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Autore: Carlos Olivera    26/09/2012    5 recensioni
Una storia nata dalla Round Robin Threads Of Fate, ed ambientata parallelamente ad essa.
E' trascorso un anno da quando Eric Flyer ha sconfitto Valopingius e fermato i piani di suo nonno, discolpandosi dalle accuse a suo carico ed ottenendo la qualifica di Hunter a tutti gli effetti.
Molte cose sono cambiate in questi 12 mesi, e anche lui un po', così sua madre decide di raccomandarlo al suo amico Kaien perché sia inserito nel progetto di scambio culturale che l'Accademia Cross si accinge ad iniziare. Eric vi si trasferisce con una cert'ansia, sia perchè nella scuola si trova la sua eterna nemesi, sia perchè alla Cross è determinata a studiare anche la persona alla quale tiene maggiormente al mondo, e che disgraziatamente attira i vampiri come le mosche con il miele.
Ma la tranquillità durerà poco. Suo nonno Augusto, infatti, non solo non ha rinunciato al suo disegno di creare con le sue mani la prossima tappa dell'evoluzione dei vampiri, ma non ha neanche dimenticato come Kaname, e soprattutto Eric, abbiano fatto naufragare miseramente il suo primo piano. Ma questa volta, Eric potrà contare su un gran numero di compagni ed alleati.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Dieci anni prima

Sud Est Asiatico

Al confine tra la Cina e Myanmar

 

La foresta tropicale che circondava e avviluppava una parte del confine tra la Cina e la Birmania era un luogo quasi completamente inesplorato, dimenticato da Dio e dagli Uomini.

Per centinaia e centinaia di miglia in ogni direzione, non un villaggio, una casa, una traccia di una presenza umana.

Eppure, secondo alcuni sedicenti storici, quello era uno dei luoghi dove, a saperle cercare, erano ancora presenti le tracce della Prima Civilizzazione, quella specie di mitica civiltà che stando a miti e presunte verità scientifiche aveva popolato la Terra prima dell’avvento dell’Uomo.

Solo favole per creduloni e sognatori, aveva sempre detto in coro la comunità scientifica mondiale.

Tutto quello che si poteva trovare in quell’intricato dedalo di liane, alberi, fiumi e montagne erano vecchie rovine del periodo degli imperi indiani e vietnamiti, ma nulla che si potesse neanche lontanamente collegare a questa fantomatica Prima Civilizzazione.

Eppure, non sembravano pensarla così di occupanti di quel grosso accampamento da decine di tende che, con l’autorizzazione di entrambi i governi, avevano dato il via ad una massiccia opera di scavo ai piedi di una bassa collina che sorgeva quasi nel punto esatto dove si trovava la linea di confine; se solo i cinesi e i birmani avessero saputo cosa si trovava realmente sotto a quel mucchio di terra, alberi e sassi, non si sarebbero fatti tutte quelle risate quando si erano visti offrire una cifra così considerevole per i semplici diritti di sfruttamento del terreno, che avevano concesso senza pensarci due volte.

Su tutte le tende capeggiava lo stemma della Fondazione Manovic, quel filantropo europeo di cui tutti parlavano, e all’interno del campo era un trionfo di scienziati, archeologi, e soprattutto operai.

Gli archeologi erano guidati da un professore britannico, il professor Martin Evans dell’Università di Monaco, persona gentile e autorevole, che da quella spedizione sognava di trarre la rivincita di tutta una vita spesa a farsi ridere dietro dagli ambienti accademici.

A differenza di altri, che sulla Prima Civilizzazione avanzavano le teorie più astruse e fuori dal comune, come dèi o alieni, lui sapeva; sapeva benissimo chi fossero stati i primi esseri intelligenti a camminare sulla Terra, e ora era sul punto di averne la certezza.

Quell’occasione non sarebbe potuta venire in un momento migliore; alla lunga le sue teorie lo avevano reso impopolare, e la sua cattedra non era mai stata così in bilico. Come se non bastasse, non riuscendo a reperire fondi per le sue ricerche e spedizioni, fino a quel momento infruttuose, era stato costretto più volte a provvedere di tasca propria, finendo in pochi anni per dilapidare il considerevole patrimonio di famiglia.

Poi, alla porta di casa sua aveva bussato una delegazione della Fondazione Manovic, che gli aveva fatto una interessante proposta; la decifrazione un antico codice bramino, e, una volta fatto questo, la guida e la responsabilità degli scavi sul luogo che quello stesso codice indicava come la Tomba del Quinto Re, Vipalcha.

Nel momento in cui aveva visto quel nome comparire dalle sabbie del tempo, una vampata di calore aveva scaldato il cuore del professore.

In tutti quegli anni aveva accumulato più materiale e informazioni sulla Prima Civilizzazione di qualsiasi altro studioso della storia, e sapeva che, secondo un mito comune a molte civiltà antiche, la Prima Civilizzazione, era stata retta nel corso della sua storia da cinque grandi sovrani, alla morte dell’ultimo dei quali la civiltà si era rapidamente sgretolata: Viracocha, Kokopelli, Amaterasu,  Valopingius e, in ultimo, Vipalcha.

E se il testo, il Bahī mūla, o Libro dell’Origine, diceva il vero, quella collina nascondeva in realtà il tumulo funerario di Vipalcha, che avrebbe confermato appieno le teorie del professore.

Erano stati molti mesi di attesa e speranza, quand’anche velati da una certa preoccupazione, e dal timore che fosse l’ennesima falsa pista, quando un pomeriggio, quasi per caso, uno degli operai si era sentito mancare la terra sotto i piedi mentre lavorava, precipitando per alcuni metri dentro un canalone nelle profondità della terra e ritrovandosi così, come per miracolo, di fronte ad un immenso portone di pietra, chiuso, sigillato e coperto di iscrizioni, tra le quali il cartiglio di un nome: Vipalcha.

La notizia era stata immediatamente inoltrata alla sede centrale di Zagabria, che aveva comunicato l’arrivo imminente del responsabile ai lavori.

Una mattina, quella prevista per l’arrivo del responsabile e l’apertura della porta, il professore sedeva nella propria tenda, impaziente ed ansioso come non mai, mentre osservava la foto della sua famiglia che portava sempre con sé. Raffigurava lui, la moglie e la figlia, all’epoca dell’ultima volta che erano stati insieme.

Carmilla era tutta sua madre: stessi capelli biondi, stessi occhi verdi. Da lui aveva preso solo una cert’aria sbarazzina e sicura di sé, quella che lui aveva sempre avuto prima che la crudeltà della vita gli venisse sbattuta in faccia togliendogli ogni speranza.

Ancora poco. Ancora da poco e sarebbe tornato da loro, coperto di gloria e di fama, ma anche pieno di soldi: 200.000 euro gli sarebbe valso il suo lavoro in quello sperduto angolo di Indocina.

«Professore!» disse d’un tratto uno dei suoi giovani assistenti, Fritz, entrando nella tenda «Il responsabile è arrivato!»

«Vengo subito».

Il professor Evans raggiunse il limitare del campo giusto in tempo per veder scendere a terra l’elicottero che trasportava l’inviato speciale del Conte Manovic, l’uomo che aveva permesso al suo sogno di avverarsi.

Come lo vide, ne fu sorpreso.

Sapendo chi e che cosa il conte fosse veramente, si meravigliò di veder comparire dinnanzi a sé un normale essere umano, per quanto di bell’aspetto, chiaramente allenato e di robusta costituzione; i capelli, biondissimi, erano piuttosto lunghi, gli occhi piccoli e marroni, il fisico ben scolpito. Non era croato o balcanico: probabilmente veniva dal Nord Europa, forse dalla Danimarca o dall’Olanda.

Non era da solo.

Con lui c’erano altri tre uomini, guardie del corpo forse, e loro di sicuro non erano esseri umani.

«Benvenuto.» disse il professore porgendo la mano «Signor…»

«Mi chiami semplicemente Michelle.» tagliò corto quello «Passiamo subito al sodo. L’avete trovato?»

«Sissignore. Mi segua».

Evans condusse dunque il signor Michelle ed i suoi uomini al limitare del grosso foro nel terreno che conduceva alla porta della tomba, che nel frattempo era stato allargato e dotato di una scaletta per poter salire e scendere comodamente.

«Se posso permettermi.» disse a Michelle mentre alcuni operai finivano di rimuovere i sigilli «Lei è un essere umano. Come mai riveste una carica così importante all’interno della Fondazione Manovic

«E Lei, allora?» replicò provocatoriamente il giovane

«Ho scoperto l’esistenza dei vampiri all’età di dodici anni, quando un Hunter mi salvò dall’aggressione di uno di loro.

Da quel giorno, scoprire quante più cose possibili su di loro è diventata la mia ossessione.

È evidente che i vampiri esistono sulla Terra da ben più tempo dell’Uomo, e che millenni prima che noi imparassimo anche solo ad intagliare la pietra loro avevano già raggiunto un altissimo livello di civilizzazione.»

«Corretto, professore. E questa tomba potrebbe custodire ciò che resta di quel sapere così antico e prezioso.

Non c’è che dire, una bella svolta per la sua carriera».

Dopo qualche istante, finalmente, anche l’ultimo sigillo cedette, e pur dovendoci mettere la forza congiunta di sei persone il portone poté essere aperto.

A quel punto il gruppo composto dal professore, il signore Michelle, le sue tre guardie e alcuni operai, torce alla mano, si avventurò nel tunnel, sotto gli sguardi sorpresi e un po’ preoccupati di chi rimaneva in superficie.

Ben presto le fredde pareti di roccia, intagliate ma spoglie, cominciarono a riempirsi di stupendi bassorilievi, disegni, raffigurazioni sacre e antiche preghiere.

Se illuminati dalle torce sembravano quasi brillare, risplendere di una tenue luce rossa, una cosa allo stesso tempo magnifica ed inquietante.

Il professore si sentiva in paradiso, come se niente al mondo potesse renderlo maggiormente felice.

«Mio Dio.» disse il professore «Questo sembra proprio un idioma sconosciuto. Non è bramino.»

«Questa è l’antica lingua dei vampiri.» osservò Michelle «È talmente antica che neppure loro ricordano più come vada pronunciata.»

«Incredibile».

Era già abbastanza per vincere più di qualche Premio Nobel, ma questo al professore e a Michelle non bastava; oro volevano scoprire per intero il segreto della tomba di Vipalcha, ed erano sicuri che se fossero andato avanti ci sarebbe riuscito.

L’esplorazione proseguì, e sembrava davvero che quella grotta fosse destinata a non finire mai. Michelle era ansioso più che mai di proseguire, ma il professore, rammentandogli che chiunque avesse costruito quella tomba non era certamente uno sprovveduto, lo aveva messo in guardia, consigliandogli di essere il più possibile guardingo.

E fu un bene, perché grazie a questo consiglio Michelle ad un certo punto si avvide in tempo di stare calpestando una specie di pulsante e riuscì ad evitarlo; il portatore che veniva dietro di lui non fu altrettanto scaltro, e prima che potesse essere avvertito un getto di fuoco spuntò fuori dalla parete e investì in pieno quel poveraccio, bruciandolo vivo nel giro di pochi secondi.

«Dobbiamo stare attenti, questo posto è pieno di trappole.» disse il professore mentre due uomini, trattenendosi a stento dal vomitare, coprivano i resti carbonizzati del compagno con una coperta.

La marcia verso il basso dunque proseguì, molto più attenta di prima; vennero evitate un altro paio di trappole, rispettivamente una selva di frecce e una seconda lingua di fuoco, e più se ne evitavano più i portatori diventavano inquieti. Qualcuno suggeriva timidamente di tornare indietro, e lo stesso professore ad un certo punto disse che forse era la cosa migliore da fare, ma Michelle non ne aveva la benché minima intenzione.

All’improvviso uno dei portatori, forse per la paura, calpestò uno di quei pulsanti infernali, finendo impalato, e un altro, terrorizzato da un tale spettacolo, cominciò a correre verso il basso urlando a squarciagola di volersene andare, ma non rendendosi conto di stare inoltrandosi sempre più nel buio della caverna.

«Aspetta, idiota!» gridò il professore, e come lo vide calpestare un altro pulsante subito gli corse incontro.

Una pila di massi piovve dall’alto lo travolse, anche se il professore fece a tempo a gettarsi all’indietro riuscendo ad evitarli.

Uno dei massi, il più grosso, continuò a rotolare implacabilmente verso il basso, fino a raggiungere una seconda, enorme porta, che sfondò senza pietà con la sua enorme forza, attirando l’attenzione dei membri della spedizione.

Questi, incuriositi ma ancora guardinghi, lentamente si avvicinarono, facendo attenzione a non imbattersi in altre trappole.

Fortunatamente non ne incontrarono altre, e quando arrivarono alla fine del tunnel, dopo aver valicato il portone ormai divelto, si ritrovarono da un momento all’altro in una immensa stanza di forma quadrangolare, e come ne calpestarono l’uscio questa fu immediatamente inondata da quelle che, alla faccia dell’anacronismo, sembravano vere e proprie luci al neon.

Quando fu del tutto illuminata la stanza, oltre a rivelare pienamente le sue gigantesche dimensioni, più che una camera sepolcrale parve rivelarsi una specie di avveniristico laboratorio, pieno di macchinari e apparecchiature di altissima tecnologia, roba perfino inconcepibile persino per la moderna civiltà umana.

Il professore e i pochi operai rimasti in vita restarono sbigottiti, le bocche spalancate e gli occhi fuori dalle orbite.

«Non… non ci posso credere».

Al centro della stanza, circondata da quegli strani apparati medico-informatici, stava una specie di capsula, coperta come tutto il resto da uno spesso strato di polvere accumulatosi nel corso dei millenni; il professore, sgomento, vi si avvicinò, e come scorse qualcosa al suo interno rimosse con la mano parte dello sporco, svelando al di sotto il volto bellissimo di un giovane uomo con lunghi capelli bianchi, apparentemente immerso nel sonno. Le vesti regali che indossava, immacolate come il suo corpo, non lasciavano dubbi su chi dovesse essere

«Questo…» disse incredulo «Questo è…»

«Indovinato.» disse Michelle comparendo alle sue spalle «Questo è Vipalcha. Lo chiamano il Quinto Re, ma in realtà fu il primo dell’Ultima Grande Civiltà dei vampiri.»

«L’Ultima Grande Civiltà!?»

«I Cinque Re sono solo alcuni dei sovrani che nei millenni si avvicendarono alla guida della civiltà dei Vampiri. Vipalcha fu tra i primi.

Lo guardi. È morto da più di trentamila anni, e sembra che lo abbiano sepolto ieri.»

«Quante cose non sapevo o credevo di sapere sui vampiri.» disse il professore, che poi si guardò un momento attorno «Ma se avevano raggiunto un tale livello scientifico e culturale, perché lo hanno abbandonato?»

«Per l’unico motivo che può spingere anche la più avanzata delle civiltà a scomparire.»

«La guerra.»

«Come crede che sia scomparsa la Prima Civiltà di cui tutti favoleggiano?».

Il professore guardò un'altra volta Vipalcha.

Allora la sua teoria, quella che aveva segretamente elaborato ma che non aveva mai avuto il coraggio di confidare a nessuno, si stava rivelando corretta.

All’alba della civiltà umana, i vampiri avevano invece già raggiunto un livello di progresso inimmaginabile; ma poi era successo qualcosa, che ora sapeva essere una guerra, e buona parte di quella civiltà era scomparsa, e oltre a perdere quasi tutto ciò che il loro sapere gli aveva permesso di creare i vampiri, da dominatori del pianeta, erano diventati invece una risicata minoranza, dando modo agli esseri umani di surclassarli e dare così vita ad un Seconda Civilizzazione, alla quale i pochi rimasti della Stipe della Notte avevano dovuto per forza di cose adeguarsi.

Sapendo tutte queste cose, il professore sentì un brivido alla schiena.

Se davvero tutto quello che c’era in quella tomba risaliva a prima che la Prima Civiltà scomparisse, che cosa avrebbe potuto fare se qualcuno avesse cercato di farne l’uso sbagliato?

Di colpo sentì di essere stato ingannato, e i suoi timori divennero realtà quando vide le tre guardie del corpo che, ad un cenno di Michelle, misero mano ai loro borsoni, pieni di apparecchiature di immagazzinamento e registrazione.

«Che state facendo?» domandò incredulo e arrabbiato

«Non si vede?» replicò tranquillo Michelle.

Gli apparecchi dei tre uomini furono collegati a quello che doveva essere il nucleo centrale della stanza, una specie di altare alto circa un metro, e subito presero a scaricare nella loro memoria tonnellate di informazioni, codici, antichi testi e altro ancora.

«Questo è un sapere che non và usato impunemente!» sbraitò il professore

«Gli inetti e gli incapaci che hanno avuto la fortuna di possederlo non hanno saputo farne l’uso più corretto. Molto meglio farlo nostro che lasciarlo a marcire inutilizzato in questo cimitero del passato.»

«Quello che c’è qui dentro ha causato la rovina della Prima Civiltà, e ha portato i vampiri alle soglie dell’estinzione!»

«E ora li aiuterà a sopravvivere.»

«Ma chi siete voi? Qual è il vostro scopo?».

A quella domanda, Michelle piegò le labbra in uno strano sorriso, volgendo lo sguardo verso il professore.

«Il suo contributo è stato molto prezioso».

Un attimo dopo, la stanza fu riempita del fragore di uno sparo.

Il professor Evans sgranò gli occhi e socchiuse la bocca, cercando inutilmente di emettere un gemito di dolore che non gli uscì; la sua camicia verde mimetico, regalo di sua moglie, si era fatta di colpo rossa del sangue che sgorgava senza sosta dal foro all’altezza della milza.

Alla vista del professore barcollante e insanguinato, e della pistola comparsa all’improvviso tra le mani di Michelle, i tre operai che erano con loro fecero per scappare terrorizzati, ma le guardie di Michelle non diedero loro scampo piombandogli addosso con salti inumani e affondando con forza i denti nei loro colli fino a dissanguarli.

«Ora che ha realizzato il sogno della sua vita, professore.» disse beffardo Michelle mentre Evans lo guardava incredulo «Può anche morire».

Il professore ebbe appena il tempo di pensare un’ultima volta alla sua moglie, e alla sua adorata figlia, quindi si accasciò a terra e morì stringendo ancora in una mano la loro fotografia, che per tutta la durata della discesa aveva sempre tenuto stretta per farsi coraggio.

«C… Carmi…».

Terminata quella questione, le tre guardie si rimisero rapidamente al lavoro.

«Tutto fatto, signore.» disse dopo poco una di loro

«Molto bene. preparate tutto e andiamocene di qui».

Dei tre borsoni ne fu lasciato lì solo uno, l’unico che non fosse stato aperto per tutto il tempo, e dopo qualche minuto Michelle i suoi erano di nuovo in superficie.

Agli operai e agli assistenti del professore che li attendevano in superficie dissero che Evans e i suoi sarebbero risaliti a breve, e prima di andarsene si assicurarono che le casse di birra che avevano portato con sé, regalo gentilmente offerto dalla Fondazione Manovic per festeggiare il buon esito degli scavi, fossero state scaricate.

Trenta secondi dopo che l’elicottero fu decollato, l’intero accampamento fu spazzato via da una sequenza di violente esplosioni, che tramutarono quell’angolo di foresta in un inferno di fuoco e distruzione.

Un’esplosione avvenne anche all’interno della tomba, avvolgendo l’intera camera sepolcrale e facendo sparire tra le fiamme il corpo ed il ricordo del Quinto Re Vipalcha.

 

I genitori di Eric erano tornati in Italia ormai da qualche mese.

Il casato dei Lorenzi era stato ufficialmente riammesso alla nobiltà nel dicembre dell’anno precedente, durante una breve cerimonia nel castello di Vaduz durante la quale Serena aveva riavuto simbolicamente indietro le insegne, le decorazioni e lo stemma di famiglia, che erano stati requisiti e portati via nel giorno in cui suo padre era sfuggito di poco alla cattura.

Per lei era stato un momento molto importante, a cui anche Eric, seppur di malavoglia, aveva presenziato.

Nonostante tutto quello che avevano dovuto passare, nonostante il suo stesso padre avesse prima cercato di ucciderla e poi costretta a scegliere tra l’essere uccisa o il consegnargli suo nipote, lei teneva ancora al buon nome del suo casato, ed era più che fiera del cognome che portava.

Il castello di famiglia nel sud dell’Italia era ormai completamente ricostruito, e Serena vi aveva preso stabile dimora con il suo compagno Hiroki, che ormai era anche prossima a sposare, anche se appena aveva un momento libero cercava quando possibile di tornare in Giappone per stare con il figlio.

Per tutti questi motivi, né Serena né Hiroki si trovavano lì quando venne per Eric il giorno di lasciare la sua casa di Ikebukuro, dove aveva vissuto nell’ultimo anno e che ora avrebbe abbandonato per trasferirsi alla scuola.

In compenso, gli avevano prenotato un posto sul diretto per Nagano, e quindi una limousine che dalla stazione lo avrebbe portato fino alla scuola.

Anche Nagisa avrebbe frequentato la Cross assieme a lui, ovviamente.

Erano da poco passate le dodici; le valige erano pronte, e si attendeva solo l’arrivo del mezzo di trasporto che li avrebbe condotti alla stazione.

Eric scostò leggermente una tendina del salotto per guardare fuori, verso il cancello; non vide nessuno, e malgrado l’ora nella strada antistante non passava una macchina.

«Non verrà, mio signore.» disse Nagisa capendo cosa avesse in mente «L’ultima volta che ci siamo viste, mi ha detto che sarebbe andata fin laggiù per conto proprio.»

«Capisco.» rispose mestamente lui.

Si guardò attorno, osservando ciò che per dodici mesi aveva trovato famigliare e confortevole dopo aver voluto ignorarne l’esistenza per oltre dieci anni.

«Mio signore, il taxi è arrivato.»

«Sì… grazie».

Un’ultima occhiata, un ultimo richiamo della memoria, quindi Eric recuperò le sue valigie aprì la porta ed uscì, chiudendosela alle spalle.

Non si sentiva tranquillo.

 

Izumi Asakura aveva preso il treno per Nagano già alle dieci di mattina, dopo aver salutato i genitori che le avevano fatto mille raccomandazioni.

Le dispiaceva aver complottato alle spalle di Eric, confidando nella capacità e volontà di Nagisa di tenere segreta la sua partenza anticipata, ma temeva che avrebbe finito per tentare di convincerla ancora una volta a rinunciare.

E di rinunciare, non voleva neppure sentirne parlare.

Primo, non voleva stare lontana da lui per un anno intero.

Secondo, e forse anche più importante, era seriamente determinata a dimostrare ad Eric che si sbagliata.

Pur capendo la sua situazione, e quello che sicuramente provava a sentiva riguardo a sé stesso, non voleva che Eric continuasse a vedere la sua condizione di vampiro come una macchia, un qualcosa di cui vergognarsi e da combattere in ogni modi.

La verità era che Eric, nonostante tutto, considerava ancora i vampiri come dei mostri, creature pericolose e cattive per natura, e per questo non voleva essere in alcun modo collegato a loro.

Doveva fargli capire che si sbagliava.

In quei dodici mesi aveva conosciuto altri vampiri, capendo come si aspettava che ce ne erano anche di saggi e gentili, ma questa era una cosa che Eric sembrava non voler accettare.

Sarebbe stato difficile, anche per lei, ma ce l’avrebbe messa tutta. Sapeva bene quali rischi corresse ad andare all’accademia Cross, ma non le importava; anzi, se nonostante tutto non le fosse accaduto nulla, allora era la prova che non tutti i vampiri erano i mostri che Eric pensava.

Intanto, cercava di godersi il viaggio.

Il super rapido della linea per Nagano sfrecciava come un fulmine tra le campagne e i monti che caratterizzavano il centro del Giappone, lontani dalle grandi città così soffocanti e claustrofobiche, splendeva un bel sole e la primavera era già iniziata.

D’un tratto, una giovane ragazza dai lunghi capelli biondi, più o meno della sua stessa età, passò accanto alla sua poltrona, notando l’uniforme scolastica nera riposta in una borsa di carta.

«Scusa.» disse con un leggero accento straniero «Per caso sei una studentessa della Cross?»

«Come!?» rispose lei confusa alzando gli occhi dal libro che stava leggendo

«Leggi Byron!?» disse divertita la bionda notando il titolo del voluminoso tomo

«Beh, ecco…»

«E allora? Vai anche tu alla Cross.»

«Più o meno.» rispose Izumi riacquistando sicurezza «Inizio quest’anno.»

«Non mi dire.» disse la ragazza bionda sedendosi accanto a lei «Quindi anche tu sei nel progetto di scambio culturale?»

«Non proprio. Io sono giapponese. Ho chiesto il trasferimento, e me l’hanno concesso.»

«Vieni da Tokyo?»

«Esatto.»

«Io sono arrivata ieri da Londra.» quindi le porse la mano «Piacere. Carmilla Evans. Ma tu puoi chiamarmi Carmy se vuoi.»

«Izumi Asakura. Il piacere è tutto mio.»

«Allora, dimmi. Come mai una studentessa di Tokyo decide di punto in bianco di trasferirsi in una scuola persa nel nulla!?»

«Beh, ecco… diciamo che sto seguendo una persona.»

«Una persona?» replicò Carmy sorridendo sarcastica «Non sarà per caso il tuo fidanzato?»

«Cosa!?» esclamò Izumi saltando sul posto e facendosi rossa come sedile su cui si trovava «No, niente affatto! Non è come pensi! Voglio dire, Eric non è il mio ragazzo!»

«Ah, così si chiama Eric.»

«No, ecco! Sì, insomma…».

Poi Izumi si accorse che, a forza di urlare, aveva attirato l’attenzione dell’intera carrozza, e si raggomitolò imbarazzata su sé stessa ancora più rossa.

«E dai, stavo scherzando. Sarà un piacere frequentare la scuola con te.»

«Anche per me.» rispose Izumi calmandosi ed accennando un sorriso sincero.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Eccoci dunque con il primo capitolo.

Lo avevo detto che sarebbe stato ugualmente pirotecnico.

E ora, un po’ per volta, cominceranno ad apparire i vari personaggi che i rispettivi autori mi hanno permesso di utilizzare.

Prometto solennemente che ognuno avrà il suo spazio, e non sarà affatto una semplice comparsa. Sarebbe ingiusto e irrispettoso nei loro confronti e nei confronti dei loro creatori.

Ringrazio i miei recensori, accorsi così numerosi.

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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