Il Re dell'Alba
Quando
vennero a prenderla, la notte era solo silenzio. Ealdight era distesa
per terra, rannicchiata contro il muro della cella: la grigia
sonnolenza in cui era caduta si estinse come una candela, non appena
lo stridio della serratura risuonò nel buio; rimase
immobile, in
attesa. Ad ogni respiro, percepiva l'alito umido della paglia, il
freddo vecchio della prigione e del fango, il fetore grasso di
latrina e di sangue. In silenzio, si alzò sui calcagni,
proteggendo
i solchi delle frustate sotto la tunica, e sollevando il volto. La
massiccia porta di legno raschiò il pavimento, e una
pennellata di
luce le ferì gli occhi. Due ombre pesanti avanzarono nel
vano, le
corazze di ferro che balenavano alla torcia. Masticando
un'imprecazione che non capì, uno dei soldati si
piegò con un
grugnito indolente e una ciotola di terracotta scivolò sui
lastroni,
fino a colpire il polpaccio di Ealdight.
La
pappa d'avena era fredda e insipida, ma Ealdight la divorò
in pochi
bocconi furiosi, raccogliendo i grumi con le unghie. Dopo tre giorni
nelle segrete della fortezza, non era certo il caso di preoccuparsi
del proprio decoro;e inoltre, se finalmente qualcuno aveva deciso di
sospendere il buio oblio in cui era rimasta, significava che presto
avrebbe avuto bisogno di tutto l'acume della sua mente e di tutta la
forza del suo corpo, se non per evitare i colpi, almeno per riceverli
a testa alta. Terminò di mangiare scrupolosamente, fissando
la
smorfia ottusa e guardinga dei carcerieri. Erano uomini massicci,
chiari e sani come manzi, dai capelli sbiaditi e le braccia
lentigginose: uomini del Sud, i cui antenati avevano cavalcato
gridando su altre piane, e i cui occhi appartenevano al cielo. Quelli
nei volti della sua gente, invece, erano forgiati nella stessa
materia del Galles; l'azzurro schivo del mare d'estate, il verde
solenne dei boschi di castagno, il grigio formidabile della roccia e
del ferro. Le sfumature che aveva visto schiudersi in innumerevoli
sguardi in innumerevoli notti, fin da quando era diventata una
nutrice.
Una
guardia si agitò, a disagio. -Sbrigati, strega-
ringhiò – Alzati,
e cerca di darti una sistemata. La regina vuole vederti.-.
Ealdight
si interruppe, serrando per un attimo le palpebre. Tutti nel
villaggio avevano saputo che la giovane regina stava per dare al suo
signore un figlio, anche a così breve distanza dalla morte
del
vecchio conte, insinuavano i più maligni; e in effetti, a
giudicare
dalla luna doveva ormai essere quasi il momento. Ma fino ad allora
non l'aveva mai cercata, e vedendola uscire ogni domenica dalla
cappella di pietra, avvolta nei suoi veli candidi, aveva sempre
supposto che anche la loro sovrana rifuggisse le antiche arti.
Ealdight
pose da parte la ciotola e si alzò lentamente, reprimendo un
gemito:
i lividi sulle gambe avvamparono come stringhe di fuoco, e per un
attimo le gambe parvero cederle. Deglutì, e fu di nuovo in
grado di
restare in piedi. Madre,
ti prego, non lasciarmi cadere. Tutto, ma non lasciarmi cadere di
fronte ai miei nemici. -La
mia signora vi ha spiegato perché abbia bisogno di me?-.
-Io
al tuo posto sarei solo felice di avere un modo per non continuare a
marcire qua dentro.-L'altro soldato la strattonò in avanti,
torcendole il polso. Odorava di taverna e di sudore. -Andiamo, prima
che cambino idea.-.
Le
guardie la condussero fuori, verso la porta chiodata delle prigioni;
l'aria del corridoio era bruna e gelida, ma dopo il fetore della sua
cella, Ealdight vi percepiva almeno più vita, l'impronta
delle voci
e dei respiri di altri uomini. Un topo squittì nel buio,
saettandole
tra i piedi.
Il
soldato tarchiato si piegò sulla serratura, e una lama della
pastosa
luce delle torce le penetrò negli occhi; la notte splendeva
oltre le
feritoie, alla sommità dei gradini.
La
guardia la colpì alle spalle, svogliatamente. -Vai avanti, e
non
fare scherzi.-
La
levatrice cominciò a salire, con circospezione, il guanto di
cuoio
dell'uomo serrato intorno al braccio. Il nastro della scala,
inargentato da stelle rade, si snodava sotto i suoi passi, fin quando
la pietra cominciò a non essere più intrisa di
sterco e di sangue,
e i passaggi divennero più ariosi, i piani più
levigati. La
fortezza era ancora vuota, a quell'ora, quieta e colma di echi come
una conchiglia. Ealdight procedeva attenta, senza guardarsi le mani.
Le
unghie si erano scheggiate la notte in cui i soldati avevano
schiantato la sua porta, frantumando le mensole di delicati flaconi
azzurri, divorando col fuoco delle torce le fascine di erbe del suo
tetto, la cassapanca consunta di sua nonna, l'effige di vecchia
quercia della Dea, grigia di tempo e di pioggia, cinta dalle primule
fresche che aveva raccolto nel campo; ricordava la stretta della
guardia che l'aveva trascinata fuori dal letto, la nebbia di vino e
di sudore del suo fiato, il rauco odio del suo grido quando gli aveva
conficcato le dita nella cotta di maglia per trovare i suoi occhi,
pazza di rabbia, pazza di dolore. L'avevano legata, prima di
chiuderla in quella cella: l'aveva strattonata a terra, premendole il
volto nel fango, inchiodandole la schiena con gli stivali, mentre
alle loro spalle la sua casa moriva tra le fiamme: così la
strega
non avrebbe potuto evocare i suoi malefici da demonio, così
la
strega non sarebbe stata altro che una donna svestita e affilata dal
freddo, da toccare e da colpire quanto l'ultima sgualdrina del
villaggio. Ora Ealdight si sfiorò i polsi, ancora morsi da
grandi
anelli corruschi, là dove le corde avevano inciso la carne.
Nonostante gli auguri dei soldati, però, quei solchi non la
turbavano affatto: non erano le prime cicatrici che aveva ricevuto,
né le più dolorose. Non era possibile, per
qualcuno che aveva
scelto come missione di tentare di guarire gli uomini, non
graffiarsi cercando un bocciolo medicamentoso tra le spine, o
bruciarsi al tocco rovente di un unguento; Ealdight le accettava, e
le ostentava con orgoglio, sulle braccia nude e bianche, quando gli
uomini e le madri venivano a cercare il suo consiglio e la sua
conoscenza, e anche coloro che reclinavano il capo di fronte al dio
insanguinato dei preti obbedivano alle sue mani sfregiate.
Le
sue mani avevano conosciuto la vita e la morte, e ne portavano il
marchio; in ogni solco rabbrividiva un frammento di tutte le
esistenze che non aveva strappato dal buio, in ogni impronta tremava
una scaglia di tutte le anime che aveva guidato nel mondo. Era per
questo, che lei era una levatrice, una sacerdotessa delle forze che
gridano nei grembi delle donne e di cui il suo popolo aveva
dimenticato il nome. Era per questo, che l'orgogliosa signora di quel
castello l'aveva sepolta nelle sue viscere di pietra, e ora le
domandava il suo aiuto.
I
soldati si fermarono, di fianco a lei. La guardia la
strattonò in
avanti, verso un' alta porta di noce scuro, e Ealdight quasi cadde.
Le scale l'avevano sfinita; i graffi sulle ginocchia avevano
ricominciato a sanguinare, i lividi sulle costole pulsavano. Ma il
suo corpo si limitò a barcollare, senza cedere. Appena la
nebbia
smise di sussultarle nello sguardo, vide che erano saliti fino alle
stanze padronali, al piano più alto del torrione: al suo
fianco,
dall'orlo di un arco, le colline di Dicembre svanivano in una bruma
d'oro. Oltre i battenti, una tempesta di gemiti sommergeva a tratti,
come una marea, un coro di sussurri premurosi e sommessi.
La
lama di una lancia le raschiò la schiena. -Muoviti, strega-
ruminò
il secondo soldato, socchiudendo gli occhi porcini. -Farai meglio a
non far aspettare la regina, se non vuoi che il vecchio Bill ti
spieghi un attimo a cosa servono davvero quelle come te-. Il suo
compagno latrò una risata da cane, le pupille sotto la cotta
accese
di grossolana malizia.
Ealdight
lo ignorò, senza guardarlo; prima che il ghigno svanisse del
tutto,
l'altra guardia spinse la porta, e la nutrice entrò nelle
camere dei
suoi carcerieri.
La
stanza era ampia e vuota, solcata dalla curva tonda di un unico
arco; contro i muri nudi, sbiancati dalla salsedine, riposava una
cassapanca dagli smalti vivaci e un telaio, la conocchia gonfia di
lana chiara.
La
regina giaceva sul letto, puntellata contro la testiera di quercia;
uno stormo di donne, dai veli pallidi e i tondi volti da paesane, si
agitavano intorno a lei in un frullio di gonne e bisbigli. Era
spossata e contratta, e il ventre gonfio tendeva il lino della veste,
le cosce piegate rosee e imperlate di rivoli umidi; ma i boccoli sul
seno avevano il barbaglio del rame antico, e gli occhi di
lapislazzulo saettavano come quello di un falco. Il suo volto
trovò
subito Ealdight, e quando parlò la sua voce fu quella
limpida e
implacabile con cui rispondeva ai supplici a fianco del suo signore.
-Sei tu la levatrice, ragazza?-.
La
levatrice non sorrise, e si limitò a ricambiare il suo
sguardo. Lei
stessa era abbastanza modesta da ammettere di aver visto poche
primavere, ma la regina doveva essere ancora più giovane,
poco più
adulta delle fanciulle che si intrecciavano di fiori i capelli per la
festa di Maggio. Giovane,
pensò, e
spaventata, e colma di vita e di fuoco. Ecco tua figlia, Madre. -Sì,
mia signora.-.
La
regina annuì, serrando d'un tratto le labbra; il suo viso
non mutò,
ma le dita si contrassero di scatto sulla stoffa. -Lysa mi ha detto
che sei abile, e conosci le leggi con cui gli uomini vengono al
mondo. Ha detto che hai aiutato a nascere suo figlio.-.Con
un cenno del mento accennò alla giovane lentigginosa al suo
fianco;
lei chinò il viso con un sorriso incerto, impacciata in un
impasto
di orgoglio e imbarazzo.
Il
grigio di pioggia degli occhi di Ealdight si addolcì.-
Sì, mia
signora. Una femmina, sana e bella, e forte come il sole.-.
-Mi
ha detto che era sul punto di morire, e con lei la sua bambina. Che
le altre levatrici l'avevano data per spacciata, ma tu l'hai
riportata indietro.-.
Ealdight fissò la dama, senza arroganza e senza soggezione.
I piedi nudi
erano incrostati fango e di fuliggine, le caviglia archi sottili
sotto le falde della tunica; i guizzi del braciere rivelarono la sua
carne scavata, le ombre sotto i suoi occhi, le ciocche aggrovigliate
che le sfioravano il collo. Eppure nulla in lei suscitava davvero
un'impressione di fragilità, o ispirava davvero un gesto di
pietà.
Un respiro di vento schioccò rabbiosamente nella stanza, e
la
nutrice tremò sotto la veste troppo corta. Ma rimase in
piedi,
diritta, bianca e austera come le scogliere dell'Ovest.-Esistono
più
strade per raggiungere una meta, e non a tutti gli uomini è
concesso
conoscere le stesse.-.
La
castellana sembrò voler ribattere, ma un brivido le
squassò le
spalle, l'arco dei fianchi, e d'improvviso non fu altro che una
donna: e ancora una volta, Ealdight si ritrovò ad assistere
all'oscuro miracolo che tramutava una madre nella più
fragile e la
più potente delle creature. -Ho bisogno che tu salvi il mio
bambino.
Non solo per me, non solo per lui, non solo per il mio signore. Mio
figlio deve venire al mondo, e tu sei l'unica a potergli mostrare la
strada.-.
La
levatrice voltò il viso verso il letto, assediato dal tubare
delle
ancelle. I suoi occhi sembrarono d'improvviso pesanti, scuri come
pietre di fiume, troppo grevi di conoscenze e di visioni per non
scivolare verso il suolo, verso la terra. -Siete certa di
ciò che
mi chiedete, mia signora?-.
La
regina la guardò, e un mutamento sottile, lieve come un
tremore
d'acqua, le scivolò sul viso; come l'ombra di un allarme, o
di un
ricordo. Ealdight la ricambiò, scavò in quei
piani armoniosi e
duri, e capì. Quella donna non possedeva l'antico dono: non
aveva
mai ascoltato il canto segreto della terra, né il mormorio
immenso
che animava una foresta nel buio, né aveva mai provato la
sicurezza
spaventosa e inebriante di star stringendo tra le mani le corde di
un'altra esistenza; sapeva però riconoscere il potere, e
rintracciarne i solchi anche nel suo volto stanco. Aveva toccato la
magia, e avrebbe ancora sfiorato quei confini freddi e argentei; ma
non avrebbe mai scorto le terre tenebrose e infinite che si
stendevano al di là.
La
dama respirò a fondo, serrando le labbra rosse.
-Sempre-rispose
solo.
Per
un attimo, il tempo si dilatò intorno a Ealdight,
distendendosi come
un lago, fin quando la sala e il castello e l'alba furono
implacabilmente distanti, più remoti delle sfere tenebrose
del
cielo.
Sapeva
cosa sarebbe accaduto: quel bambino, che avrebbe incontrato il mondo
attraverso il tocco delle sue mani e di cui avrebbe ricordato per
sempre il primo grido, sarebbe stato marchiato dall'acqua sacra del
nuovo dio, e sarebbe diventato uno dei giovani dai riccioli fulvi e
gli occhi crudeli che popolavano la corte. Avrebbe imparato a
disprezzare la sua sapienza e le sue leggende, avrebbe iniziato a
bruciare le statue per cui deponeva fiori, a perseguitare i suoi
boschi e i suoi spiriti. Ma tuttavia, nonostante tutto per lei non si
trattava solo di questo. La vedeva, come vedeva tutte le altre, al
modo indistinto luminoso con cui si scorge una mana nel tremito di un
fiume, e tuttavia più vero delle sue stesse ossa: una
scintilla,
nascosta sotto la carne imperlata e calda della regina, nel buio
fecondo e antico in cui tutto nasce e tutto si annienta, sospesa
sull'orlo dell'esistenza. Il fuoco di un'anima, di un destino ancora
da plasmare, di una storia ancora fragile e duttile come creta.
Un'altra anima, che solo lei poteva schiudere alla luce, o soffocare
nel buio. Un'altra anima, un altro persecutore, un'altra condanna.
Ealdight
rimase immobile, gli occhi cupi. -Portatemi un catino d'acqua calda,
dei panni morbidi e della garza. Non abbiamo tanto tempo.-.
Il
parto fu lungo, e faticoso. La regina era giovane e sana, ma le sue
anche erano quelle svelte di una cerbiatta orgogliosa, non di una
matrona: il suo ventre era forte, ma inesperto nel dare la vita. Le
contrazioni, apprese, erano cominciate presto, ma senza un'assistenza
adeguata non erano state condotte con la dovuta delicatezza. Serrando
i denti, la levatrice rimproverò la giovane per non averla
convocata
prima, con un poco dell'autorità scarna con cui aveva
accolto le
madri di fronte al suo altare pregno di erbe, lontana dall'audacia
come dal disprezzo. Abbaiò ordini alle ancelle,
tastò ossa ed
umori, alzò la voce oltre le grida strozzate della regina,
le
strinse la mano quando i suoi occhi fieri si adombrarono di paura. Le
chiese di non cedere, di lottare, e di spingere con ogni frammento di
volontà. E Ealdight con lei. Spinsero, aspettarono, spinsero
ancora;
e alla fine, nel frastuono delle urla e delle preghiere, nella
fragranza stordente del mattino e del sangue, due occhi tempestosi si
schiusero per la prima volta al mondo. Mentre avvolgeva il bambino in
un soffice panno di lana, annodando con un gesto esperto il lungo
cordone iridescente e porgendolo alla madre, Ealdight si concesse il
primo vero sorriso da molti giorni. -È
un maschio, mia regina. Robusto e forte, e con gli occhi del colore
dei nostri abissi. -.
La
giovane sorrideva, splendida e disfatta, sfiorando con le dita il
piccolo volto acceso; ma le sue palpebre sussultavano, vinte dal
sonno, e il bambino sembrava tranquillo:la levatrice si protese in
avanti, portandoselo delicatamente tra le braccia.
Ealdight
si allontanò, mentre le servitrici si assiepavano al
capezzale,
cercando un momento di quiete. Il fremito, l'esultanza ubriacante per
aver ancora una volta donato il giorno ad un uomo, le formicolava
ancora nelle ossa; ma un'ombra piombava da guglie lontane, e guastava
la sua gioia. Abbassò il volto, cercando il grande sguardo
chiaro
del neonato, e il suo sorriso divenne amaro. Così
sarai tu, forse, ad abbattere gli ultimi templi, e a uccidere gli
ultimi canti, pensò.
A schiacciare me, o coloro che conoscono le mie stesse strade.
Fu
solo allora che si accorse dell'alba.
Fu
un attimo, un brivido della notte. L'orizzonte scintillò; le
tenebre
divennero più leggere. Il sole traboccò sulla
cima dei boschi, e
d'improvviso l'oro invase tutto, l'arco verde delle colline, le gole
azzurre incise nella roccia, il mare rabbioso che si torceva sotto la
rocca, ardendo il cielo, avvampando nel vento, finché la
luce non
sprofondò tutto in un unico respiro, come un'ala che si
scuote, come
un occhio che si schiude.
L'aurora
tremò nella stanza, e la Dea le sussurrò nel
sangue.
Ealdight
rimase in piedi, raggelata, sbiancata da ciò che vedeva, e
cominciava a percepire.-Sapete già come lo chiamerete, mia
signora?-.
La
donna sembrò riscuotersi. -No, non lo abbiamo ancora deciso.
Perché
me lo chiedi?-.
Ealdight
non disse nulla; sollevò il bimbo che teneva tra le mani, e
i fasci
preziosi del mattino gli cinsero le tempie come una corona. Ora lei
sapeva, sapeva, con la certezza con cui anni prima una ragazzina
dagli occhi troppo grandi aveva saputo di essere nata per comprendere
i misteri teneri e paurosi che si compivano nel ventre delle donne.
Ah,
per questo, Madre, per questo mi hai chiamato?
-Artù- dichiarò solo, voltandosi verso il letto
in cui giaceva la
regina Igraine: -Il suo nome sarà Artù.- .