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Autore: ChiiCat92    26/09/2012    4 recensioni
"Credo di essere morta.
Dico “credo” perché vorrei non esserne tanto sicura.
Però è così: sono morta.
[...]" tratto dal Prologo
ATTENZIONE: la storia non contiene credenze religiose, tutto ciò che vi è scritto è pura fantasia atta a dare forma e scorrevolezza al racconto; vi sono presenti elementi autobiografici.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Tom Kaulitz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- 23 -

 

Io sono.

Da qualche parte.

Io sono da qualche parte.

Un cuore.

Un cuore batte.

Il mio?

È piccolo, minuscolo.

Ma batte, ha la forza per farlo.

Perché?

Soffre.

Non dovrebbe soffrire. Non dovrebbe “essere”.

Però è, esiste, sussiste. Da qualche parte.

Allora è davvero il mio cuore.

Non posso muovermi. Non posso vedere. Non sento niente.

Un ovattato calore mi avvolge, il calore di un nido, l'abbraccio di mia madre.

Io sono. In questo battito continuo, in questo dilatarsi di piccole contrazioni, io sono.

Non so cosa sono, ma devo essere qualcosa. Lo sento.

Non ho occhi, non ho orecchie, non ho corpo, non ho niente che non sia il pulsare cocciuto di questo cuore. È caldo.

Perché sono qui? Dov'è “qui”? Come ci sono arrivata?

Sono sola, ma non ho paura. Qualcuno da qualche parte sa che sono qui. Si prenderà cura di me. Perché io gli ho affidato questo cuore, e sa a chi portarlo.

 

*

 

Quando era partita, era consapevole del fatto che si sarebbe voluto ben più di un giorno per riuscire a fare quello che doveva fare.

Ma essere al punto di non avere niente in mano la scoraggia tanto che non è più sicura di essere nel posto giusto al momento giusto.

In tasca stringe il ciondolo. Non può arrendersi adesso. Lei glielo ha affidato per una ragione: perché se le succedesse qualcosa lo portasse a lui.

Strizza gli occhi e manda via le lacrime con un gesto stizzito della mano.

Non lo deve fare per se stessa, se stessa viene dopo, adesso lo deve fare per lei. Altrimenti non avrà avuto senso tutto quello che ha fatto fin ora.

Infila la giacca e prende la sciarpa: anche oggi si prospetta una giornata gelida. Gelida come il suo cuore e come tutte le sue lacrime, gelida come la sua anima da quando lei se n'è andata.

Forse sta solo inseguendo il suo bisogno ossessivo di sentirla ancora accanto a sé, gettandosi in una ricerca senza speranza, un viaggio senza meta. Forse provando a realizzare il suo ultimo desiderio si sentirà meno in colpa per essere arrabbiata con lei.

Lei l'ha lasciata sola, l'ha abbandonata in quel mondo orribile quando la sua presenza era l'unica cosa a farla sentire bene.

Si sente un mostro a provare così tanta rabbia, ma a volte se ne lascia sopraffare e allora piange, piange per la sua perdita, piange per il dolore, piange per egoismo, piange per rammarico.

Non riesce a credere di essere così cattiva.

Chiude la porta a chiave uscendo.

Kevin è già sveglio e zampetta in giro come un piccolo pulcino facendo una dolce confusione da bambino che non è sgradevole all'orecchio, anche se Courtney continua a scusarsene.

Passando gli accarezza i capelli scompigliandoglieli e lui le fa un bel sorriso.

Sua madre è a seduta in cucina che sistema il tavolo per la colazione.

- Goodmorning. -

Le dice, e un'altra serie di parole che lei riesce a stento a capire, anche se ormai si sta abituando alla fluente parlata della padrona di casa.

- Thank you, I don't wanna do breakfast, I'm leaving now. -

Le risponde, pronunciando bene tutte le parole, come se anche solo sbagliarne una potesse farla incappare in qualche terribile fraintendimento.

- Oh, ok...so have a good day! -

In risposta, Sonia le sorride e le fa un cenno con la testa.

Stringe bene al collo la sciarpa ed esce al gelo di quella mattina.

Il cielo è un manto grigio opaco, piatto, come l'Oceano su cui da la piccola casa.

Marina del Ray è ghiacciata, le scarpe scricchiolano sull'asfalto e il fiato di condensa nell'aria.

Sonia rabbrividisce, ma non tornerebbe al caldo del suo letto per niente al mondo. Quando non sentirà più i piedi e le mani, quando le gambe le faranno male, allora tornerà indietro. Non un attimo prima.

Cammina speditamente verso l'entrata della metro.

Nonostante siano solo le otto del mattino c'è già un bel via vai nei sotterranei della città.

Sonia non ha mai visto tanta gente tutta in una volta, soprattutto tanta gente straniera tutta in una volta.

Sapere di essere sola in quella enorme città le fa venire i brividi.

Come potrebbe mai essere così ottimista da pensare di trovarlo? È il classico ago nel pagliaio, e non aveva mai provato a cercare in un pagliaio così grande.

Non avrebbe mai imparato come funzionava la metropolitana. C'erano cinque linee di treni sotterranei, e una esterna, e tutti i binari correvano intrecciandosi tra loro e facendo del sottosuolo di LA un gruviera stagionato.

Sonia si ferma davanti alla cartina e seguì con il dito la linea verde, che attraversa Marina del Ray fino Norwalk (di cui lei non conosceva l'ubicazione).

Deve scendere a metà percorso per prendere la linea rossa che arrivava a Hollywood. Questa mattina vuole cominciare da lì.

Fa il biglietto giornaliero come tutti i giorni da quando è arrivata e si butta nel traffico del mattino.

Spintonando e infilandosi nei buchi entra nel trenino super affollato di pendolari che vanno in centro a lavorare e studenti che stanno cercando di andare a scuola, controvoglia.

Non sa perché, ma ha una strana sensazione. È sempre stata attenta alle sensazioni che prova, spesso e volentieri non sbagliano. Ma cosa vuol dire questa in particolare, davvero non lo sa.

È un senso d'oppressione al petto, è essere guardata da occhi invisibili, è un disagio crescente.

Il suo sesto senso vuole avvertirla di qualcosa, ma cosa? A cosa deve stare attenta?

Riesce a trovare un sedile vuoto e si siede, la sua fermata è la decima, passeranno un paio di minuti.

Si regge, il treno sobbalza in curva, lanciato a velocità frenetica.

Non riesce ad interessarsi al via vai di persone. Non si rende neanche conto della persona seduta al suo fianco.

Rispetto alla temperatura esterna lì dentro si soffoca come in un forno, nonostante l'aria condizionata che dovrebbe rendere l'ambiente più confortevole. C'è un'accozzaglia di profumi, effluvi umana di diversa natura mischiati al dolce pungente dei cosmetici.

Qualcuno tossisce o starnutisce. Gli studenti fanno capannello tutti stretti intorno a un sostegno per discutere e ridere prima di passare tutta la giornata seduti ai banchi di scuola.

Gli occhi di Sonia scivolano qua e là, senza soffermarsi su niente in particolare. Non ascolta neanche la voce elettronica della signorina che annuncia le fermate, tanto non capirebbe comunque.

Sbuffa, alza lo sguardo sulla mappa delle fermate. In America funziona diversamente, il che le fa pensare che l'Italia sia un paese di trogloditi. Mentre nelle metropolitane italiane la mappa è un semplice adesivo attaccato in alto sulle porte, qui in America la mappa è elettronica, lucine gialle indicano la posizione del treno sulla linea e la fermata imminente lampeggia di verde. Cose che lei non avrebbe neanche potuto immaginare.

La sua fermata comincia a lampeggiare di verde.

Stringe al collo la sciarpa e si alza, chiedendo scusa per farsi strada tra i corpi appiccicati della gente.

Quando è fuori il treno le sfreccia alle spalle a una velocità da capogiro; il vento le solleva i capelli e la costringe a socchiudere gli occhi.

Sospira, si sente già a pezzi. I piedi le fanno male, le ossa le fanno male, il cuore e l'anima le fanno male, ma vuole comunque andare avanti. Fermarsi adesso vorrebbe dire gettare la spugna, e lei aveva sempre ripreso le parole di Lennon dicendo che se non finiva bene, non era ancora finita.

Ora, però, come può finire bene? Sarebbe potuto finire bene in un Universo Parallelo in cui lei era ancora viva ed erano insieme a LA, non in questo Universo dove lei era morta e si ritrovava tra le mani il suo lascito grondante di sangue.

Cerca di trattenere le lacrime, ne ha abbastanza di piangere.

Lei non sarebbe stata felice vedendola piangere, soprattutto per colpa sua.

Deve essere forte, dimostrarle il bene che le voleva, dimostrarle che avrebbe mantenuto la promessa, solo per lei. Se le dovesse costare la sanità mentale, non le importa, purché arrivi dove vuole.

Si imbacucca per bene nella giacca e uscì dalla metro.

L'aria gelida di quella giornata le congela le lacrime negli occhi, facendole diventare tante piccole gocce di ghiaccio.

Nonostante il freddo (un freddo che Sonia non sentiva solo come sensazione fisica, ma anche spirituale), la città si muove e vive come se niente fosse. Con le mani e i piedi gelati forse, ma non si fermerà per questo.

La vita, in un modo o nell'altro, che sia nella sofferenza o nella felicità, non smette mai di muoversi, di andare avanti. E lei che avrebbe voluto solo un attimo per pensare a ciò che è successo, un attimo per riprendersi dal dolore enorme che ha trafitto la sua anima, si è trovata a dover correre dietro a quella vita che non avrebbe avuto pietà di lei, non le avrebbe concesso neanche un secondo tra un respiro e l'altro per fermarsi.

È questo forse a causarle il dolore più grande: sapere che per quanto lei possa soffrire, non potrà mai fermarsi.

Una folata di vento le gela il volto; si copre come può con la sciarpa e comincia a camminare.

Non sa neanche bene cosa spera di trovare, e se ancora spera in qualcosa. La speranza è morta quando la Morte si è presa un Angelo come lei.

È la prova che il mondo non è giusto, che la vita non lo è e neanche la morte.

Ciò che ora Sonia può fare è continuare a camminare, ancora e ancora, percorrere ad una ad una tutte le strade di quella città straniera, senza speranza, perché ormai non sa neanche più cos'è.

Quando pensa a lei a volte si sente abbracciata da una sensazione di conforto che dura giusto un attimo: il tempo di rendersi conto che lei non esiste più.

Va avanti solo con la forza della sua disperazione.

Stringe il ciondolo che ha in tasca.

Sa perfettamente che non le è dato sapere cosa contiene, e ricorda ancora le parole che lei riservava alle persone impudenti che provavano a leggerne il contenuto: “questo ciondolo è per la persona che amo, per nessun altro. Se non sarà lui ad averlo, lo porterò con me nella tomba”. E l'aveva resa la sua ambasciatrice, portatrice di un carico di cui conosceva l'importanza.

Lo tira fuori dalla tasca e lo osserva. Nient'altro che un piccolo cuore d'argento, con una rosa stilizzata incisa sopra; pieno di graffi, ma lucido e splendente come una stella. Esattamente com'era il cuore di lei. Bello e forte, ammaccato ma sempre brillante. Sonia lo tiene tra le mani e in qualche strano modo può sentire la presenza di lei nell'aria, come se quel cuore fosse l'unica cosa rimasta viva e vera del suo passaggio su questo pianeta.

Prima di scoppiare in un pianto a dirotto, lo infila di nuovo in tasca. Inghiotte le lacrime e riprende a camminare.

Non pensava che sarebbe stato tanto difficile, o almeno fingeva di non pensare che lo sarebbe stato. Sarebbe stato più semplice illudendosi. Solo che non sa quanto a lungo ancora può durare quest'illusione.

 

A mezzogiorno il Sole riscalda abbastanza l'aria per poter abbandonare la sciarpa e apre i primi bottoni della giacca. Ma il freddo insiste e nelle zone d'ombra da un palazzo all'altro soffia un vento gelido che entra nelle ossa.

Sonia non si è fermata un attimo. Quella città sembra sempre più grande ogni giorno che passa, come se qualcuno avesse allargato i suoi confini.

Ci sono sempre strade nuove, nuove traverse, edifici e luoghi dove ancora non è stata. E non può andarsene senza prima averli visti tutti.

Si chiede se quel suo viaggio avrà mai fine.

Non le sono rimasti molti soldi, e se non comincia a lavorare non avrà neanche più il permesso di soggiorno.

Sembra che tutto sia contro di lei, irrimediabilmente.

Però questa volta deve farcela, almeno questa volta.

Cammina soprappensiero, percorrendo una strada nuova.

Sono due giorni che non mangia, non ne ha né la forza né la voglia. Il freddo la fa sentire debole e lo stomaco si attorciglia su se stesso, quasi non avesse trovato altra soluzione che mangiarsi da solo.

La testa le gira per un attimo e la vista le si appanna.

Si scontra contro qualcosa, o qualcuno. Non riesce neanche a chiedere scusa per quanto si sente debole.

Sente il suo corpo cedere. Alla fine è successo: anche il suo corpo l'ha tradita.

Decide che ormai non c'è nient'altro da fare che chiudere gli occhi e lasciare che sia.

Ho sbagliato ancora. Perdonami.”

Riesce a pensare prima di perdere i sensi.

 

Quando si rià la luce del giorno sta andando a morire all'orizzonte, le prime stelle si accendono in cielo e il freddo comincia a spazzare le strade della città, inclemente.

È rimasta svenuta tutto quel tempo, non se ne riesce a capacitare. Ha perso un intero giorno solo per la sua stupida debolezza fisica.

Scosta le coperte con foga, un urlo interiore le fa tremare l'anima.

Riesce a trovare le sue scarpe, la giacca e la borsa; recupera il tutto e si avvicina alla porta, con le lacrime di rabbia che già le inondano gli occhi.

Come ha potuto essere così stupida?

Prima di riuscire a mettere la mano sulla maniglia, la porta si spalanca, e lei quasi cade all'indietro per lo stupore.

Se potesse urlare lo farebbe, ma la voce le è morta in gola, come anche il fiato che comincia a mancarle. Si sente soffocare.

Non è possibile.” si dice; e non lo è davvero. È più di un miracolo, è qualcosa che non si sarebbe mai aspettata che succedesse.

Non riesce a trattenersi: scoppia a piangere e lo abbraccia, lo abbraccia tanto stretto che forse gli farà male, ma non le importa.

Vuole accertarsi che il suo corpo sia vero, e non un'allucinazione della sua mente dolorante e confusa.

Sente il suo profumo e il suo cuore battere come un pazzo nella gabbia toracica, sente le braccia di lui avvolgersi intorno al suo busto.

- Ti stavo cercando. -

Le dice, con quel suo inglese traballante e fintamente costruito.

Sonia non ha il coraggio di guardarlo negli occhi. Il cuore le si deve essere fermato, perché non riesce a sentire più niente.

- Mi...stavi cercando? -

Gli chiede, temendo di aver sbagliato la grammatica, ma a quel punto non le interessa più.

- Abbiamo tante cose di cui parlare. -

La invita a sedersi sul letto con un sorriso triste.

 

Bill le racconta tutto.

Le racconta tutto di Elisabetta. Pronunciare il suo nome, anche solo pensarlo, le fa male, ma ha bisogno di sentirlo, le fa credere che lei sia ancora lì da qualche parte.

E in effetti, prima era proprio lì, glielo sta dicendo lui.

E non è difficile da credere. Stranamente, sembra la cosa più normale di questo mondo, la cosa che lei si aspettasse che qualcuno le dicesse da un momento all'altro.

Non si sarebbe stupita sapendo che lei era ancora viva, in qualche modo che non era comprensibile per un Essere Umano (o forse sì) e che l'aveva accompagnata: sarebbe stato proprio da lei. La sua piccola. Con tutto quello che avrebbe potuto fare, con tutto il mondo, con tutto l'Universo a sua disposizione, aveva scelto di accompagnarla. È proprio da lei.

Lui continua a parlare, lentamente e scegliendo i vocaboli più semplici del suo vocabolario, per rendere il discorso comprensibile, per quanto sia complicato.

Non gliene sarà mai abbastanza grata, e vorrebbe avere la forza per essere felice di averlo incontrato in un caso così fortuito quando le sue ricerche non avevano dato frutti. Ma ha come l'impressione che tutto quello non sia un semplice caso, ma qualcosa che ha a che fare con il Destino. Che strano, lei in fondo non ci ha sempre creduto nel Destino, pur non volendolo ammettere, e ora si ritrova a pensare di essere invischiata in qualcosa di già deciso che non può essere in alcun modo alterato.

- Ti prego, ho bisogno di parlare con Tom. -

Gli dice soltanto, senza smettere un attimo di piangere. Ormai i singhiozzi si sono attenuati, ma le lacrime non vogliono saperne di smettere di scendere.

Lui annuisce lentamente; si sente in colpa. È successo tutto a causa sua, e non riesce a darsi pace. Per questo ha voluto con tutto se stesso cercare la persona di cui Elisabetta aveva parlato.

C'era qualcosa in sospeso che andava finito, qualcosa che premeva tanto per essere completato che niente e nessuno, neanche la Morte, avrebbe potuto impedire che succedesse.

La conduce nella sua stanza. Lui vi si è rinchiuso in religioso silenzio.

Le apre la porta e la lascia entrare senza aspettare che lui risponda: in ogni caso, anche se lui non volesse accettarlo, non può evitarlo.

Sonia guarda Bill, i suoi grandi occhi tristi, le lacrime che anche lui non ha smesso di piangere.

Tutta quella sofferenza deve avere un senso.

Deve avere un senso per tutti.

Si chiude la porta alle spalle entrando.

Tom alza subito lo sguardo su di lei. È come se avesse già capito.

Lei riesce finalmente a respirare, l'aria sa di pianto e rabbia.

È seduto su una sponda del letto da quella che sembra un'eternità, immobile come una statua; non si deve essere mosso per ore e ore, affrontando la notte insonne, aspettando quel momento che entrambi sapevano sarebbe arrivato.

Non dice nulla, solo continua a guardarla, cercando in lei qualcosa che non si sa spiegare, forse solo una conferma.

- Com'è successo? -

Dice all'improvviso, causando un doloroso strappo nell'anima di Sonia.

Non c'è bisogno che dica altro perché lei capisca a cosa si stia riferendo.

- L'aereo su cui si trovava ha avuto un guasto ed è precipitato. Ci sono stati solo una decina di superstiti. -

Lui non le lascia il tempo di riprendersi, nessuno le lascia quel tempo, quello spazio per poter guarire. La guarda con quegli occhi di una profondità sconvolgente. Sente che se rimarrà ancora a fissarli, potrebbe perdersi.

- Ha sofferto? - Sonia distoglie lo sguardo. Non può dirglielo e non può mentire. Lui capisce senza bisogno che un'altra parola esca dalle sua labbra. - Perché sei qui? -

Trova la forza di guardalo di nuovo, non sa dove, ma la trova.

Prende il ciondolo, lo stringe così tanto che si imprime la sua forma nel palmo.

Il laccio lungo d'oro bianco penzola nel vuoto quando mette il suo cuore tra le mani di lui.

- Si è sempre odiata per questo, ma non è mai riuscita a smettere. Ha provato a dare un nome alle sue speranze e al suo futuro. Era il tuo nome. Perdonala se ti ha amato senza conoscerti, se puoi, capiscila. Ma non odiarla ti supplico, ci ha già pensato lei a farlo. Non voleva nient'altro che poterti guardare negli occhi, solo per un attimo. Non ha mai preteso qualcosa di più, aspettava solo che passasse. Questo...ti spetta di diritto. Era ciò che più desiderava: potertelo mostrare. Non avrebbe avuto altro da offrirti che questo. Spero che lo accetterai. Ma non tormentarti, non avrebbe voluto che tu soffrissi, per niente al mondo. -

Sonia si morde le labbra, non riesce neanche più a vedere la figura di lui tra le lacrime che le riempiono gli occhi. I singhiozzi le mozzano il fiato. Finalmente può lasciarsi andare.

Cade in ginocchio, coprendosi il volto. Vorrebbe urlare, urlare fino a perdere la voce; ma il suo pianto rimane un silenzioso lamento.

Alla fine, ho mantenuto la promessa. Ho mantenuto la promessa Bubi, ci sono riuscita.” non riesce a smettere di piangere, non ha più voglia di tenere per sé le sue lacrime. Perché dovrebbe?

Non le importa più di cosa succederà da ora in avanti, ormai ha fatto quello che doveva fare, la sua vita ha un senso, non si sente più inutile, non si sente più un peso. Il dolore che da sempre le divora il cuore sembra sparito, potrebbe persino cominciare a guarire.

Anche Tom piange.

Si rigira tra le mani il minuscolo cuoricino, lo sente pulsare tra le dita, lo sente battere: le fievoli pulsazioni di una vita spenta.

 

Io sono.

 

Può sentirlo, vivere, è vivo.

 

Io sono.

Io sono qui.

 

È caldo, trema come un uccellino appena nato.

 

Il mio cuore batte.

È piccolo, minuscolo.

Ma batte, ha la forza per farlo.

Perché?

 

Tom lo stringe tra le mani come fosse la cosa più importante del mondo.

 

Non soffro.

Non soffro più.

Un ovattato calore mi avvolge, il calore delle sue mani, il suo abbraccio.

 

Ha paura di violare la sua quiete, ha paura di aprirlo e fargli del male, ha paura di maneggiarlo con troppa poca delicatezza e nuocergli in qualche modo.

 

Io sono. In questo battito continuo, in questo dilatarsi di piccole contrazioni, io sono.

Non so cosa sono, ma sono.

So perché sono qui.

So dov'è “qui”.

So come ci sono arrivata.

Non sono più sola.

Si prenderà cura di me.

 

Lo apre. Il ciondolo si divide perfettamente a metà. Al suo interno una frase scritta con mani tremanti ma precise.

Una lacrima, una sola, cade al suo interno.

 

Perché questo cuore gli appartiene.

   
 
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