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Autore: Eileen_Zero    26/09/2012    1 recensioni
Anoressia/bulimia. Rapporto con se stessi, con il futuro, con gli altri. Una storia...antica, si potrebbe dire.
Tutto è moribondo, tranne una passione sempreverde, ma cangiante. Una passione per un cantante: Renato Zero.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia antica
 



Mi chiamo L., ho 19 anni e ho finito da poco gli esami di stato. Con la maturità, dovrei abbandonare quell'instabilità dell'adolescente, riconoscere chi sono e cosa voglio. Dovrei, ma ancora non ne sono capace. Non voglio continuare a tenere la mano a Peter Pan, sia chiaro.

Sono una ragazza piuttosto razionale. Penso e ripenso. In molti potrebbero considerarlo un pregio. Ma al di là della classificazione in pregi e difetti, credo che quando la riflessione sovrasta l'azione o la parola, diventi...noiosa, misteriosa e che conduca all'immobilità, all'apatia. Non sono mai stata di tante parole e per questo che, spesso, sono costretta a fare i conti con la mia mente, i miei pensieri, con me. E' storica, certo, la relazione conflittuale con sé stessi. Nulla di nuovo. Tuttavia, non si è trovata spesso una via d'uscita, un contratto garbato e giusto che possa controllarla.
Devo decidere per il mio futuro, devo scegliere l'università. Sono uscita da un liceo scientifico, non posso certo sperare in un impiego lavorativo, soprattutto in un periodo come questo. Ma sono indecisa. Sono insicura. E quello che più ritengo che possa darmi stabilità, almeno interiore, è la freddezza. Non faccio sforzi a contenere le mie dimostrazioni di sentimenti o emozioni varie. Quando non ci riesco, non lo sopporto, perché mi rende debole e, soprattutto, mi fa apparire tale.

Con questa presentazione, spero non eccessivamente noiosa, ho fatto riferimenti alla mia insicurezza e alla mia voglia di "compostezza sentimentale". Ma nella mia quotidianità c'è un elemento disturbante, importante, così ricorrente da sembrarmi indelebile. Sto parlando della figura di Renato Zero. La sua musica mi accompagna sin da quando ero piccola. Ovviamente il mio interesse, allora, era piuttosto relativo. Ricordo, però, che passavo volentieri pomeriggi a vedere e rivedere concerti in videocassetta. Mi divertivo, poi, a inserire nel giradischi gli scandalosi LP di "Zerofobia" e "Zerolandia" che avevo trovato in giro per casa, mentre mia madre preferiva che li togliessi, perché diceva, con l'orecchio ormai abituato alla riproduzione pulita dei CD, che si sentivano male. Ma a me quel rumorio di fondo, tipico dei vinili, non turbava. Come non mi turbava l'immagine di quell'uomo che ora posso ben definire insolito, ambiguo, strano, pericoloso per il retto pensare di quegli anni. Sono contenta che non lo pensavo in quei termini. Sono contenta che non mi sia stato proibito. Può sembrare eccessivo, ma accadeva. Mia madre mi raccontò che sua zia faceva cambiare immediatamente canale alla TV quando Renato appariva nelle sue tutine attillate, perché era "vergognoso" far vedere un personaggio del genere nelle trasmissioni.
La sua musica mi ha accompagnato nella crescita, lo ascoltavo con costanza , ma non sapevo che da quell'inconsapevole interesse si sarebbe scatenata una passione così duratura. Si rese assolutamente colpevole il DVD del concerto "Figli del sogno" del 2004 che mio fratello aveva regalato ai miei genitori per Natale. Dal video riuscì a uscire e coinvolgermi qualcosa di assolutamente forte e inspiegabile, che non aveva nulla di "digitale". Da lì, riuscii ad andare al primo concerto nel 2006 e a segnare gli altri concerti a seguire come delle serate assolutamente particolari, magiche, travolgenti, tanto da sembrare di vivere, per qualche ora, in un altro mondo.

Renato scardina la mia idea di razionalità. Lui ne sarebbe fiero. Lui che parla di amore, di fede. E io, che non credo in Dio, che non credo nell'amore incondizionato, mi trovo ugualmente coinvolta e partecipe delle sue canzoni. Il complesso dell'arte di Renato è fantastico anche perché ha il potere di estraniare, di coinvolgere nelle esperienze che canta e che mascherano in uomini o donne, in innamorati o delusi, in amici o nemici, in padri o figli, in coraggiosi o scoraggiati.

Il fascino della sua persona lo esprimo spesso anche nei ritratti nei quali mi diletto qualche volta. Due dei quali, tra l'altro, glieli regalai. Era la sera del 16 maggio 2011 e tutti coloro che si erano procurati un pass con l'acquisto dell'ultimo DVD avevano la possibilità di incontrarlo per un autografo. Ci fu giusto il tempo di una firma, in effetti, e di incerte parole. Ma era comprensibile, considerando tutte le persone in attesa. Quando mi chiese il nome, gli risposi "Laura, mi pare", facendolo sorridere. Il ricordo, comunque, rimane piuttosto confuso e sbiadito e ancora più veloce di quanto non sia stato già di per sé. Come se non fosse accaduto davvero. Ma quella firma, che ogni tanto guardo e accarezzo, rimane lì.
Quello che mi lega a Renato è qualcosa di destabilizzante e, allo stesso tempo, di rassicurante. E' in grado di farmi respirare e togliermi il respiro, di rilassarmi, ma anche di farmi arrabbiare. Infatti, non si tratta di un amore cieco e totalmente appannato. Qualche tempo fa ho passato una "crisi", scatenata non ricordo da quale articolo di giornale che ha messo in dubbio la mia idea su di lui, formatasi nel corso degli anni. Ricorrevano domande come "E se predica bene, ma razzola male?", "E se il suo modo di essere e di fare fu davvero tutta una finzione, una maniera insolita di ottenere il successo?". Dopo quella "crisi" la passione non si è ridimensionata, ma, forse, si è solo trasformata, diventando più sana, più critica, più umana. Evidentemente, dev'essere cambiata e cresciuta con me. E questo non può che testimoniare quanto sia stata influente nella mia vita, quanto sia diventata quasi imprescindibile. Più che una passione...una "condanna" a vita!

Ho attraversato un periodo di tempo in cui non sentivo lo stimolo di ascoltarlo. A dirla tutta, iniziavo a non sentire più non solo il piacere di ascoltare musica, ma anche quello di disegnare, di ottenere voti abbastanza buoni a scuola e, soprattutto, di mangiare. Se non riuscivo a trovare soddisfazione nella scuola, nello sport (mi è sempre piaciuto giocare a calcio, ad esempio), in me, almeno volevo trovarla nella forma del mio fisico. Ma, ovviamente, non andavo bene agli altri. Da quando ho iniziato semplicemente a ridurre le porzioni (ancora nulla di drastico), si ripetevano nelle mie orecchie "Mangi troppo poco", "E che ti fa, mangia!", "E mica sei grassa", "Se anche c'è qualche kilo in più, che male c'è!". Non era una questione di "kili di troppo", ma semplicemente di stare bene con me ed essere, almeno fisicamente, come più mi piaceva. Ma forse chiedevo troppo. Avevo già osato tagliarmi i capelli corti, "troppo corti", giocare in una squadra di calcetto, "troppo da maschio". Cose che mi piacevano, ma erano..."troppo".
Poi, data la mia assenza di personalità, sono stata facilmente convinta a fare le analisi del sangue, ad andare dal medico. Sì, dovevo ingrassare. Lo sapevo da me, in fondo. Ma dovevo ingrassare il giusto. E invece no. Ho iniziato a mangiare tanto da risolvere e accontentare il desiderio di chi mi stava intorno. Ho preso in una settimana il doppio dei kili che il medico mi aveva suggerito di riprendere in più di un mese. Quel "troppo", sebbene ugualmente insano, era, però, accettabile. Nessun commento, nessun appunto. Così andava bene. Normale riprendere kili così velocemente. Invece, chiedersi se mi stava bene così, se stavo meglio, non è risultato normale. Mi fermo qui, però. Non voglio trasformare questo spazio in un confessionale o in una consulenza psicologica. Quella credo che la inizierò la settimana prossima. Il pensiero non mi piace assolutamente, perché significherà mostrarmi debole, bisognosa d'aiuto. Sono libera di scegliere se andare o meno, ma se dico che non mi va, allora mi viene data, sostanzialmente, dell'egoista che non vede che sta facendo male a sua madre, a suo padre, agli altri. Una libera scelta a senso unico, insomma.

E Renato in tutto ciò? E' speranza, travestimento, alienazione. E' sia paura che sfida. E' il permesso e l'opportunità di sentirsi liberi, di truccarsi, di vestirsi, passando oltre i giudizi e i pregiudizi.

Ha cambiato i modi di esprimersi e non lo conosco di persona, ma penso di poter dire di invidiarlo molto. Lo invidio per il coraggio, per la forza e per la voglia di riscatto che mi ha trasmesso, nonostante lo abbia conosciuto molto dopo gli anni "scandalosi" delle piume e delle paillettes. Quella, però, è un'ombra che si porta dietro sempre, anche dietro gli abiti eleganti, più "borghesi" degli ultimi anni.
Mentre continuo a scrivere penso e ripenso di cancellare tutto. Ho detto che sono di poche parole, ma ho parlato sin troppo e, soprattutto, sin troppo di me.

Ad ogni modo, ringrazio e mi congratulo con chi ha avuto la pazienza di leggere quanto ho scritto, "la mia storia". Anche se spero che in futuro sarò più certa che questa sia davvero "mia", più cosciente nel raccontare "la favola mia", per dirla con il titolo di una canzone di Renato.

Vi saluto

  
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