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Autore: SofiaAmundsen    26/09/2012    3 recensioni
Sta per suicidarsi, ma prima, ha qualcosa da dire a sua madre. E così le scrive una lettera. Una lettera che è una vita intera.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cara mamma, 
 
ti ho sempre chiesto di scegliere, o me, o lui. E tu ti sei sempre rifiutata di farlo, o almeno è questo quello che dicevi a me.
Ma adesso che sono qui, per ironia della sorte, tutto mi sembra più chiaro e capisco che è stato scelto lui, ma a scegliere non sei stata tu.
 
Non potevamo esserci entrambi, questo lo hai sempre saputo, in fondo. Il mondo non era abbastanza grande per l'odio tra un padre e una figlia, per l'odio tra me e lui. E l'universo è come la giungla, questo l'ho imparato, vale la legge del più forte. Io sono la bambina. Lui l'orco. Io sono la donna. Lui l'uomo. Io ero fragile. Lui era roccia. Ed è strano, perchè adesso mi sento incredibilmente forte, mi sento potente, coraggiosa, grande, sento che la scelta è nelle mie mani, e io scelgo lui, scelgo te, scelgo voi, scelgo di morire e abbandono la battaglia, perchè ho lottato troppo e so di aver perso. O di aver vinto, con il vento tra i capelli e gli ultimi ricordi che sfrecciano tra le lettere della parola suicidio.
 
Il vento tra i capelli, come quando andavo in altalena e facevo finta di essere felice.
Ti ricordi quando andavamo ai giardinetti, quelli nella piazza sopra a casa nostra? Quelli alla fine della salita ripida e brecciosa?
I giardinetti rossi. Li chiamavo così perchè tutti i giochi erano verniciati di rosso. C'era uno scivolo rosso, una girandola rossa e un'altalena rossa. Erano giardinetti piccoli, ma a me piacevano così tanto. E a te piacevo io, ancora. 
Facevo sempre un giro su ogni gioco, poi ricominciavo, così da non annoiarmi mai, e tu mi spingevi un po', o mi aiutavi a salire sullo scivolo, o mi guardavi dalle panchine sorridendo di una bambina paffuta nel suo cappottino, cucito da te, che si arrampicava sulle scalette rosse.
Poi hanno tolto l'altalena. C'erano pochi bambini in quella zona, non servivano dei giardinetti. Poi la girandola. Poi una panchina.
Poi, ce ne siamo andati noi.
 
Siamo andati via da quella casa che tu e tuo marito odiavate, quella casa di cui parli con disprezzo, tutte quelle scale, mai un posto in cui parcheggiare. Quella casa di cui io non ricordo niente.
Ho una fitta al cuore, ogni volta che la nomini, perchè penso che ci sei dovuta andare per forza, li, perchè è stato il meglio che hai trovato, nel poco tempo che hai avuto dopo aver scoperto di essere incinta, dopo aver scoperto di aspettare me.
Nomini quella casa e sputi odio e fastidio e io penso "ti prego, mamma, non dare la colpa a me, ti prego, non volevo", ma in fondo lo so che la colpa è mia, un incidente imprevisto e fastidioso come un polso slogato.
 
Poi ci siamo riandate, in quei giardinetti. Ma non era più la stessa cosa. Tu non eri più la stessa.
Era rimasto solo lo scivolo, arrugginito e sporco, e quasi tutta la vernice rossa si era scrostata e lasciava spazio al metallo freddo e grigio. Quel giorno aveva piovuto, ma poi un sole luminoso e caldo, come ora non ce ne sono quasi più, aveva asciugato tutto. Una piccola pozzanghera, però, rimaneva da ricordo della pioggia caduta e rispecchiava nell'acqua torbida il sole splendente, proprio alla fine della lastra metallica dello scivolo sulla quale il sole disegnava linee imperfette. 
Ero così delusa! E volevo scivolare per forza, nonostante la pozzanghera. Sono sempre stata così testarda, me lo dici di continuo, quelle poche volte che parliamo. Parlavamo.
Così ho deciso di scivolare lo stesso e ti ho chiesto di fermarmi prima di cadere nella pazzanghera, di prendermi al volo così non mi sarei sporcata. Te l'ho fatto promettere tante volte, almeno dieci, credo, perchè giá avevo cominciato a fidarmi meno degl'altri e più di me stessa. 
Solo quando ero stata sicura avevo iniziato a salire faticosamente le piccole scalette ed ero arrivata in cima, sentendomi un po' importante per avercela fatta da sola. Mi ero seduta, pronta per scivolare, e te l'avevo fatto promettere un altro paio di volte, per sicurezza.
 
«Pronta mamma?»
 
Ero stata io a chiederlo a te, non tu a me, come fanno i grandi prima di spingerti sull'altalena o farti volare sopra la testa, e forse era giá un piccolo segno del destino.
Tu hai annuito distrattamente e io, felice, mi sono spinta in avanti, con le manine paffute che sfregavano sui bordi ruvidi dello scivolo, ma quando è arrivato il momento, tu non mi hai preso.
É successo tutto in un minimo secondo, eppure ho avuto il tempo di pensare, come ti succede misteriosamente in quei momenti. 
 
Mamma, prendimi!
Mamma, ora!
Mamma, non ti dimenticare di me. 
 
Non mi hai preso e sono caduta nella pozzanghera, affondando suduta nell'acqua fino alla pancia. 
Era fangosa e sporca e ricordo quella terribile sensazione fastidiosa dei vestiti bagnati che mi si appiccicavano addosso e le mani marroni di quella melma, ma il vago bruciore di disagio che mi si era diffuso dentro non era stato per il fango o lo schianto, ma perchè tu mi avevi lasciata cadere.
Mi sono sentita tradita. Abbandonata. Persa. Sola. Ho sentito che tu non c'eri, non c'eri più, ho sentito che per me non c'erano le calde mani di una mamma a prendermi, ma il freddo e duro terreno. Ho sentito che non potevo piú fidarmi di te.
 
E ho iniziato ad urlarti contro, perchè io sono così, niente lacrime, solo denti e unghie da mostrare. Ma avevo voglia di piangere, di piangere per te, che non ti importava fossi bagnata, mi hai solo chiesto di mettere una busta sul sedile della tua macchina, per non sporcarla, e piangere per me, che avrei voluto una mamma che mi sollevasse tra le braccia e invece ne avevo una che si dimenticava di prendermi.
 
Ci siamo riandate in quei giardinetti, ma tu non eri più la stessa: già non ti importava piú di me.
   
 
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