiro di sollievo.
Una volta fuori presi un respiro profondo, dovevo dare aria a quel mio dannato cervello prima di impazzire.
La notte era fresca e umida, nonostante fosse quasi metà luglio. Il clima inglese era così, e a me non dispiaceva affatto: non c'era una cosa nel mio paese che non trovassi perfetta.
"Hi, Arthur"
La voce che udii alle mie spalle mi fece venire un brivido lungo la schiena. Perchè non era una voce qualsiasi: era quella voce.
"Ciao, Jones", dissi con freddezza mentre mi voltavo.
Stava di nuovo facendo quel sorriso. La voglia di tirargli un pugno era forte, ma qualcosa mi fermò. Forse il fatto che avessi notato che il ragazzo orientale non era con lui, forse perchè quando mi aveva scaricato e avevo provato a picchiarlo mi ero quasi slogato una mano.
"Uh, mi chiami per cognome adesso?",chiese inarcando un sopracciglio.
Gli lanciai uno sguardo altero: "Quelli che non sono più che conoscenti si chiamano per cognome, è un segno di educazione. Ma non mi aspetto che tu lo sappia, le buone maniere non sono mai state il tuo forte"
La sua espressione si fece divertita: "Quindi io sarei 'non più che un conoscente' adesso, per te?"
Sentii la rabbia crescermi dentro il petto, e strinsi i pugni. "Oh, certo che no. Tu per me sei il più grande degli imbecilli, credevo di essere stato chiaro l'ultima volta"
Alzò gli occhi al cielo. "Avverto una certa ostilità, Arthie"
"Non chiamarmi in quel modo!".
Avevo sbottato senza pensare: quel nomignolo mi riportava alla mente troppi ricordi. 'Sei adorabile, Arthie', 'Rimarremo sempre insieme, Arthie', 'Ti amo, Arthie'. Si, decisamente troppi ricordi.
"Dovresti tornare dal tuo...amico, scommetto che si sta annoiando da solo", mugugnai senza guardarlo, sperando che si levasse definitivamente dai piedi e non mi facesse fare altre figuracce per le mie eccessive reazioni emotive.
"Chi, Kiku? Nha, lui mi ha solo accompagnato. Diciamo che è qui per farmi da supporto morale."
"Supporto morale? E per cosa?", chiesi confuso alzando lo sguardo.
Lui mi osservava, la testa piegata di lato e il solito sorriso: "Bè, perchè credi che io sia qui?"
Scrollai le spalle fingendo un disinteresse che non avevo: "Che ne so, per rimorchiare qualche ragazzo troppo caritatevole per dirti di no?"
Fece una mezza risata: "Quella sera sei venuto con me per carità quindi?"
Arrossii: "Ovviamente"
"Non perchè mi trovavi estremamente sexy?"
"A-Alfred piantala, ero ubriaco!"
"Eri ubriaco anche nei due mesi, tre settimane e cinque giorni seguenti?"
"Ti ho detto di smetterla! Aspetta, ti ricordi ancora...? M-Ma tanto che mi importa! Fammi un piacere, sparisci! Sei stato tanto bravo a farlo in questi mesi!"
Detto questo voltai i tacchi e mi allontanai. Sentivo le lacrime che minacciavano di iniziare a scendere, e non mi andava che lui mi vedesse piangere. Non di nuovo.
"Aspetta! Non mi hai nemmeno lasciato il tempo di dire perchè sono qui!", lo sentii gridare mentre me ne andavo.
"I don't give it a fuck!", urlai con tutto il fiato che avevo in gola.
La testa mi scoppiava, il sangue mi rimbombava nelle orecchie, le gambe si muovevano da sole, decise ad allontanarsi da lui il prima possibile. Tutto il mio corpo si stava ribellando a quella situazione prima che fosse il cervello ad ordinarglielo.
Ma qualcosa mi fece fermare, andando contro tutto quel caos che avevo dentro.
"Don't go away, say what you say, but say that you'll stay forever and a day in the time of my life!!!"
No, non poteva essere.
Alfred stava cantando quella stessa canzone degli Oasis che stavo suonando io quando lo avevo visto nel locale. Solo che in quel contesto, e dette da lui, quelle parole assumevano un altro significato. Rimasi immobile, gelato da quel suo gesto improvviso. Mi stava dedicando una canzone. Alfred Jones, il ragazzo che amavo, mi stava dedicando una stupenda canzone degli Oasis. Holy Christ, quanto lo odiavo.
A passo spedito tornai verso di lui, cosa che lo fece sorridere soddisfatto.
"Me and you, what's going-"
"Smettila idiota!"
"Perchè?"
"Primo: sembri un animale morente. Sul serio, non ho mai sentito nessuno più stonato. Secondo: non ti permettere di storpiare un testo degli Oasis con il tuo stramaledetto accento da yankee!"
"Però ha funzionato. Sei tornato."
"N-non l'ho fatto per te! Le mie orecchie chiedevano pietà, e-"
"Vuoi sapere perchè sono venuto qui?", chiese lui nuovamente.
Sbuffai, guardandolo rassegnato. "Come ti pare"
Lui sorrise, contento come un bambino che ha appena ottenuto un permesso dalla mamma. Un bambino troppo cresciuto, ecco cos'era.
"Alright!", disse, "Allora vieni con me!"
"...C-cosa?! E dove?!"
"Oh, questa è una sorpresa!"
"...Bloody Hell..."

Angolino dell'Autrice:

Eccomi con il quarto capitolo! E' stata dura ma ho scritto anche questo.
Ho cambiato idea settordicimila volte prima di finirlo, e non ero mai soddisfatta (non lo sono nemmeno adesso, in realtà...).
Ed è anche più corto degli altri. E la usuk è anche la mia coppia preferita. Oh bè.
Come sempre grazie a tutti per aver letto e recensito. Continuate così, mi raccomando :D
See ya soon people!
   
 
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