Trecentosessanta
Take a sad song and make it better
Prendi una canzone triste e
rendila migliore
Parte Prima
Un vecchio
zingaro ungherese
Di te
parlando, mi giurò
Che c’eri
prima di suo padre
Prima del
padre di suo padre
Più in là
nel tempo non andò
I cerchi
del tuo tronco sono
Ferite
d’armi e di parole
Che mai
nessuno vendicò
(Velázquez,
Roberto Vecchioni)
Budapest, 17 Marzo 1819
E la tempesta ci sorprese
Due miglia dopo Capo Horn
Se ne rideva delle offese
In mezzo al ponte si distese
E fino all'alba mi cantò
Ragazze, terre, contadini
Da sempre popoli e padroni
Fu lì che tutto cominciò
(Velázquez, Roberto Vecchioni)
-Tornatevene
in Austria, maledetti infami! Questa è la nostra terra, la nostra vita!
Liberate
l’Ungheria, restituiteci i nostri diritti, la nostra Szabadság!
Tornate
a Vienna, tornate a Schönbrunn e nei vostri mille castelli, noi di casa ne
abbiamo una sola, e ce l’avete negata per troppo tempo!
Noi
non saremo mai vostri sudditi, noi siamo cittadini
ungheresi!
Lasciate
la nostra Magyarország, lasciate
Budapest! Ön nem vagytok magyarok...
Ön nem vagytok magyarok! Mi hai sentito, Franz II?
Te nem a mi király! Te soha nem is lesz!-
Tra
la folla di manifestanti ungheresi al passaggio della carrozza di Franz II
d'Asburgo, Kaiser d'Austria, d'Ungheria e di Boemia, più di ogni altro spiccava
un ragazzino giovanissimo ma con un'audacia e una furia senza pari.
Era
una forza della natura, e la sua indignazione eguagliava con una sola voce
quella dell'intera folla.
Folti
capelli neri scompigliati e lucenti occhi del medesimo color carbone.
Una
camicia bianca strappata, pantaloni logori e stivali alti fino al ginocchio, da
militare.
Pelle
nivea e un sorriso bello da stordire, da star male.
Era
Kolnay Desztor, vent'anni compiuti da tre mesi, l'eroe della via Rákos.
Voi non siete ungheresi e Tu non sei il nostro re, Non
lo sarai mai, gridava Kolnay Desztor tra la folla, gridava come un
indemoniato, con i suoi vent’anni e il suo coraggio ineguagliabile, perché ne
andava del suo futuro e del futuro di sua moglie, della sua Zsófike, e dei loro
figli.
Il
Kaiser neanche si voltò, e Kolnay perse la testa.
Si
scagliò sulla carrozza reale, impiegando tutte le sue forze per vincere la
resistenza delle guardie svizzere di Franz II.
Gli
avevano sparato, ma lui non aveva tempo per cadere, sanguinare e sentire
dolore.
Sparò
anche lui, per scalfire la barriera di guardie, infilarsi tra di loro e
raggiungere il re.
Era
il 17 Marzo 1819, e in periferia, nella sua amata via Rákos, stava nascendo il
suo terzo figlio.
Doveva liberare
l’Ungheria in suo onore.
Dita
scattanti sul grilletto, nonostante il sangue gli bagnasse la camicia, e
bruciasse, bruciasse da morire.
Con
le sue ultime energie sferrò un pugno a una guardia e sparò.
Sparò
a lui.
Poi
fu scaraventato giù dalla carrozza e provvidenzialmente nascosto dalla folla,
che voleva proteggere l’eroe della Rivoluzione Ungherese, altrimenti Kolnay
sarebbe stato fucilato all’istante.
Qualcuno
lo portò via, in via Rákos.
Bussarono
a Casa Hrabal e lo lasciarono lì.
Non era morto,
ovviamente, quel maledetto austriaco...
Ma neanche Kolnay si
sarebbe arreso così facilmente.
Quando
Zsófike, la sua bella moglie diciannovenne -erano sposati da sette anni,
ormai-, che aveva appena partorito il terzo Desztor, lo vide entrare sorretto
da Milan e Bořek Hrabal,
rispettivamente di diciannove e trentatré anni, lanciò un grido che nemmeno
durante il parto...
Ma di esasperazione.
Secondo lei, gli uomini normali tendevano a dividersi
essenzialmente in due categorie: quelli che quando gli nasceva un figlio, anche
se il terzo, stavano accanto al letto dell’adorata sposa a tenerle la mano fino
alla fine, anche se saltavano in aria ad ogni strillo, e c’erano quelli che se
ne fregavano e andavano a farsi una birra o un giro di vodka all’Osteria con
gli amici, per poi tornare come se niente fosse e dare un nome al pargolo.
E poi c’era Kolnay, il
solito anticonformista, che tentava il suicidio, o meglio, mentre nasceva il
suo terzo figlio faceva un attentato a Franz II d’Asburgo.
Chissà
se si rendeva conto di averla lasciata a partorire con Bohumil, e quella testa
bacata d’un suocero -troppo sangue
Desztor per essere intelligente- le si era messo accanto col fucile
sottobraccio, e le aveva sibilato, circospetto e quasi cospiratorio: “io ti
guardo le spalle, tu fai quello che devi fare”, al che lei gli aveva gridato:
“non serve a niente guardarmi le spalle, non
è da lì che uscirà il bambino!”, anche se effettivamente aveva delle belle
spalle, Zsófike.
Con
un sorriso colpevole, ma negli occhi ancora le stelle dei sogni della
Rivoluzione, Kolnay avanzò barcollando verso il letto e posò un bacio sulla
fronte sudata di Zsófi.
La
ragazza aveva i capelli biondi sconvolti e sparsi sul cuscino come raggi di un
sole stanco, che aveva bruciato quasi tutta la sua luce, e i begli occhi
perdutamente celesti di due tonalità più chiari del solito, a furia di piangere
e di gridare in quel parto in cui aveva lasciato più dell’anima.
Era
esausta, e anche un bel po’ arrabbiata con lui, quella testa calda, eppure fu
lei la prima a chiedere:
-Com’è andata?-
-Gli ho sparato. E l’ho colpito, amore mio, l’ho
colpito! Non è ancora morto, quel bastardo austriaco, ma la prossima volta...-
-La prossima volta, se starò ancora partorendo, resti con me-
-Ma non hai già finito?-
-Parlavo di un altro figlio, Kols! Non partorisco sempre lo stesso, stordito!
Quello di oggi è solo il terzo, no?-
Kolnay sorrise, annuendo.
-A proposito, dov’è?-
-Nostro figlio?-
-Eh...-
-Come lo vuoi chiamare?-
-Fammelo vedere, prima!-
Zsófike gl’indicò la
vecchia culla di Pál, che due anni prima era stata di Csák e adesso del loro
terzogenito, con un cenno del capo.
Kolnay la raggiunse con il
cuore che gli batteva forte, e quando lo vide sgranò gli occhi.
Era...
Beh, no, non era bello.
Era pur sempre un neonato.
Questo era stato il
discorso di Milan alla nascita di Pál, e quattro anni dopo anche a quella di
Csák.
Chissà se l’aveva detto
anche di lui.
Kolnay era a Hosök Tere a manifestare contro il
Kaiser, quando il suo terzo figlio era nato.
Quel bambino, però, gli
metteva una strana soggezione.
Non dormiva né piangeva.
Lo guardava con
sufficienza e una qual certa aria di sfida, sembrava.
Kolnay lo osservò
attentamente, e constatò con non poca fierezza che gli assomigliava molto più
di Pál e Csák.
Pochi capelli scuri e due
occhioni neri che parevano stelle.
Ma il suo sguardo, quello
sguardo...
Era lo sguardo di un eroe.
Kolnay passò mentalmente
in rassegna tutte e tredici le statue di Hosök Tere.
Szent István király I, László
I, Könyves Kálmán, András II, Béla
IV, Károly Róbert I, Lajos I, János
Hunyádi, Igazságos Mátyás Hunyádi, István Bocskai, Gábor Bethlen, Imre Thököly e Ferenc
Rákóczi II.
Con un sorriso, si
soffermò sul tredicesimo eroe.
Dal 1703 al 1711, Ferenc Rákóczi
II, Principe di Transilvania, aveva guidato la Rivoluzione Ungherese contro gli
Asburgo...
Proprio come stava facendo lui adesso.
-Feri...- sussurrò, senza
staccare gli occhi dal bambino.
Feri era il diminutivo di
Ferenc.
-Feri Desztor-
Adesso vola
Oltre tutte le stelle
Alla fine del mondo, vedrai
I nostri sogni diventano veri
(Mentre Dormi, Max Gazzé)
Parte Seconda
Mare di Kara (Mar Glaciale Artico), 2 Marzo 1843
Che anno è?
Che giorno è?
Questo è tempo di vivere con te
(I Giardini di Marzo, Lucio Battisti)
Come si chiuse la porta
della cabina alle spalle, George si sentì infinitamente bene.
Stava tornando a Sparta, la sua Sparta.
Adagiò Natal'ja sul letto,
e lei subito si spostò su un fianco per sentir di meno il dolore delle ferite.
Gee le si sdraiò accanto e
le lanciò un lungo sguardo in cui brillò un turbine di sentimenti, ma tutti
belli da morire.
-Come stai?- le sussurrò, seguendo il suo profilo con un dito.
-Con te...- mormorò Alja, destabilizzata.
Lui sorrise, scuotendo la
testa.
-Come,
non con chi-
-Male, malissimo... Ma non me ne importa niente-
-Mi ami, sei sicura?-
-Ti amo di più...-
Una fitta lancinante al
fianco le spezzò le parole in gola, e Gee le accarezzò una guancia.
-Più di...?-
-Più di quanto sarebbe possibile-
George guardò dritto nei
suoi occhi d'argento, finalmente più sinceri che mai e si sentì morire di
felicità.
-Anch'io... Anch'io, mia Lys. Mia impossibile, meravigliosa Lys.
Ma quante me ne hai fatte
passare, stellina... Quanto ho dovuto sopportare per te...-
Le prese una mano e se la
appoggiò sul cuore.
-Lo senti? Lo senti, quante volte me l'hai
spezzato?-
Ma non le lasciò neanche il
tempo di rispondergli, perché la baciò, la baciò come aveva sognato di fare il
giorno che lei aveva passato a baciare Feri, e la baciò per ricordarle che solo
lui poteva baciarla così, che solo per lui poteva provare quello sconvolgimento
nel cuore, quell'ardore di fiamme e promesse che questa volta avrebbero
mantenuto entrambi.
Dopo quasi cinque anni di matrimonio...
Mai come nel '43 Natal'ja gli aveva fatto così
male.
Ma sarebbe passato, stava passando e doveva
passare.
-Mia piccola adultera...-
Natal’ja si sforzò di
sorridere, ma un attimo dopo sentì come una coltellata al fianco, una lama
affondata nella ferita, e sbarrò gli occhi turchini.
Le mancarono le forze, e
lasciò la mano di Gee, che la chiamava, ma lei non lo sentì.
Era svenuta, svenuta per il dolore.
George le sciolse la
fasciatura, e per poco non cadde dal letto per lo spavento.
Avrebbe dovuto esserci
abituato, a quel genere di ferite, e lo era, ma quando quelle ferite erano sul
suo corpo gli facevano tutto un altro effetto.
Era tutto -o quasi- sotto controllo, perché era
lui a soffrire.
Guardò il lungo segno e il
profondo solco lasciati dal proiettile -uno
solo dei proiettili-, la pelle strappata, la carne devastata e il sangue
fresco, che nonostante l’emorragia si fosse fermata aveva fatto in tempo a
riversarsi sul tessuto fino ad inzupparlo.
Era una vista
insostenibile, eppure quando ci era passato lui l’aveva anche sfidata, quella
vista, e nonostante fosse costantemente lacerato da una febbre di fitte e di
dolori folli, da spaccarsi i denti nello stringerli, aveva fatto finta di
niente, perché lui era un eroe, perché
lui era uno Spartano.
In quel momento, Alja
riaprì gli occhi, e Gee sospirò di sollievo.
-Scusa...-
mormorò la biondina, con voce tremante.
-E di cosa?-
-Non è carino svenire dopo un bacio...-
Lui la guardò con infinita
dolcezza.
-Non guardare-
-Eh?-
-Non guardare. Ti ho
sciolto la fasciatura, ora la riannodo. Se
la guardi svieni di nuovo-
-Dici?-
-Santo Cielo, sembra che
ti abbia azzannata il leone di Nemea!-
-Proprio lui?-
-Ed è solo una delle
quattro. Passami il braccio-
-Prego?-
-Cioè, allungalo, non dico che te lo devi per
forza staccare... Anche se lo è già, per
metà-
Lys sospirò, con un mezzo
sorriso.
Gee poteva essere innamorato e preoccupato quanto
voleva, ma il tatto non l’avrebbe mai avuto.
O meglio, ne aveva eccome, ma non in quelle
situazioni.
-C’è qualcos’altro che
dovrei sapere?-
-Hai una spalla sfasciata, mezza schiena distrutta
e qualche livido qua e là, ma a parte questo niente di eccessivamente
preoccupante.
A parte gli scherzi,
Lys... Hai avuto paura?-
-Di chi?-
-Di lui-
-Ci sono abituata-
-Abituata a quel mostro?-
-Non è sempre così-
-Lo so. E quando non è così riesce quasi a farti
innamorare. Ma come ha potuto farti così male?-
-Io,
Gee... Come avrei potuto permettere che
lo facesse a te?-
Qualsiasi incantesimo le farai, anche dopo la mia
morte...
Non avrai mai mia moglie, Feri Desztor.
Geórgos della stirpe de’
Kléftes
Well,
I’d rather see you dead, little girl
Than
to be with another man
Davvero, preferirei vederti morta,
ragazzina
Piuttosto che con un altro uomo
(Run
for your life, The Beatles)
Note
Take a sad song and make it better - Prendi una canzone triste e rendila
migliore: Hey Jude, The Beatles.
La nascita di Feri,
innanzitutto.
Dovevo parlarne, in un
modo o nell’altro, così come dovevo parlare della Rivoluzione di Kolnay, della
battaglia dei Desztor contro gli Asburgo in Ungheria, quella che continuerà e
vincerà Feri nel 1848 al seguito di Lajos Kossuth.
A proposito di Lajos
Kossuth, lui è il quattordicesimo eroe di Hosök Tere, anche lui ha una statua in
Piazza degli Eroi, in quanto eroe della Rivoluzione Ungherese del ’48, ma nel
1819 le statue erano ancora tredici, per questo non l’ho citato nel capitolo.
Ho parlato di Ferenc
“Feri” -gli equivalenti ungheresi dei nostri “Francesco” e “Ferruccio”- Rákóczi
II, l’eroe al quale il nostro Capitano deve il suo nome, mentre quello a cui
Kols e Zsófi dedicheranno il battesimo di Jàn è Jànos Hunyádi, un altro
indimenticabile hős ungherese che avevo già nominato insieme a
Rákóczi nel Capitolo 144, per spiegare i nomi del terzo e del quarto dei
fratelli Desztor ;)
Pál deve il suo nome alla
via della mitica segheria, mentre Csák e Hajnalka non hanno storie particolari,
ma sono senza dubbio nomi ungheresissimi ;)
Quanto alla seconda parte,
la lascio commentare a voi ;)
A presto!
Marty