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Autore: EnricoZapping    25/09/2012    2 recensioni
Si prospettava una normalissima gita.
Inutile dire che non lo sarebbe stata.
Questa è la storia di una nuova avventura semidivina in America, con protagonisti interamente nuovi. Sono passati 8 anni da quando Percy Jackson ha fatto sancire il patto degli déi, e ora un altro evento farà vacillare la pace nel mondo degli déi e degli uomini.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi svegliai, finalmente. Quanto tempo ero rimasta addormentata?
Mi resi conto, dall'aria che sapeva di medicinali anziché di rose e dalla calma assoluta che pervadeva l'ambiente, che non ero nella casa di Demetra.
Ero in infermeria. Fantastico.
Provai ad alzarmi. Non ci riuscii per il dolore atroce che mi si scatenò alla spalla.
"Non ti sforzare", mi disse una voce dolce e premurosa come quella di un vecchio nonno, "hai una brutta frattura scomposta alla scapola."
Improvvisamente mi tornò la memoria della brutta, brutta caduta che feci durante la gara di corsa delle bighe.
Mormorai una maledizione in greco antico nei confronti degli abitanti della casa numero cinque.
Girai la testa. Il letto alla mia sinistra era vuoto, così come tutti quelli nella corsia opposta. Ero sola, in infermeria? Girai la testa verso destra e mi resi conto di no.
C'era anche Robert, un letto più in là.
Era sveglio e non era particolarmente pieno di fasce, ma era zeppo di tagli e taglietti, abrasioni. Dedussi che aveva avuto anche lui una caduta dalla biga non particolarmente gradevole.
"Non preoccuparti, sto bene", disse Robert, notando che Anthea lo guardava, "dovresti preoccuparti di te stessa."
La voce dolce tornò a parlare. "Robert ha ragione, sei messa molto peggio di lui" Riuscii ad alzare dolorosamente la testa e vidi in faccia quell'uomo. Aveva i capelli brizzolati, barba curata, camice candido da dottore. Ok, era un dottore? No. Era Esculapio, il dio della medicina. Momentaneamente era lui, a gestirla, l’infermeria. Una grande fortuna, considerando che qua c'è sempre qualcuno che infilza "per errore" un avversario, o qualcuno che si scotta con la lava della parete d'arrampicata.
Esculapio assunse un'espressione pensosa. "Mh, quella frattura ci metterebbe come minimo un mese a guarire naturalmente... Meno male che possiamo darle una mano."
Mi si avvicinò. "Non vuoi restare un mese sul letto, vero?"
Mormorai "No".
"Capisco. Allora, lascia che ti dia una mano." Appoggiò la mano sulle mie spalle, cosa un po’ dolorosa poiché avevo una scapola fratturata.
Dopodiché avvertii una sensazione di benessere incredibile. Il dolore era passato del tutto. Provai a muovere il braccio. Non fece male. Provai ad alzare la schiena. Nessun dolore.
Ebbi solo la forza di dire "Wow", poi mi ridistesi sul letto.
Esculapio frugò in una valigetta.
Tornò con un po’ di quadretti di quella che sarebbe potuta sembrare cioccolata, se non fosse stata color dell'oro. Ambrosia, il cibo degli dei.
Me li offrì, e li portai alla bocca.
E' un peccato che i mortali non possano mangiare ambrosia e bere nettare senza ridursi in cenere, perché al mondo non esiste nulla di più buono.
Hanno il sapore di ciò che ti piace di più, ma mille volte più sublime. Direi che questa è la descrizione più appropriata. Per esempio, per me aveva un irresistibile sapore di fragole e panna.
"Sicuro di stare bene?", disse, con la sua voce profonda e gentile.
"Sì, grazie...", rispose Robert. Aveva gli occhi chiusi. Forse si voleva addormentare.
"Fammi lo stesso controllare."
Esculapio appoggiò una mano sul petto di Robert, all'altezza del cuore. Fece un'espressione sorridente.
"Sei sano. Però ho notato che hai il mio dono."
"Il... tuo dono?", chiese Robert dubbioso.
"Sì, il dono di Esculapio. Come me, puoi guarire le persone con il tuo solo tocco."
"Oh, wow."
"Prova. Guarisciti i tagli da solo."
Robert posò la sua mano destra sul dorso della sinistra, dove c'era un taglio. Chiuse gli occhi, si concentrò. Un'aura verde avvolse la mano. Quando la sollevò, il taglio non c'era più.
"Comodo.", commentò Robert. Poi, si stese sul letto e si addormentò.
Decisi di emularlo. Esculapio mi sorrise, dicendomi "Sogni d'oro".



“Arthur, che posto è questo?”, chiesi al satiro.
“Benvenuto al Campo Mezzosangue, Christian.”, mi rispose platealmente il vecchio satiro.
Era il posto più strano che avessi mai visto. Semidei in armatura si allenavano nella lotta; un centauro, un tizio dalle gote rosse e parecchie ninfe (non chiedetemi come capii che erano ninfe) stavano brindando alla grande di coca-cola attorno ad un falò; c’era gente che scalava pareti verticali di roccia che si scuotevano come in preda a terremoti e sprizzavano sbuffi di lava liquida.
Rimasi un attimo senza fiato. Per lo stupore, soprattutto, ma anche perché avevo un attimo i neuroni in sovraccarico dalle novità.
Il centauro mi vide arrivare e si alzò sul suo corpo equino. Camminò lentamente verso di me e disse: “Benvenuto. Questo è il Campo Mezzosangue, il rifugio dei semidei.”
“Oh, fantastico, fino a qua c’ero arrivato, che ero un semidio. Ma si può sapere figlio di chi?”
“Beh, quello si vedrà tra breve, tranquillo. Nel frattempo …”, disse adocchiando un semidio, “Nathan, ti dispiacerebbe accompagnarlo alla casa 11?”
“Ma perché sempre io? Quantomeno datemi un incarico ufficiale! Che ne so, “addetto al benvenuto matricole”!”
“Vai.”, mi incoraggiò Arthur con una pacca sulle spalle. Seguii docilmente Nathan (che sembrava chissà perché un po’ incazzato) verso un ammasso di costruzioni tutte diverse fra loro. Mi portò verso una casa piuttosto sgangherata, mal dipinta e quant’altro. “Casa dolce casa”, risposi con ironia fra me e me.
Deposi, in una stanza delle dimensioni di un sottoscala, le mie cose. Dopodiché, Nathan, sempre lievemente scocciato, mi fece cenno di seguirlo. Uscimmo dall’ammasso di case tutte diverse e arrivammo in un edificio con forge e magazzini d’armi, ovverosia l’armeria. A quanto pare, dovevo scegliermi un’arma.
“Lancia?”
“No …”
“Ascia?”
“No.”
“Mazza chiodata?”
“No!”
“E allora cosa cavolo vuoi?”, mi rispose stizzito.
“Non ce l’hai una spada, scusa?!”
“Ah, potevi dirlo subito!”
Frugò un po’ e prese una lama, lunga quasi 90 cm (alla faccia della spada!), di un metallo color verde acqua che scintillava in maniera quasi attrattiva anche solo con i rimasugli di luce solare che filtravano dalla finestra.
“Prendila.”
La presi in mano. Mi aspettavo che 90cm di lama pesassero un’accidenti, e che sarebbe stata un’impresa menare fendenti con un’arma simile. Invece, sembrava molto più leggera di quanto pensassi. Certo, avevo sempre bisogno di due mani per afferrarla, ma ce la facevo agevolmente.
“Non giocarci troppo, Chris.”, mi disse Nathan, vedendomi menare fendenti al vuoto.
“E’ così leggera e maneggevole …”, risposi ammirato.
“Bronzo celeste, un metallo divino. Leggerissimo, ferisce solo mostri e dei, ma non i mortali, quindi non rischi di ammazzare i passanti per sbaglio, disintegra i mostri con una ferita ben assestata, facile da forgiare, eccetera, eccetera, eccetera …”, disse con aria adorante.
“Ehi, Nathan, tu di chi sei figlio?”
Sorridendo, rispose: “Casa 9, Efesto, dio dei fabbri.”
Mentalmente, mi chiesi di chi fossi figlio.



Nathan mi fece tornare alla realtà con un cenno che mi invitava a seguirlo. Poggiando la spada sulla spalla gli chiesi: "Ehm, quando si mangia? Avrei anche fame!". Nathan si girò, stranamente calmo e rispose: "E’ appunto a pranzare che stiamo andando, se sua maestà ha un po’ di pazienza, magari!"
Sbuffai e lo seguii fino ad uno spiazzo con falò e diverse panche. Alcune panche erano gremite di persone, altre erano assolutamente vuote. Mi sedetti su una panca di quelle vuote.
"Ma sei scemo?", mi sgridò Nathan. "Quella è la panca di Era! Tu sei figlio di Era? No, Era non fa figli! Allora alzati!"
Mugugnando maledizioni in greco antico, Nathan mi condusse alla panca più gremita in assoluto, la numero undici, quella di Ermes, dove si stava tanto stretti che avevo mezzo sedere sulla panca e mezzo per aria.
Mentre lui si sedeva sulla panca numero 8, chiesi: "Ehm, sono figlio di Ermes?"
Nathan fece un'espressione esasperata, come per dire "ma chi me l'ha fatto fare?"
"No, semplicemente la panca di Ermes accoglie tutti quelli che non si sa ancora di chi siano figli. Chiaro, campione?"
"Sì, mr. Simpatia", gli risposi.
Chinai il capo verso il piatto ma non feci in tempo a mettere in bocca il primo boccone che Nathan mi blocco e riprendendomi disse: "Ma è possibile che ti devo dire tutto io?".
Sbuffai sonoramente e passandomi una mano in faccia gli dissi: "Che ho fatto ora? Respirato troppo ossigeno?"
"No, caro il mio clown, dovresti tipo alzare il deretano e sacrificare del cibo a tuo padre nel falò" mi rispose.
"Ok, ma io non so chi sia mio padre!" gli disse alterandomi.
"Pronto? Nathan chiama imbecille! E’ troppo difficile dire "A mio padre vada questo sacrificio?""
Imbarazzato per non averci pensato mi alzai lentamente dal mio posto e recandomi verso il falò sacrificai la prima cosa commestibile che mi capitò sotto mano – una coscia di pollo fritto – e dissi: "Chiunque sia mio padre, a lui vada questo sacrificio"; mi girai e aggiunsi a bassa voce "E magari si faccia sentire".
Mi accorsi di avere una fame pazzesca. Mi feci un panino a tre - quattro strati con formaggio emmenthal fresco, pomodoro appena tagliato eccetera eccetera, e condii il tutto con salsa greca allo yogurt. Dato che la panca era sovraffollata e stavo decisamente scomodo, decisi di alzarmi e mangiare in piedi.
Diedi un morso al panino. Era buonissimo, ma era decisamente troppo alto; uno schizzo di salsa allo yogurt partì e andò ... dritto dritto sulla maglietta di Nathan. "Ops", pensai.
Nathan mi guardò con occhi di bragia, ribaltò il vassoio pieno di cibo nel falò e si alzò con veemenza.
"Ehi, ma che cavolo guardi? Il culo delle ninfe? Mi hai rovinato la maglietta dei Metallica, pezzo di cretino!", mi disse, sempre più infuriato.
"Ehm, scusa ...", provai a difendermi io.
"Scusa un accidente!", disse, paonazzo dall'ira. "Presentati alle 15:00 al campo allenamento; ti sfido a duello!"
Capii subito di essermi cacciato in un guaio. Deglutii a vuoto, mi girai e guardai che tutte le panche chiacchieravano sommessamente; inutile chiedere l'argomento.



Controllai l'orologio. Erano le 15:00.
Nathan arrivò. "Scusa, sei arrivato in anticipo e ti ho fatto aspettare? Ci tengo sempre a spaccare il secondo!"
Sembravamo Davide e Golia. Beninteso, Nathan era Golia, io ero Davide. Ma dubitavo che Nathan sarebbe crollato con un sassolino scagliato in fronte.
Mi tremavano leggermente le ginocchia. Nathan impugnava un'immensa ascia bipenne con le lame di due metalli differenti. Con l'armatura, era un colosso più di quanto non lo fosse senza.
"Prometti di non uccidermi?", chiesi con un fil di voce.
"Uhm, fammi pensare... No. Nell'agenda di oggi non c'è scritto 'abbi pietà'."
Mentre Nathan, praticamente in bersek, mi caricava brandendo l'ascia, io deglutii di nuovo a vuoto e mi preparai a parare. "Se vinco, ricordatemi di sacrificare una coscia di pollo ciascuno ad ogni dio del Pantheon."
L'ascia di Nathan cozzò contro il piatto della mia spada, producendo scintille del colore dell'acciaio e del bronzo celeste. Comunque il colpo di Nathan mi fece retrocedere, era dannatamente forte! Ebbi come un fremito d'istinto e provai a colpire Nathan con la spada. Inutile, Nathan parò fulmineo. Mi resi conto che era una battaglia persa in partenza.
Nathan mi caricò a tutta velocità, e nel tentativo di parare, mi cadde la spada di mano. Ero anche disarmato, fantastico.
"Sei mio!!", urlò Nathan, e alzò l'ascia. La calò, diretta verso la mia testa. Per puro istinto - tutt'ora non me ne capacito - presi l'ascia e provai a bloccarla stringendola fra le mani.
Nathan però continuava a spingere sull'asta dell'ascia, e non avrei tenuto a lungo.
"Fantastico, sto per morire ucciso da un semidio metallaro.", pensai.
"Basta, Nathan!!", urlò una voce alle mie spalle.
"Non ti impicciare!"
Mi girai; era una ragazza incredibilmente bella. Figlia di Afrodite, dedussi all'istante. Quella tirò fuori dalle tasche un porta-ombretto. "Ma che cavolo fai? Non è l'ora del makeup!", le urlai. Quella prese due pennellini dal porta-ombretto. Prima che potessi parlare, diventarono due pugnali gemelli. Provò a pugnalare Nathan alla schiena; quello strappò l'ascia dalla mia presa e si parò con quella, fortunatamente senza mutilarmi le dita.
"Basta così." Un'altra voce, maschile, stavolta. Cos'è, una riunione dei miei salvatori? Beh, non che mi dispiaccia, ma quantomeno davanti, non alle spalle! Mi girai. Era Chirone, e aveva uno sguardo serio, intenso, penetrante e vagamente omicida, come un genitore mentre fa la ramanzina a un figlio che l'ha combinata veramente grossa.
"Nathan, saresti così gentile da smetterla? Non è una cosa carina, cercare di uccidere i nuovi arrivati."
"Perché, chi non è matricola si può allegramente sbudellare?"
La ragazza figlia di Afrodite rise.
Nathan diede a Chirone uno sguardo falsamente afflitto, proprio come i bambini che dicono scusa ma segretamente pensano di non star facendo nulla di male, e se ne andò.
Io ero seduto col sedere a terra. La ragazza mi si avvicinò.
"Piacere, mi chiamo Louise Westwood. E tu?", mi chiese, con un sorriso rassicurante.
“Christian, Christian Derflinger.”
“Va bene, Christian, nulla di rotto? Tagli, ferite?”
Stavo per dire “Nulla” quando appoggiai le mani al terreno e mi accorsi che così non era; avevo le mani zeppe di dolorosi tagli.
“Oh, capito.”, disse lei. “Vieni, ti porto in infermeria.”



Entrammo nell’infermeria. Come al solito, l’aria puzzava di medicine ed erbe, i letti erano candidi ed Esculapio badava ai pazienti; o per meglio dire, alla paziente. Ce n’era una sola, con un braccio fasciato all’altezza dell’ascella.
“Oh, salve.”, mi salutò il dio dei medici con la sua voce affabile e affettuosa. “A cosa devo la visita? Immagino che non siate qua per cortesia.”
“Immagini bene, Esculapio”, gli dissi. “Questo qua si è tagliato le mani in uno scontro.”
“Sempre a scontravi, voi semidei … Vabbé, vediamo cosa possiamo fare per te.”
Prese una valigetta e vi frugò dentro. Prese una bottiglietta con un fluido verde torbido e un’altra con un denso fluido di colore dorato che assomigliava vagamente a tè caldo con il miele, più un fagottino.
“Immergiti le mani in questa”, disse, indicando la bottiglia verde, “E’ infuso di erba panacea diluito al 6%. Normalmente l’erba panacea cura qualsiasi cosa, morte inclusa, se usata in foglie, e comunque Zeus ne ha proibito quest’uso, ma ho voluto comunque aggiungere un po’ di nettare ed ambrosia”, disse, indicando prima la bottiglietta col liquido simile a tè e poi il fagottino.



Andai nella casa di Ermes e mi feci dare qualcosa per immergere le mani nell’infuso; mi diedero una fondina per torte, e sinceramente non volevo chiedermi da dove venisse. Misi il liquido nella fondina, e vi immersi le mani. All’instante, sentii una sensazione di scioglimento, come se le mie mani fossero fatte di cera e le avessi appena messe dentro il falò del pranzo. Poi, questa strana sensazione passò, e lasciò spazio ad una sensazione di benessere e relax come quando entri nella vasca da bagno con l’acqua calda al punto giusto.
Tolsi le mani dall’acqua: erano perfettamente guarite. Nessuna cicatrice, erano addirittura lisce come se avessi usato una crema di bellezza.
Presi la bottiglia con il liquido dorato e versai il suo contenuto in un bicchiere; ce n’era poca, quindi il bicchiere non fu pieno nemmeno a metà. Mi preparai al saporaccio delle medicine, dolciastro, con un retrogusto amaro come la fiele. Invece, la mia bocca fu inondata da un sublime sapore di … coca cola ghiacciata. Quando staccai le labbra dal bicchiere, sorpreso, mi sentivo rinvigorito. “Nettare”, pensai, “il cibo degli déi. Nessuna sorpresa che gli piaccia tanto.”
Adocchiai il fagottino. Dentro, c’era una specie di pezzetto di cioccolata. Sembrava incartata con uno strato ben messo di carta dorata come le uova di pasqua. Provai a scartarla, e mi resi conto che non era un involucro, era davvero dorata. Pensai che era ambrosia, e preparandomi a un sapore sublime, la misi in bocca, e non fui deluso. Il sapore della pizza margherita più saporita di sempre si abbatté sulle mie papille gustative come uno tsunami si abbatte su una costa. Ero in estasi.



“Chirone, c’è una cosa che vorrei chiederti.”, dissi.
“Dimmi pure, Robert.”
“Nostra madre..”
“Cosa c’è? La vuoi sentire? Sei preoccupato per lei?”
“Sì, la vorrei sentire. Sì può?”
“Certo.”, rispose calmo Chirone.
“Grandioso!”, disse Austin.
“E come?”, chiesi io.
“Mai sentito parlare di iPhone?”
“iPhone? Non sono dei cellulari di ultima generazione?”
“Oh, in questo caso la “i” sta per “Iride”, non per “intelligent”. Iride, la dea messaggera dell’olimpo, dea dell’arcobaleno.
Tirò fuori dal taschino della maglietta un coso che effettivamente assomigliava parecchio ad un cellulare, più una grossa moneta d’oro. Armeggiò coi tasti del cellulare. Quella che sembrava la fotocamera si aprì e spruzzò acqua. Poi, una luce al led si accese, e nella nuvoletta d’acqua nebulizzata si creò un piccolo alone d’arcobaleno.
“Iride, dea dell’arcobaleno, accetta la mia offerta. Mostrami Dioniso, al Campo Mezzosangue.”, disse Chirone, e buttò la moneta d’oro nella nuvoletta arcobaleno. Quella scomparve nel nulla. Nell’arcobaleno comparve il volto di Dioniso, completo di gote rosse e lattina di coca-cola.
“Oh, sei tu, Chirone? Cosa vuoi? Perché mi stai chiamando via iPhone? Disterò si e no cento metri …”
“Niente di che, signor D. Dovevo solo far vedere a dei nuovi arrivati come si fa.”
“Bah!”, disse Dioniso. Chirone sventolò una mano, e la nuvola arcobaleno si dissolse nell’aria.
“Beh, adesso sapete come si fa.”, ci disse con un sorriso. “Tenete, due dracme d’oro”, ci disse, tendendoci due monete uguali a quella usata prima.
“E per gli iPhone?”, chiesi.
“Fatevi dare un prisma da quelli della casa numero 14.”, ci rispose.



Dopo esserci fatti dare due prismi dai figli di Iride – che gentilmente ce li regalarono – andammo ognuno alla propria stanza. Io, alla casa di Hypnos, Robert alla casa di Apollo.
Chiusi la porta della stanza, presi il prisma e lo misi accanto ad una fessura della finestra dalla quale filtrava la luce del giorno. Come previsto, la luce si scisse in un arcobaleno.
Dissi “Iride, dea dell’arcobaleno, accetta il mio sacrificio. Mostrami Samantha Neword, a New York.”
Mia madre stava cucinando. Dall’arcobaleno, la vedevo di spalle. Dissi “Mamma!”, e lei si voltò.
“Austin! Cielo, dove sei?”
“Sono qui, mamma!”
Finalmente notò l’arcobaleno che incorniciava la mia immagine.
“Santo cielo, come …?”
“Chiamata-Iride, mamma. Lascia perdere.”
“Iride?...”, la sua espressione si scurì. “Hai scoperto tutto, vero?”
“Sì. Allora tu sapevi tutto. Sapevi chi era mio padre. Fammi capire, pensavi di tenermelo nascosto per sempre?”
Mia madre sembrava terrorizzata. “Tu non mi capisci! Non hai idea che dolore sia avere un figlio e sapere che potrebbe morire da un momento all’altro, essere vittima dei peggiori abomini del mondo, costretto a lottare per sopravvivere! Accanto a me tu eri al sicuro!”
Improvvisamente, mi sentii un fuoco dentro, come se in fondo al mio cuore ci fosse stata un’esplosione. Rabbia, allo stato puro. “Se non l’hai capito i mostri mi avrebbero trovato comunque! E saresti potuta finirci di mezzo tu!”
“Ma io ti avrei anche … difeso …”, disse lei. Stava per scoppiare a piangere, aveva la voce rotta. Ma onestamente, a me non importava molto.
“Sei una mortale!!”, urlai. “Lo vuoi capire? Non sei capace di difendermi! Ed è meglio se … è meglio se mi stai lontana!!”
“No!!”, urlò lei. “Non voglio!”
“Mi dispiace.”, dissi. Stavo iniziando a piangere anch’io. “Non voglio che ti venga fatto del male.”
Tolsi il prisma dalla finestra. L’immagine di mia madre scomparve. Mi gettai sul letto e iniziai a piangere in silenzio.



Voi non avete mai incontrato mia madre, vero?
Beh, allora vi comunico che la signora Claire Shane è un piccolo miracolo di bontà umana. E una piccola catastrofe di sbadataggine, ma sono dettagli.
Illuminai con una torcia il prisma, e la luce della torcia venne scissa in un arcobaleno.
L'immagine di mia madre mi comparve davanti, completa di lunghi capelli color paglia, mani dalle dita lunghe come solo quelle di una pianista possono essere, e il suo volto che sembrava di porcellana fine.
Notò subito, senza che parlassi, cosa stava succedendo.
Cacciò un urletto, poi vide che ero io e si ricompose.
Mi salutò con una mano. Sembrava contentissima, ma non il genere di contentezza di qualcuno che ha appena ricevuto un regalo, era più orgoglio, ecco. Era contenta, ma sembrava che avesse gli occhi che navigavano in un pesante strato di lacrime che li facevano luccicare. "Ciao, Robert."
“Ciao, mamma.”
Anche io mi stavo sciogliendo come burro al sole. E’ sempre una cosa bella, rivedere propria madre, o qualunque altro parente che adori, dopo tempo.
“Come …?”, iniziò a chiedere.
“Iride, la dea messaggera dell’Olimpo, dea dell’arcobaleno. Figo, no?”
"Altro che cellulari", ridacchiò lei.
"Già" dissi io, sfoderando un sorriso. Era la prima volta che mi sentivo così da quando ero arrivato al campo. Le spiegai la situazione, che ero al campo e stavo bene, un po' ammaccato dopo la corsa, ma vivo e vegeto. Non le disse che avevo armi, probabilmente l'avrebbe presa molto male, visto che lei è sempre stata contraria alla violenza. Cosa vi aspettavate, lacrimoni in diretta, tragedie genitoriali? Beh, rimarrete delusi, perché la chiamata si risolse in un “Sto bene” “Sto bene anch’io”. Meno male.



Angolo dello scrittore:
Oh, wow! Non avrei mai pensato di avere un angolo dello scrittore. Innanzitutto, devo dire che questo capitolo ha subito ritardi perché aspettavo delle altre recensioni, che non sono arrivate. Ora, andiamo avanti con la storia, così se non altro avrete qualche altro stimolo!

Ringrazio tantissimo Madama Pigna, che ha commentato, ed Ailea Elisewin e Electre_the_Demigod che hanno aggiunto questa storia ai loro preferiti.

Il quinto capitolo arriverà domani. (E' già scritto, così come anche il sesto e praticamente il settimo, solo che non voglio andare troppo veloce. Sì, sono strano.)
  
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