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Autore: _Diane_    29/09/2012    3 recensioni
Dopo la fine della battaglia di New York contro alieni di vario tipo, ogni vendicatore è tornato alle sue usuali attività. Eccezion fatta che ogni giovedì sera il gruppo si ritrovi alla Stark Tower a vedersi in tutta pace un bel film. Al termine di una serata nella quale è stata proposta la visione di "Ritorno al Futuro", uno Steve ancora incerto del suo posto nel mondo viene colpito da un qualcosa che ne provoca lo svenimento. Al suo risveglio si ritroverà nuovamente spaesato nell'anno... 1991. Tra vecchi amici, nuove conoscenze, molti problemi, riuscirà il nostro Capitan America (alias Jarvis) a cavarsela e tornare a casa?
- Dal Capitolo Dieci -
«Tony Stark?»
Domandò senza mezzi giri di parole la giovane dai capelli rossi.
«Esattamente. E voi non credo siate i fantasmi del Natale passato, presente e futuro di Dickens, vero?»
La ragazza parve sconcertata dal comportamento di chi gli aveva appena aperto la porta. Un turbamento che durò qualche millesimo di secondo, dopo il quale rispose.
«Perché, avresti forse paura di confrontarti con i tuoi peccati, signor Stark?»
Genere: Avventura, Introspettivo, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Sorpresa, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Uno

Well I know the feeling
Conosco la sensazione

Of finding yourself stuck out on the ledge
Di trovarsi bloccato sul cornicione
And there ain’t no healing
E non c’è una guarigione
From cutting yourself with the jagged edge
Dal tagliarsi con il bordo frastagliato

I’m telling you that
Ti sto dicendo che
Its never that bad
Non è mai così male
Take it from someone whose been where you’re at
Fattelo dire da qualcuno che è stato dove sei tu
Laid out on the floor
Disteso sul pavimento
And your not sure
E non sei sicuro
You can take this anymore
Di poterlo più sopportare


Lullaby ~ Nickelback



Capitolo Due


La pala continuava a roteare sopra la sua testa. La poteva osservare nel riflesso del vetro della tv davanti a lui, leggermente ricurvo e non piatto come da qualche mese si era abituato. Ma in realtà i suoi occhi erano persi nel vuoto, come la sua mente. Era in stallo, non voleva saperne di accendersi e mettersi in moto a lavorare su cosa stesse succedendo.
Poi si impose si calmarsi. Quando si era svegliato nella camera d'albergo la "volta precedente" una giovane ragazza era entrata nella stanza, chiedendogli se gli servisse qualcosa.
Per un attimo, aspettò che qualcosa del genere accadesse. Ma la porta rimase chiusa.
Sì sentì un po' uno sciocco. Che fosse un sogno, un incubo, o uno scherzo dei suoi colleghi, lui era Capitan America e non sarebbe entrato nel panico per così poco.
Fece un paio di respiri profondi. Avvertì l'adrenalina scemare via dal corpo, rilassò i muscoli della schiena curvandola leggermente e poggiando la testa tra le mani e i gomiti sulle ginocchia. Come un'elastico che, troppo tirato, una volta tornato al suo stato naturale accusa le fatiche del precedente sforzo, così si sentiva Steve. Improvvisamente lo assalì una fitta alla gamba e al fianco destro, seguita da una più forte alla testa. Istintivamente portò una mano alla nuca e scoprì che era parzialmente fasciata. Si alzò e si trascinò lentamente alla specchiera in legno intarsiato, poco distante. Quei due passi gli produssero un'ulteriore fitta all'altezza del bacino, così si appoggiò al comò con entrambe le braccia per esaminare il suo aspetto.

«Sant'Iddio...»

Furono le uniche due parole che uscirono dalla sua bocca.
Numerosi tagli ornavano il suo volto. Uno in particolare, poco più sopra del labbro, sembrava quasi averlo diviso in due. La testa era stata fasciata da una mano esperta e faceva fuoriuscire qua e là ciuffi di capelli biondi.
Con un po' di fatica aprì qualche bottone della camicia beige che indossava (che sicuramente non gli apparteneva), rivelando qualche abrasione anche sul busto. Provò a voltarsi. La schiena pareva messa meglio, salvo un ematoma di dimensioni considerevoli all'altezza del gluteo destro, che poteva giustificare il dolore al bacino e al relativo arto.
Poi tornò ad osservare il suo volto riflesso nello specchio.
Si passò una mano sulla barba, stranamente incolta, che aveva fatto crescere un paio di curiosi baffi biondi.
Fu in quel momento che Steve prese a ricordare.

"Il giovedì, giovedì sera. La neve. Il film. La Stark Tower. Ancora neve. Poi... il sapore del cemento misto a quello di sangue. Il buio. Una luce. Tony...?"

Le immagini erano scivolate una sull'altra a velocità folle, tanto che Steve dovette appoggiarsi nuovamente al letto per non cadere. Proprio in quel momento una mano cadde sul giornale che aveva causato il black-out nella sua memoria.

Quella data. Venerdì 17 Dicembre 1991.

Questa volta però i suoi occhi scivolarono poco più sotto fino ad osservare tutta la prima pagina del "The Washington Times". Una foto troneggiava tra i caratteri scuri della carta stampata. Furono gli occhi, gli occhi a colpirlo.
Fu allora che capì. Lui conosceva bene quell'uomo.
Non servì nemmeno leggere i titoli grondanti d'inchiostro.
Mentre scioglieva le bende che gli avvolgevano la testa si alzò, riabbottonò la camicia, mise il giornale sotto braccio e si lanciò fuori dalla porta.
Poi giù per le scale.

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«Dove corri così di buona lena, giovanotto?»

Come se fosse stato colto con le mani nel sacco dopo aver fatto qualcosa di sbagliato, Steve di bloccò. Ad un passo dal varcare l'uscita dell'hotel qualcuno gli aveva rivolto la parola, probabilmente il portiere. "Che forse sa anche come sono arrivato qui." Pensò poi.
Steve non potè esimersi dal voltandosi verso chi aveva appena parlato e rimase un poco sorpreso. Davanti a lui lo squadrava un uomo anziano, sull'ottantina, sebbene non si sarebbe mai detto dal tono di voce, cordiale e molto giovanile. I capelli ingrigiti dall'età contornavano il viso leggermente squadrato, al quale si aggiungevano occhiali da vista con lenti tendenti al rosso e un paio di baffi, anch'essi grigi, ma molto curati.

«Il gatto ti ha mangiato la lingua, oltre che ridurti in quel modo la faccia?»

Chiese ancora il portiere, non dando a Steve nemmeno il tempo di pensare ad una risposta.

«Io... ehm, veramente...»

«Sì certo, non mi devi raccontare nulla. Il tuo amico che ti ha portato qui mi ha detto della sbronza che hai preso di ieri sera! Ha dovuto portarti pure in spalla, e dalla tua corporatura dedico che tu non sia proprio un peso piuma ragazzo!»

Il tizio sembrava ridere di gusto. Steve cercò di assecondare la situazione, sebbene sapeva d'essere un pessimo attore.

«Uhm sì, bere troppo fa male, giusto?» Se solo non fosse che, grazie al siero del supersoldato, non sarebbe mai stato ubriaco in vita sua.
«Ma una domanda; ho un po' di confusione in testa... questo mio... "amico", che aspetto aveva?»

«Annebbiato dai fumi dell'alcool, eh? Comunque in realtà non saprei aiutarti, a parte che era un uomo alto, credo sulla quarantina. Portava un cappuccio calato sul volto e ha pagato in contanti - pure in anticipo - per te. Cos'altro avrei dovuto chiedergli?»

Poi il portiere fece un paio di passi in avanti verso il nostro, con fare indagatore.

«Ragazzo... Noi due ci conosciamo?»

Il portiere, nonostante l'età, si avvicinò così repentinamente a Steve che questi, indietreggiando con il busto per la sorpresa, non si accorse che gli fosse scivolato il giornale da sotto braccio. Finì a terra, da dove l'anziano signore lo raccolse.

«Uhm, ma vedo che hai un impegno oggi. Ci saranno migliaia di persone da tutto il mondo a quel funerale; se ci devi andare ti conviene farlo subito, puoi passare dopo a lasciarmi il nome per la registrazione.»
 
Quel signore aziano dalla parlantina così gentile e il sorriso bonario l'aveva completamente distratto. Il giornale lo fece tornare all'amara realtà. L'uomo glielo porse e lui lo rimise al sicuro sottobraccio.

«Lo... lo conosceva?» Chiese stupidamente senza pensarci.

«Dici di nome? Oh, non credo che ci fosse una singola persona sulla Terra che non lo conoscesse!
Perché, chi sei tu per aver conosciuto personalmente Howard Stark

«Io no, io... Nessuno

E corse fuori.

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Steve si mise a correre.
Non aveva soldi per prendere un taxi e comunque non se la sentiva di volerlo prendere.
Aveva già vissuto abbastanza esperienze "strane" in vita sua, anche se sperava ancora si trattasse di un incubo o di un brutto scherzo di qualcuno. Ma se ci fosse stata anche la minima possibilità di aver fatto un salto nel passato, allora... Vi avrebbe interferito il meno possibile. Nella mente erano impressi i fotogrammi dei film che gli altri Avengers lo avevano costretto a vedere, e non sarebbe certo incorso nel pericolo di causare qualche disastro temporale. Sperava che non fosse vero, ma nel caso lo fosse tentò di prepararsi.

Certamente, correre in camicia tra le strade affollate di New York in inverno inoltrato non era il massimo della discrezione. Steve cercò comunque di mantenere una velocità contenuta e di evitare le strade affollate. Almeno della neve che ricordava coprire con un manto la città non v'era più traccia.
Infine, al ritmo di "scusate" e "con permesso", riuscì ad arrivare all'ingresso del cimitero di Woodland - così come il giornale riportava - appena qualche miglio fuori dalla caotica città di blulicanti grattacieli.

Poi, dopo aver scavalcato alcune decine di persone si fermò improvvisamente e...
E lo vide.
Lo vide e la preparazione mentale alla quale aveva cercato di sottoporsi rivelò tutta la sua inutilità.
Lo vide e la realtà piombò decisa e pesante sulle spalle di Steve, come un pugno di Hulk.
Lo vide e avrebbe tanto voluto poggiarsi sul suo scudo per non crollare a terra. Ma era chissà dove, forse sepolto ancora tra i ghiacci.
Lo vide e capì che, purtroppo, non si trattava né di un sogno né di uno scherzo.

Era attorniato da moltissima gente, quasi tutta appartenente alla classe dirigente americana. Almeno quella stretta attorno alle semplici bare di legno chiaro, al fianco delle quali lui si ergeva in piedi ritto come un fuso. Aveva la testa inclinata di lato, lo sguardo basso, perso tra i ciottoli di ghiaia che componevano il viale. Le braccia conserte, l'atteggiamento distante. Non applaudì a nessun dicsorso che veniva proferito in ricordo dei genitori defunti, né volle prender parola.
Oltre alla sua impassibilità, Steve notò la sua immobilità. Non mosse un solo muscolo.
Poi, quando il prete intonò il canto e la due bare cominciarono la lenta discesa nella buca scavata nella terra, lui alzò lo sguardo.
Steve vide i suoi giovani occhi castani, freddi ed impassibili, inondarsi di lacrime. Rigavano il suo volto, ma lo facevano in un silenzio quasi surreale.

Il cuore di Steve si fermò quandi ebbe l'impressione che stesse guardando nella sua direzione, quasi stesse cercandolo. Quegli occhi, quello sguardo... Stava già per scavalcare le poche persone che gli mancavano dal raggiungerlo quando si rese conto di una cosa.
Lì, alla fine del ventesimo secolo.
Lì, tra tante persone che non conosceva.
Lì, Steve non era nulla, per lui.

Abbassò il volto e vi passò una mano sopra, come per calmarsi. Poi lo rialzò e... non lo vide più.
Spostò freneticamente lo sguardo a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra e a sinistra, ma nulla.

Ossigeno.
Era in carenza di ossigeno.
Involontariamente si spostò di lato, urtando leggermente uno dei tanti distinti signori presenti al funerale.

«Stia più attento, per la miseria

Steve accennò ad un "mi scusi" mentre l'uomo si allontanava da lui con la moglie sottobraccio.

«Dai caro, non essere sempre così scortese!»

Il Capitano credette di riconoscere quella voce. Alzò lo sguardo, ma anche lei era sparita.
Gli venne in mente l'incubo di qualche ora prima, le ombre che lo inseguivano. Mentre i suoi polmoni assaporavano l'ossigeno pulito come se non l'avessero mai fatto maledì mentalmente il destino, così diabolicamente beffardo nei suoi confronti.

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Nel tentativo di non divenire completamente pazzo, prese a camminare.
Vagò senza meta, lo fece per quelle che gli sembrarono alcune ore. Si perse fino ai meandri più solitari e silenziosi del gran cimitero. Gli sembrava impossibile che, a pochi passi da una città con grattacieli altissimi onnipresenti dietro alle chiome degli alberi, potesse esistere ancora un luogo naturale così vasto. Un dolce balsamo che servì a lenire le sue ferite, sia spirituali che fisiche.
Ma poi nel suo vagare, arrivò laddove non voleva arrivare.

Una semplice lastra di pietra grigia era stata posta in tutta fretta dopo il funerale, probabilmente provvisoria prima di una più sfarzosa e monumentale. Recava semplicemente i nomi dei due coniugi. Una bella foto dei defunti, abbracciati e sorridenti, era stata lasciata da qualcuno ai piedi della stessa.

Howard Anthony Walter Stark
Maria Collins Carbonell Stark

Steve si avvicinò. Chinandosi un poco in avanti, prese delicatamente tra le mani la fotografia.
Sebbene avesse già rivisto il suo volto grazie al necrologo del giornale, si stupì di come non fosse più di molto cambiato dal giovane, brillante e maldestro inventore che aveva conosciuto negli anni '40. I lineamenti erano solcati dall'inevitabile scorrere del tempo ma l'espressione, lo sguardo, persino i baffi e il modo di vestire non erano cambiati di molto.
Senza rendersene conto si trovò a sorridere di rimando a quei due visi, quello di Howard e della moglie, così semplicemente spensierati.
Non si accorse nemmeno della pioggia che, gelida e fredda come sapeva essere il 17 Dicembre, prese a cadere copiosa dal cielo una goccia dopo l'altra.
Se ne stava fermo in piedi, a snocciolare mentalmente brandelli di memoria.

Lui che osservava la macchina volante, che però subito dopo piombava con un suono sordo sul palco.
Loro due in piedi stupiti uno affianco all'altro, mentre Peggy sparava alcuni colpi decisi contro il nuovissimo scudo in vibranio.
La sua determinazione mentre lo portava con l'aereo tra le fiamme dell'inferno.

Poi d'un tratto si rese conto che tutt'intorno continuava a piovere, mentre su di lui non più.

«Non so perché, ma la scelta di andarsene in giro a dicembre solo con una camicia non mi sembra una buona scelta.»

Steve sobbalzò, letteralmente. Così tanto che urtò le aste metalliche dell'ombrello sopra di lui, facendolo scivolare dalle mani di chi lo stava tenendo. Si posò, cadendo, a pochi passi da loro.
Senza dare ascolto ai pensieri che presero a rimbalzare nella sua testa, richiamò tutte le sue forze e riuscì a focalizzare l'attenzione sull'ombrello nero. Si chinò, lo raccolse e si avvicinò al ragazzo che l'aveva perso, fino a coprirlo nuovamente.

«Mi dispiace io... non volevo.»

«Nessun problema

Steve non alzò lo sguardo. Il volto volutamente chino, fissava con poca attenzione la diversa dimensione dei ciottoli di ghiaia sparsi sotto i suoi piedi. Nonostante l'agitazione e il cuore che batteva a mille, non potè fare a meno di sorprendersi all'udire quelle poche parole. Non un velo di ironia, né di sfrontatezza. Solo buonsenso e cortesia.

«Prima, sai prima ti ho notato. Una persona vestita normalmente su un totale di un migliaio camuffate con abiti neri lunghi non può non saltare all'occhio.»

Poi, puntanto il dito, sembrò rivolgere la sua attenzione alla foto che Steve continuava ancora a tenere stretta nella mano che non teneva l'ombrello.

«Come li conoscevi?»

«No, non... In realtà conoscevo solo tuo padre. Un amico di vecchia data.»

Steve riuscì a scandire le parole "tuo padre" una di seguito all'altra con molta fatica.

«Di "vecchia data"...?»

Troppo tardi capì l'errore commesso. Non era riuscito nemmeno ad articolare due parole di fila che già i due neuroni rimasti nel suo cervello non riuscivano bene a comunicare.
"Steve maledizione, tu e lui in quest'epoca è come se avete quasi la stessa età, come diamine può Howard essere per te un'amico di vecchia data?"
Fu l'altro a rompere silenzio formatosi tra di loro, che aveva come sottofondo il tamburellare della pioggia sull'ombrello sotto il quale ancora sostavano.

«Qual'è il tuo nome?»

Steve cadde nel panico. Già. Come si chiamava lui?

«Jarvis. Puoi chiamarmi semplicemente... Jarvis.»

«Jarvis. E cosa fai a Manhattan, Jarvis?»

«Faccio il maggiordomo.»

«Un maggiordomo, eh?»

Cominciò a smettere di piovere.

«Ne sto giusto cercando uno.»

Smise completamente di piovere. Lui gli porse la mano.

«Il mio nome è Tony, Tony Stark. Ti aspetto domani mattina per vedere come te la cavi, ore 10.00, la villa tra la sedicesima e la quindicesima.»

Steve non lo vide neppure allontanarsi, tanto era assopito. Semplicemente non percepì più la sua presenza al suo fianco.
E si chiese cosa diamine stesse facendo con l'ombrello aperto, sebbene non piovesse più.







Note finali:


Dunque. Ho adorato questo capitolo ancora prima che prendesse vita. Mi piacerebbe essere riuscita a mettere su carta almeno un centesimo le emozioni che inondavano il mio cervello durante la scrittura di questo capitolo! Ne sarei davvero felice. Per me si è rivelato particolarmente coinvolgente, soprattutto in alcuni passi! Spero piaccia anche a voi!

Precisazioni varie (in realtà solo due):

1) Avete indovinato chi è in realtà l'anziano signore, il portiere dell'hotel dove soggiorna attualmente Steve? E' una misera imitazione di un cameo del grandissimo disegnatore della Marvel Stan Lee. Anche se purtroppo ho letto delle dichiarazioni un po' preccupanti apparse questa settimana sul web! Stan, facciamo tutti il tifo per te! (Link: http://www.bestmovie.it/news/luniverso-marvel-rischia-di-perdere-stan-lee/181243/)

2) La data del funerale di Howard e Maria Stark, genitori di Tony, è presa direttamente dal giornale che si intravede nella presentazione iniziale del film "Iron Man". In realtà si tratta della data di morte dei due, ma ho scelto di adattarla e trasformarla come se fosse quella dei funerali.

Altro? Non so, ditemi voi nel caso avessi omesso di spiegare qualcosa! Fatemelo sapere nei commenti! :)
Colgo l'occasione per ringraziare infinitamente Alley per le recensioni splendide che lascia a questi miseri scritti e tutti quelli che hanno inserito questa fiction nelle storie "seguite"! Aspetto anche un vostro parere, per me è davvero importantissimo!

Alla prossima! :)

_Diane_




   
 
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